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Autore: ballerinaclassica    14/02/2010    11 recensioni
Quell'orribile avvenimento lui era solito chiamarlo il-giorno-in-cui-Alfred-si-assicurò-una-morte-lenta-e-dolorosa. Perché Arthur se l'era ripromesso, che un giorno sarebbe tornato in America e l'avrebbe strozzato con le sue stesse mani, sputandogli addosso tutto il veleno possibile (quello che teneva ancora nel cuore) e prendendolo a sprangate subito dopo.
San Valentino molto Fr♥UK
Genere: Romantico, Introspettivo, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: America/Alfred F. Jones, Francia/Francis Bonnefoy, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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«Posso lasciare il lavoro e venire non appena-»
«Arthur, no, ho detto di no.»
«Non mi hai lasciato nemmeno finire la frase!»
«Avresti ripetuto la stessa cosa che hai detto cinque minuti fa. Ti ho detto di no, ti ho detto che non è possibile.»
«Mi stai prendendo in giro? Lo sai che non mi piace quando la gente mi prende in giro!»
Arthur strinse il cellulare tra le dita. Dalla forza che stava imprimendo alla sua presa (probabilmente voleva sfogare un po' del dolore e dell'adrenalina che aveva in corpo) pensava che ben presto si sarebbe sbriciolato e che sarebbe caduto a terra in tanti minuscoli pezzettini misti a polvere. La tecnologia gli era stata avversa più o meno dal giorno della sua nascita, gli aveva ribadito tutto il suo disprezzo al suo quinto compleanno, quando Arthur aveva drammaticamente infilato un dito in una presa elettrica perché aveva visto un pixie infilarcisi dentro, e ancora oggi voleva dimostrargli tutta l'incompatibilità che contraddistingueva il loro rapporto.
Sapere, poi, che i circuiti andavano in tilt (o qualcosa del genere) con l'acqua, era la prova matematica che un londinese non poteva avere un cellulare. La sua era diventata una filosofia di vita: uno nasce inglese e quindi disprezza la tecnologia per partito preso.
«Ti ho ripetuto altre sei volte che sono serio.»
«Alfred, qui sta piovendo e questo cellulare mi sta facendo innervosire. Possiamo risentirci più tardi?»
«No.»
E dire che lui aveva anche amato il display che si era illuminato, per un attimo, perché leggere il nome “Alfred” col sottofondo della suoneria del cellulare era stato veramente liberatorio. Forse una telefonata il giorno di San Valentino non era sufficiente ad annullare la distanza di un oceano, ma ad Arthur bastava quella voce – quella bellissima e forse un po' squillante voce – che sussurrava il suo nome e lo faceva sembrare dannatamente bello. Tutto il resto spariva – la pioggia, Londra, il suo impermeabile e perfino il cellulare – ingoiato dalla sensazione rassicurante della bocca di Alfred.
«Allora domani?»
«Arthur, non credo che dovremmo più sent-»
«No! Oggi è San Valentino! Sei solo uno zotico newyorkese, lo sai? Oggi dovresti dirmi che mi ami e che mi stai aspettando all'aeroporto, perché ti mancavo da impazzire e allora sei venuto da me in Inghilterra!»
Arthur, nel bel mezzo della scenata, aveva anche avuto la netta impressione di stare sull'orlo di una crisi isterica. Aveva urlato abbastanza e la gente che lo fissava vagamente allibita, come se si fosse trattato di uno psicopatico, ne era la prova. E sentiva anche la gola bruciare, mentre la sua trachea cercava di catturare più ossigeno possibile.
Dannazione a lui, ad Alfred e alle figure di merda – ecco, adesso pensava anche parolacce che non avrebbe mai pronunciato.
«Arthur...»
«Sei soltanto un dannatissimo idiota!»
«Ascolta, io-»
«Non ti sei nemmeno preso la briga di trovarti un lavoro, ora hai anche la faccia tosta di venirmi a dire che è anche colpa mia se non riusciamo mai a vederci?»
