«Posso
lasciare il lavoro e venire non appena-»
«Arthur, no, ho detto
di no.»
«Non mi hai lasciato nemmeno finire la frase!»
«Avresti
ripetuto la stessa cosa che hai detto cinque minuti fa. Ti ho detto
di no, ti ho detto che non è possibile.»
«Mi stai prendendo in
giro? Lo sai che non mi piace quando la gente mi prende in
giro!»
Arthur strinse il cellulare tra le dita. Dalla forza che
stava imprimendo alla sua presa (probabilmente voleva sfogare un po'
del dolore e dell'adrenalina che aveva in corpo) pensava che ben
presto si sarebbe sbriciolato e che sarebbe caduto a terra in tanti
minuscoli pezzettini misti a polvere. La tecnologia gli era stata
avversa più o meno dal giorno della sua nascita, gli aveva
ribadito
tutto il suo disprezzo al suo quinto compleanno, quando Arthur aveva
drammaticamente infilato un dito in una presa elettrica
perché aveva
visto un pixie infilarcisi dentro, e ancora oggi voleva dimostrargli
tutta l'incompatibilità che contraddistingueva il loro
rapporto.
Sapere, poi, che i circuiti andavano in tilt (o qualcosa del
genere) con l'acqua, era la prova matematica che un londinese non
poteva avere un cellulare. La sua era diventata una filosofia di
vita: uno nasce inglese e quindi disprezza la tecnologia per partito
preso.
«Ti ho ripetuto altre sei volte che sono serio.»
«Alfred,
qui sta piovendo e questo cellulare mi sta facendo innervosire.
Possiamo risentirci più tardi?»
«No.»
E dire che lui aveva
anche amato il display che si era illuminato, per un attimo,
perché
leggere il nome “Alfred” col sottofondo della
suoneria del
cellulare era stato veramente liberatorio. Forse una telefonata il
giorno di San Valentino non era sufficiente ad annullare la distanza
di un oceano, ma ad Arthur bastava quella voce – quella
bellissima
e forse un po' squillante voce – che sussurrava il suo nome e
lo
faceva sembrare dannatamente bello. Tutto il resto spariva –
la
pioggia, Londra, il suo impermeabile e perfino il cellulare –
ingoiato dalla sensazione rassicurante della bocca di Alfred.
«Allora
domani?»
«Arthur, non credo che dovremmo più
sent-»
«No!
Oggi è San Valentino! Sei solo uno zotico newyorkese, lo
sai? Oggi
dovresti dirmi che mi ami e che mi stai aspettando all'aeroporto,
perché ti mancavo da impazzire e allora sei venuto da me in
Inghilterra!»
Arthur, nel bel mezzo della scenata, aveva anche
avuto la netta impressione di stare sull'orlo di una crisi isterica.
Aveva urlato abbastanza e la gente che lo fissava vagamente allibita,
come se si fosse trattato di uno psicopatico, ne era la prova. E
sentiva anche la gola bruciare, mentre la sua trachea cercava di
catturare più ossigeno possibile.
Dannazione a lui, ad Alfred e
alle figure di merda – ecco, adesso pensava anche parolacce
che non
avrebbe mai pronunciato.
«Arthur...»
«Sei soltanto un
dannatissimo idiota!»
«Ascolta, io-»
«Non ti sei nemmeno
preso la briga di trovarti un lavoro, ora hai anche la faccia tosta
di venirmi a dire che è anche colpa mia se non riusciamo mai
a
vederci?»
«Ripeti in continuazione che hai da pensare al tuo
lavoro, come credi che mi senta io? Sembra che tu metta ogni cosa
davanti a me, è un comportamento egoista!»
«Ma è così!»
«E
allora non fare tante storie. La colpa non è soltanto
mia.»