«Ripeti in continuazione che hai da pensare al tuo lavoro, come credi che mi senta io? Sembra che tu metta ogni cosa davanti a me, è un comportamento egoista!»
«Ma è così!»
«E allora non fare tante storie. La colpa non è soltanto mia.»
Alcuni dicevano che per controllare il proprio istinto omicida o un meno pericoloso crollo di nervi, bastava prendere un profondo respiro e contare fino a dieci. Arthur lo faceva spesso (quasi sempre in presenza di Alfred che criticava la sua cucina, i suoi deliri da ubriaco o il suo modo di vestire), ma non funzionava mai. Allora la voglia di lanciare il cellulare contro quel passante con l'ombrello color magenta diventava veramente troppa, perché non si poteva fissare una povera vittima mentre litigava al telefono per di più con il suo ragazzo, per di più il giorno di San Valentino e per di più sotto la pioggia.
«Quindi finiamola qui, non mi va di continuare a discutere.»
«Sei soltanto uno schifoso ingrato.»
«Lo so, me lo hai detto un sacco di volte, Arthur.»
«Vaffanculo.»
«Ci sentiamo.»
Da quel giorno Arthur odiò la tecnologia con tutto se stesso, perché se l'unico modo di comunicare consisteva nei segnali di fumo o in un piccione viaggiatore... Ben venga, almeno Alfred, per lasciarlo, avrebbe dovuto farsi otto stressanti ore di aereo. E magari gli avrebbero anche perso la valigia.


Arthur non aveva mai inserito i propri dati anagrafici in quella categoria di persone che aveva la strabiliante capacità di prevedere i disastri meteorologici e le calamità naturali.
Chiaramente, sin dalla nascita, se ne era chiamato fuori, da questa ristrettissima cerchia; non per codardia (il suo orgoglio britannico gli impediva di provare questo genere di sentimenti), né per altro. Arthur aveva semplicemente voluto evitare che al mattino la lettura del Times o del Daily Telegraph fosse accompagnata da quella odiosa sensazione di catastrofe incombente che creava un macigno più o meno all'altezza dello stomaco e che, di conseguenza, gli impediva anche di sorseggiare il suo tea in tranquillità. Restare nella totale ignoranza, invece, aveva reputato essere a volte la scelta migliore da poter prendere.
Quando Arthur, dunque, aveva aperto gli occhi e fatto un ragionamento veloce, aveva capito che era arrivato quel giorno. Perché quella sensazione di vuoto nel petto, più o meno a sinistra, non poteva significare che una cosa soltanto.
Si sforzava di ripetersi che era un giorno come tutti gli altri, nessuna ricorrenza, nessun evento particolare, un normalissimo giorno durante il quale, per motivi di forza maggiore, lui non poteva andare a lavoro. Gli era stato categoricamente vietato circa due mesi prima, quando quella che aveva tutta l'aria di essere una rosa rossa gli era sfilata davanti agli occhi accompagnata dall'orribile frase “e a San Valentino ti porterò a Parrrì”
Arthur si passò una mano sugli occhi e si alzò a sedere. Lì sotto qualcosa faceva un po' male, ma per il resto non sembrava esserci niente di strano nella sua camera. Quando dunque cercò di infilarsi ancora per un po' sotto le lenzuola e quando invece del letto trovo qualcosa di rigido e freddo, sussultò.
Lui lo chiamava “stupida rana”, per il semplice fatto che riconosceva di convivere con una persona dall'intelligenza veramente limitata e che aveva tutte le fattezze di un principe azzurro fasullo. Accento francese e barbetta incolta compresi. Arthur aveva inizialmente provato odio nei suoi confronti, quando, alla fermata del London Bus, aveva provato a molestarlo. Poi ci aveva fatto l'abitudine, alle continue telefonate e alla sua auto parcheggiata sul viale di casa sua.