Alcuni
dicevano che per controllare il proprio istinto omicida o un meno
pericoloso crollo di nervi, bastava prendere un profondo respiro e
contare fino a dieci. Arthur lo faceva spesso (quasi sempre in
presenza di Alfred che criticava la sua cucina, i suoi deliri da
ubriaco o il suo modo di vestire), ma non funzionava mai. Allora la
voglia di lanciare il cellulare contro quel passante con l'ombrello
color magenta diventava veramente troppa, perché non si
poteva
fissare una povera vittima mentre litigava al telefono per di
più
con il suo ragazzo, per di più il giorno di San Valentino e
per di
più sotto la pioggia.
«Quindi finiamola qui, non mi va di
continuare a discutere.»
«Sei soltanto uno schifoso
ingrato.»
«Lo so, me lo hai detto un sacco di volte,
Arthur.»
«Vaffanculo.»
«Ci sentiamo.»
Da quel giorno
Arthur odiò la tecnologia con tutto se stesso,
perché se l'unico
modo di comunicare consisteva nei segnali di fumo o in un piccione
viaggiatore... Ben venga, almeno Alfred, per lasciarlo, avrebbe
dovuto farsi otto stressanti ore di aereo. E magari gli avrebbero
anche perso la valigia.
Arthur
non aveva mai inserito i propri dati anagrafici in quella categoria
di persone che aveva la strabiliante capacità di prevedere i
disastri meteorologici e le calamità naturali.
Chiaramente, sin
dalla nascita, se ne era chiamato fuori, da questa ristrettissima
cerchia; non per codardia (il suo orgoglio britannico gli impediva di
provare questo genere di sentimenti), né per altro. Arthur
aveva
semplicemente voluto evitare che al mattino la lettura del Times o
del Daily Telegraph fosse accompagnata da quella odiosa sensazione di
catastrofe incombente che creava un macigno più o meno
all'altezza
dello stomaco e che, di conseguenza, gli impediva anche di
sorseggiare il suo tea in tranquillità. Restare nella totale
ignoranza, invece, aveva reputato essere a volte la scelta migliore
da poter prendere.
Quando Arthur, dunque, aveva aperto gli occhi e
fatto un ragionamento veloce, aveva capito che era arrivato quel
giorno. Perché quella sensazione di vuoto nel petto,
più o meno a
sinistra, non poteva significare che una cosa soltanto.
Si
sforzava di ripetersi che era un giorno come tutti gli altri, nessuna
ricorrenza, nessun evento particolare, un normalissimo giorno durante
il quale, per motivi di forza maggiore, lui non poteva andare a
lavoro. Gli era stato categoricamente vietato circa due mesi prima,
quando quella che aveva tutta l'aria di essere una rosa rossa gli era
sfilata davanti agli occhi accompagnata dall'orribile frase
“e a
San Valentino ti porterò a Parrrì”
Arthur si passò una mano
sugli occhi e si alzò a sedere. Lì sotto qualcosa
faceva un po'
male, ma per il resto non sembrava esserci niente di strano nella sua
camera. Quando dunque cercò di infilarsi ancora per un po'
sotto le
lenzuola e quando invece del letto trovo qualcosa di rigido e freddo,
sussultò.
Lui lo chiamava “stupida rana”, per il semplice
fatto che riconosceva di convivere con una persona dall'intelligenza
veramente limitata e che aveva tutte le fattezze di un principe
azzurro fasullo. Accento francese e barbetta incolta compresi. Arthur
aveva inizialmente provato odio nei suoi confronti, quando, alla
fermata del London Bus, aveva provato a molestarlo. Poi ci aveva
fatto l'abitudine, alle continue telefonate e alla sua auto
parcheggiata sul viale di casa sua.
Piano piano Francis si era
insinuato nella sua vita senza nemmeno chiedere il permesso; Arthur
non aveva provato a respingerlo ancora, sia perché sarebbe
stato
inutile, sia perché, da una parte, capiva che ne aveva
bisogno –
anche se non l'avrebbe ammesso nemmeno se gli avessero puntato un
fucile alla nuca.
Arthur scosse la testa, probabilmente per
spingere via dal cervello ogni pensiero rivolto a Francis, e prese in
mano la scatola di cioccolatini. Francis affermava fieramente di
essere la persona più romantica del mondo e faceva di tutto
per
dimostrarlo. Arthur, in cuor suo, sembrava trovarlo rassicurante.
Odiava fare paragoni con Alfred, perché sapeva benissimo che
Francis non avrebbe retto il confronto, eppure non riusciva a farne a
meno. Alfred voleva dimostrare il suo amore al mondo intero, Francis,
forse, voleva compiacere se stesso. Fondamentalmente non era per
egoismo, lui voleva semplicemente sentirsi all'altezza di Arthur, di
Arthur che, invece, lo reputava molto coraggioso, in quanto ammetteva
senza troppe difficoltà di essere gay e di essere francese
– e le
due cose coincidevano più spesso di quanto potesse
sembrare.
«Stupida rana», Arthur si infilò un
cioccolatino in
bocca e fece una smorfia inacidita, perché la cosa che lo
faceva
innervosire stava nel fatto che erano ottimi, «tu e tutti i
tuoi
regali inutili.»
Sperò vivamente che non provenissero dalla
Francia, altrimenti gli sarebbe venuto qualcosa come... Una malattia
venerea? Arthur non ne aveva idea, ma gli bastava sapere che oltre la
Manica ci fosse l'anticristo per avere quell'impressione.
Arrivato
più o meno al settimo cioccolatino – niente a che
fare con gli
scones, le sue adorate focaccine avevano un che di patriottismo
britannico ogni volta che le mangiava – sentì
chiaramente il
rumore dell'auto che si parcheggiava nel vialetto.
Arthur
conviveva con un mal di schiena cronico. Alfred giustificava la cosa
dicendo “tu sei nato vecchio”, Francis sosteneva in
continuazione
che l'unico rimedio fosse l'esercizio fisico. Di che tipo di
esercizio fisico si trattasse, poi, non era lecito saperlo.
Ma
nonostante ciò, scattò giù dal letto
come se avesse avuto ventitré
anni (effettivamente lui aveva ventitré anni, ma la gente
era solita
attribuirgliene almeno quindici in più) e con la prontezza
di un
lemure si era defilato in bagno – ovviamente dopo aver
nascosto il
misfatto (carte di cioccolatini e scatola a forma di cuore) sotto le
lenzuola per non destare alcun sospetto.
Era il primo San
Valentino che trascorreva con qualcuno da tre anni a quella parte.
Beh, il primo dopo, ovviamente, quell'orribile avvenimento che lui
era solito chiamare
il-giorno-in-cui-Alfred-si-assicurò-una-morte-lenta-e-dolorosa.
Perché Arthur se l'era ripromesso, che un giorno sarebbe
tornato in
America e l'avrebbe strozzato con le sue stesse mani, sputandogli
addosso tutto il veleno possibile (quello che teneva ancora nel
cuore) e prendendolo a sprangate subito dopo.
Arthur afferrò lo
spazzolino con tanta di quella forza che rischiò di
spezzarlo.
Pensare ad Alfred lo faceva diventare violento e maleducato, quando
lui, invece, voleva avere tutto il self-control di questo mondo per
comportarsi come un degno gentleman britannico. Ecco, questa era
indubbiamente un'altra cosa che odiava di quel ragazzo, oltre alla
sua orribile giacca marrone, ai suoi occhiali, alla sua pancia, a
tutti quegli schifosissimi hamburger che ingurgitava con ritmo
incalzante a partire da-
«Arthur?»
La voce di Francis
proveniva dalla camera da letto e sembrava dannatamente allegra
–
in fondo quello era il suo habitat naturale, un po' come la Guinea e
il Congo per i gorilla. Uhm, i gorilla si sarebbero adirati se
avessero scoperto di essere stati infilati nella stessa frase con
Francis.