Piano piano Francis si era insinuato nella sua vita senza nemmeno chiedere il permesso; Arthur non aveva provato a respingerlo ancora, sia perché sarebbe stato inutile, sia perché, da una parte, capiva che ne aveva bisogno – anche se non l'avrebbe ammesso nemmeno se gli avessero puntato un fucile alla nuca.
Arthur scosse la testa, probabilmente per spingere via dal cervello ogni pensiero rivolto a Francis, e prese in mano la scatola di cioccolatini. Francis affermava fieramente di essere la persona più romantica del mondo e faceva di tutto per dimostrarlo. Arthur, in cuor suo, sembrava trovarlo rassicurante.
Odiava fare paragoni con Alfred, perché sapeva benissimo che Francis non avrebbe retto il confronto, eppure non riusciva a farne a meno. Alfred voleva dimostrare il suo amore al mondo intero, Francis, forse, voleva compiacere se stesso. Fondamentalmente non era per egoismo, lui voleva semplicemente sentirsi all'altezza di Arthur, di Arthur che, invece, lo reputava molto coraggioso, in quanto ammetteva senza troppe difficoltà di essere gay e di essere francese – e le due cose coincidevano più spesso di quanto potesse sembrare.
«Stupida rana», Arthur si infilò un cioccolatino in bocca e fece una smorfia inacidita, perché la cosa che lo faceva innervosire stava nel fatto che erano ottimi, «tu e tutti i tuoi regali inutili.»
Sperò vivamente che non provenissero dalla Francia, altrimenti gli sarebbe venuto qualcosa come... Una malattia venerea? Arthur non ne aveva idea, ma gli bastava sapere che oltre la Manica ci fosse l'anticristo per avere quell'impressione.
Arrivato più o meno al settimo cioccolatino – niente a che fare con gli scones, le sue adorate focaccine avevano un che di patriottismo britannico ogni volta che le mangiava – sentì chiaramente il rumore dell'auto che si parcheggiava nel vialetto.
Arthur conviveva con un mal di schiena cronico. Alfred giustificava la cosa dicendo “tu sei nato vecchio”, Francis sosteneva in continuazione che l'unico rimedio fosse l'esercizio fisico. Di che tipo di esercizio fisico si trattasse, poi, non era lecito saperlo.
Ma nonostante ciò, scattò giù dal letto come se avesse avuto ventitré anni (effettivamente lui aveva ventitré anni, ma la gente era solita attribuirgliene almeno quindici in più) e con la prontezza di un lemure si era defilato in bagno – ovviamente dopo aver nascosto il misfatto (carte di cioccolatini e scatola a forma di cuore) sotto le lenzuola per non destare alcun sospetto.
Era il primo San Valentino che trascorreva con qualcuno da tre anni a quella parte. Beh, il primo dopo, ovviamente, quell'orribile avvenimento che lui era solito chiamare il-giorno-in-cui-Alfred-si-assicurò-una-morte-lenta-e-dolorosa. Perché Arthur se l'era ripromesso, che un giorno sarebbe tornato in America e l'avrebbe strozzato con le sue stesse mani, sputandogli addosso tutto il veleno possibile (quello che teneva ancora nel cuore) e prendendolo a sprangate subito dopo.
Arthur afferrò lo spazzolino con tanta di quella forza che rischiò di spezzarlo. Pensare ad Alfred lo faceva diventare violento e maleducato, quando lui, invece, voleva avere tutto il self-control di questo mondo per comportarsi come un degno gentleman britannico. Ecco, questa era indubbiamente un'altra cosa che odiava di quel ragazzo, oltre alla sua orribile giacca marrone, ai suoi occhiali, alla sua pancia, a tutti quegli schifosissimi hamburger che ingurgitava con ritmo incalzante a partire da-
«Arthur?»