Arthur spazzolò i denti con più energia, di certo
non
gli avrebbe dato la soddisfazione di fargli sapere che i suoi
ridicoli cioccolatini non l'avevano ucciso, nonostante Francis gli
ripetesse continuamente che doveva davvero avere uno stomaco di ferro
se, dopo aver vissuto per ventitré anni in Inghilterra, il
suo
fegato non si era ancora disintegrato in tante minuscole molecole di
scones.
«Sei qui~»
Arthur osservò il suo riflesso nello
specchio. Se c'era una cosa che un giorno avrebbe preso a pugni, era
la sua faccia. Con quella barbetta incolta e quel sorriso che
lasciava intendere che lui fosse un esperto su parecchie cose
–
quando non era nemmeno così bravo. Francis non sapeva fare
altro che
destreggiarsi sotto le lenzuola (anche se quando l'avevano fatto sul
mobiletto in corridoio, non gli era dispiaciuto poi così
tanto).
«Non volevo svegliarti e così sono andato a fare
una
passeggiata.»
Arthur fece ciò che gli riusciva meglio – no,
non attaccarsi a una bottiglia di scotch e bere fino a vomitare
l'anima. Lo ignorò completamente e continuò a
lavarsi i denti con
naturalezza, come se dietro di lui non ci fosse un francese romantico
(e probabilmente anche un po' arrapato) che gli baciava il collo e
gli accarezzava dolcemente una spalla.
«E allora ho pensato che a
te questo giorno non piace, quindi volevo renderlo più
bello.»
Dio,
fa' che non mi proponga un'umiliante passeggiata lungo gli Champs
Elyseés.
«Non sei d'accordo?»
«Forse.»
«Forse?»
«Se
fai il bravo.»
Francis sorrise ancora e gli baciò una guancia.
Arthur sentì il peso nel petto scomparire piano piano e nel
frattempo la brutta faccia di Alfred si dissolveva lentamente.
«Sono
già stato bravo, lo sai?»
«E perché mai, stupida
rana?»
«Indovina.»
Agitò qualcosa che reggeva dietro la
schiena, Arthur scattò sull'attenti e allungo il collo per
poterne
vedere il riflesso.
Stupido lui, che voleva fare il sostenuto e
alla fine finiva per cedere – non solo quando era ubriaco e a
termine serata camminava in mezzo ai suoi amici (altrettanto
ubriachi) con un libretto per le ordinazioni in mano. O quando lo
chiamavano “autore del terrorista alimentare” e si
ritrovava
costretto a borbottare qualche insulto velato e abbandonare i
fornelli, causando un sospiro di sollievo nella maggior parte dei
presenti.
Ma quando vide Francis e il suo sorriso, Arthur non
riuscì a resistere. Era sicuro che, almeno a San Valentino,
il suo
regalo non poteva consistere in un vibratore, né in un
frustino o un
paio di manette. Perché lui era isterico, il giorno di San
Valentino, e Francis ci teneva ai suoi capelli – e quando
l'inglese
li artigliava con tutte e dieci le dita, non li lasciava andare fino
a che non ne avesse strappato una quantità soddisfacente di
ciocche.
«Per chi è?»
«Non fare l'ingenuo, lo sai
benissimo~»
Arthur arricciò il naso, una rosa rossa spuntava da
dietro la sua schiena. Gli aveva portato dei fiori, come facevano
tutti i fidanzati normali. Alfred non gli aveva mai portato dei
fiori, Alfred aveva sempre pensato ai suoi stupidi videogames. Non
facevano nemmeno abbastanza sesso, secondo lui, e di certo non glielo
poteva andare a dire.
Francis gli portava dei fiori e dei
cioccolatini il giorno di San Valentino e con lui Arthur aveva
provato il miglior sesso della sua vita. In più poteva
chiedere alla
vita di avere soltanto un vero unicorno legato in giardino e, per
quanto lui potesse avere un debole per gli esseri fatati, pensava che
tutto fosse perfetto così.