La voce di Francis proveniva dalla camera da letto e sembrava dannatamente allegra – in fondo quello era il suo habitat naturale, un po' come la Guinea e il Congo per i gorilla. Uhm, i gorilla si sarebbero adirati se avessero scoperto di essere stati infilati nella stessa frase con Francis.
Arthur spazzolò i denti con più energia, di certo non gli avrebbe dato la soddisfazione di fargli sapere che i suoi ridicoli cioccolatini non l'avevano ucciso, nonostante Francis gli ripetesse continuamente che doveva davvero avere uno stomaco di ferro se, dopo aver vissuto per ventitré anni in Inghilterra, il suo fegato non si era ancora disintegrato in tante minuscole molecole di scones.
«Sei qui~»
Arthur osservò il suo riflesso nello specchio. Se c'era una cosa che un giorno avrebbe preso a pugni, era la sua faccia. Con quella barbetta incolta e quel sorriso che lasciava intendere che lui fosse un esperto su parecchie cose – quando non era nemmeno così bravo. Francis non sapeva fare altro che destreggiarsi sotto le lenzuola (anche se quando l'avevano fatto sul mobiletto in corridoio, non gli era dispiaciuto poi così tanto).
«Non volevo svegliarti e così sono andato a fare una passeggiata.»
Arthur fece ciò che gli riusciva meglio – no, non attaccarsi a una bottiglia di scotch e bere fino a vomitare l'anima. Lo ignorò completamente e continuò a lavarsi i denti con naturalezza, come se dietro di lui non ci fosse un francese romantico (e probabilmente anche un po' arrapato) che gli baciava il collo e gli accarezzava dolcemente una spalla.
«E allora ho pensato che a te questo giorno non piace, quindi volevo renderlo più bello.»
Dio, fa' che non mi proponga un'umiliante passeggiata lungo gli Champs Elyseés.
«Non sei d'accordo?»
«Forse.»
«Forse?»
«Se fai il bravo.»
Francis sorrise ancora e gli baciò una guancia. Arthur sentì il peso nel petto scomparire piano piano e nel frattempo la brutta faccia di Alfred si dissolveva lentamente.
«Sono già stato bravo, lo sai?»
«E perché mai, stupida rana?»
«Indovina.»
Agitò qualcosa che reggeva dietro la schiena, Arthur scattò sull'attenti e allungo il collo per poterne vedere il riflesso.
Stupido lui, che voleva fare il sostenuto e alla fine finiva per cedere – non solo quando era ubriaco e a termine serata camminava in mezzo ai suoi amici (altrettanto ubriachi) con un libretto per le ordinazioni in mano. O quando lo chiamavano “autore del terrorista alimentare” e si ritrovava costretto a borbottare qualche insulto velato e abbandonare i fornelli, causando un sospiro di sollievo nella maggior parte dei presenti.
Ma quando vide Francis e il suo sorriso, Arthur non riuscì a resistere. Era sicuro che, almeno a San Valentino, il suo regalo non poteva consistere in un vibratore, né in un frustino o un paio di manette. Perché lui era isterico, il giorno di San Valentino, e Francis ci teneva ai suoi capelli – e quando l'inglese li artigliava con tutte e dieci le dita, non li lasciava andare fino a che non ne avesse strappato una quantità soddisfacente di ciocche.
«Per chi è?»
«Non fare l'ingenuo, lo sai benissimo~»
Arthur arricciò il naso, una rosa rossa spuntava da dietro la sua schiena. Gli aveva portato dei fiori, come facevano tutti i fidanzati normali. Alfred non gli aveva mai portato dei fiori, Alfred aveva sempre pensato ai suoi stupidi videogames. Non facevano nemmeno abbastanza sesso, secondo lui, e di certo non glielo poteva andare a dire.
Francis gli portava dei fiori e dei cioccolatini il giorno di San Valentino e con lui Arthur aveva provato il miglior sesso della sua vita. In più poteva chiedere alla vita di avere soltanto un vero unicorno legato in giardino e, per quanto lui potesse avere un debole per gli esseri fatati, pensava che tutto fosse perfetto così.