«Sono per me», Arthur accennò ai
fiori con la testa, continuando a guardare il riflesso di Francis
nello specchio, «vero?»
Che poi, questo gli bastava, perché la
stessa cosa che gli mancava, era quella che odiava tanto.
«E
altrimenti per chi, eh?»
«Stupida rana, cosa ne posso sapere
io.»
Arthur abbassò il viso, cercava di lasciarsi ipnotizzare
dall'orlo del pigiama, perché sapeva di essere completamente
rosso.
Che cosa imbarazzante, lui aveva un'invidiabile dignità di
gentleman
britannico da difendere con le unghie e coi denti – visto
che,
comunque, era una delle poche cose che gli restavano.
«Sono per
te», gli soffiò in un orecchio, «anche
se so già che me li
sbatterai in faccia e che mi urlerai di sparire. Ma prima che tu lo
faccia per davvero, ti ricordo che questa è casa
mia~»
«Non
avevo intenzione di fare scenate, non preoccuparti.»
«Ma è San
Valentino!»
Arthur gli affondò una gomitata nello stomaco;
Francis arricciò le labbra contro la sua spalla e lo
abbracciò.
«Non sono arrabbiato ad ogni San Valentino. Non a questo
almeno.»
E poi le braccia attorno ai fianchi, il mento docilmente
appoggiato alla sua spalla sinistra e il groviglio di mani sulla sua
pancia. Arthur si era sentito felice poche volte – ancora
meno
erano quelle in cui aveva realmente dimostrato di esserlo, quel
giorno (nonostante fosse quel giorno) rientrava tra esse e
probabilmente si piazzava anche al primo posto di una classifica
improvvisata.
«E vuoi darti una mossa con quei fiori?!»
«Oh,
sei impaziente anche oggi, Arthur~»
Quando Arthur poté
finalmente reggere tra le proprie mani il regalo che gli spettava di
diritto in quanto
fidanzato-portato-a-Parigi-contro-la-propria-volontà
si sentì
così felice da reputarsi contemporaneamente la persona
più sciocca
del mondo.
E infine c'erano le labbra di Francis, che forse
completavano quel quadretto troppo romantico per i suoi standard. Sul
collo, sul mento, lungo la linea della mandibola, sullo zigomo. E ci
fu qualcosa (Arthur non sapeva esattamente cosa) che sembrava tanto
una scarica elettrica; forse il corpo di Francis premuto contro il
suo, forse la sua mano che si era data all'intrepida esplorazione dei
pantaloni del pigiama, forse le bocche inchiodate l'una sull'altra.
Nemmeno Francis sapeva cosa fosse esattamente – ma va
ricordato che
lui era una persona dal basso quoziente intellettivo (almeno secondo
Arthur).
Le pareti del bagno erano scomparse, il mazzo di fiori
era ancora stretto tra cinque dita, il pigiama... Anche quello era
scomparso. La porta della camera da letto si chiuse e ciò
che
accadde dopo fu allo stesso tempo strano, romantico, meraviglioso e
molto, molto francese.
Era buffo
come una persona potesse sentirsi in paradiso e non darlo nemmeno a
vedere. Era buffo che Francis potesse sconvolgerlo così
profondamente (anche se era uno stupido, un maniaco, un vinofilo e
una rana) senza nemmeno (forse) rendersene conto.
Btw,
vorrei ringraziare tutti quelli che hanno recensito Quei
due che (forse) trovarono l'amore nel cofano di un fuori-strada rosso
fuoco.
e Lui,
che era un cane più o meno dalla nascita, mi avete fatta
tanto felice con tutti i vostri commenti, sappiatelo. *___*
In ultimo, questa storia si è classificata prima al contest di San Valentino indetto dal forum Secret Island GdR.
Il
FrUK c'è e voi non potete farci nulla. ♥
Dedicata alla mia rana, perché è una persona (un po' maniaca) veramente speciale. ♥