«Sono per me», Arthur accennò ai fiori con la testa, continuando a guardare il riflesso di Francis nello specchio, «vero?»
Che poi, questo gli bastava, perché la stessa cosa che gli mancava, era quella che odiava tanto.
«E altrimenti per chi, eh?»
«Stupida rana, cosa ne posso sapere io.»
Arthur abbassò il viso, cercava di lasciarsi ipnotizzare dall'orlo del pigiama, perché sapeva di essere completamente rosso. Che cosa imbarazzante, lui aveva un'invidiabile dignità di gentleman britannico da difendere con le unghie e coi denti – visto che, comunque, era una delle poche cose che gli restavano.
«Sono per te», gli soffiò in un orecchio, «anche se so già che me li sbatterai in faccia e che mi urlerai di sparire. Ma prima che tu lo faccia per davvero, ti ricordo che questa è casa mia~»
«Non avevo intenzione di fare scenate, non preoccuparti.»
«Ma è San Valentino!»
Arthur gli affondò una gomitata nello stomaco; Francis arricciò le labbra contro la sua spalla e lo abbracciò.
«Non sono arrabbiato ad ogni San Valentino. Non a questo almeno.»
E poi le braccia attorno ai fianchi, il mento docilmente appoggiato alla sua spalla sinistra e il groviglio di mani sulla sua pancia. Arthur si era sentito felice poche volte – ancora meno erano quelle in cui aveva realmente dimostrato di esserlo, quel giorno (nonostante fosse quel giorno) rientrava tra esse e probabilmente si piazzava anche al primo posto di una classifica improvvisata.
«E vuoi darti una mossa con quei fiori?!»
«Oh, sei impaziente anche oggi, Arthur~»
Quando Arthur poté finalmente reggere tra le proprie mani il regalo che gli spettava di diritto in quanto fidanzato-portato-a-Parigi-contro-la-propria-volontà si sentì così felice da reputarsi contemporaneamente la persona più sciocca del mondo.
E infine c'erano le labbra di Francis, che forse completavano quel quadretto troppo romantico per i suoi standard. Sul collo, sul mento, lungo la linea della mandibola, sullo zigomo. E ci fu qualcosa (Arthur non sapeva esattamente cosa) che sembrava tanto una scarica elettrica; forse il corpo di Francis premuto contro il suo, forse la sua mano che si era data all'intrepida esplorazione dei pantaloni del pigiama, forse le bocche inchiodate l'una sull'altra. Nemmeno Francis sapeva cosa fosse esattamente – ma va ricordato che lui era una persona dal basso quoziente intellettivo (almeno secondo Arthur).
Le pareti del bagno erano scomparse, il mazzo di fiori era ancora stretto tra cinque dita, il pigiama... Anche quello era scomparso. La porta della camera da letto si chiuse e ciò che accadde dopo fu allo stesso tempo strano, romantico, meraviglioso e molto, molto francese.




Era buffo come una persona potesse sentirsi in paradiso e non darlo nemmeno a vedere. Era buffo che Francis potesse sconvolgerlo così profondamente (anche se era uno stupido, un maniaco, un vinofilo e una rana) senza nemmeno (forse) rendersene conto.











Btw, vorrei ringraziare tutti quelli che hanno recensito Quei due che (forse) trovarono l'amore nel cofano di un fuori-strada rosso fuoco. e  Lui, che era un cane più o meno dalla nascita, mi avete fatta tanto felice con tutti i vostri commenti, sappiatelo. *___*
In ultimo, questa storia si è classificata prima al contest di San Valentino indetto dal forum Secret Island GdR.

Il FrUK c'è e voi non potete farci nulla.

Fanfiction ~ libera la tua immaginazione


Dedicata alla mia rana, perché è una persona (un po' maniaca) veramente speciale. ♥
   
 
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