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Autore: mery_wolf    27/02/2010    4 recensioni
C’è chi fa le ore piccole, ma non ha nessun motivo per farlo.
C’è chi non ha il coraggio di guardarsi allo specchio, e rilassa i suoi muscoli solo quando il sole cala all’orizzonte.
C’è chi conserva vecchie abitudini – ricordi – nella speranza di un’illusione che non sarebbe durata.
C’è chi guarda il cielo sotto un albero, nella natura, eppure non è un astrologo.
C’è chi nega di camminare nel sonno, ma darebbe tutto per avere qualcuno che fermi la sua camminata incombente nell’oscurità.
C’è chi finge di dormire, ma aspetta la luce del mattino per sentirsi meno solo.
C’è chi sogna. Ma forse lo fanno già tutti.
Tutti, tutti sognano di poter dormire, senza ferite dolorose da lenire, in un pezzo di paradiso.
Genere: Malinconico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Alphonse Elric, Edward Elric, Un pò tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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p style="text-align: left;">Bene. Ora che ho corretto tutti gli errori di consecutio temporum posso dire che è decente.

 Fallen - Don't Let Go. Scegliete voi la colonna sonora più adatta, visto che io sono l'indecisone fatta persona!

 

Amen.

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SLEEP

 

 

All, all are sleeping, sleeping,

sleeping on the hill. 

[ Antologia Di Spoon River – Edgar Lee Masters ]

 

 

 

Heaven bent to take my hand, and lead me through the fire.
Be the long awaited answer,
To a long and painful fight

*

Il cielo si è piegato per prendermi per mano
E condurmi attraverso il fuoco
Che sia la risposta che ho aspettato tanto a lungo
Ad una battaglia lunga e dolorosa

 

Roy Mustang

|21. 15|

 

La gente che uccidi... guardala dritta in faccia. E non scordartela. Non devi. Neanche loro si scorderanno mai di te.”
Roy odia la sua memoria infallibile da allora.
Quando rientra nel suo appartamento decide di farsi sempre un sorso di liquore. È convinto che quel liquido che gli scende giù per la gola lo aiuti almeno a sollevarsi 
dalla stanchezza del lavoro – quando la penna da muovere su un foglio diventa troppo pesante.
Roy forse inizia a detestare il suo nome. Scriverlo e non fare altro che riscriverlo può essere difficile, vedendo la cosa da un certo punto di vista.
Si sciacqua la faccia con l’acqua gelata e rimane per un po’ imbambolato, a fissare allo specchio la sua faccia gocciolante e dall’aria spossata.
Sul suo comodino, che ha un cassetto che non vuole aprirsi, c’è una busta bianca, chiusa con cura. Lui non la degna nemmeno di uno sguardo quando si mette a letto, sotto le 
lenzuola che dovrebbe cambiare. Ma Roy pensa.
Pensa a lungo, a molte cose.
A dei capelli biondi che troppo spesso vorrebbe vedere sciolti, e ad un paio di occhi illuminati dalla determinazione. Al colore rosso, che lo tormenta.
Poi alle prime notti, dopo la fine della guerra civile, quando si svegliava di soprassalto, sudato dalla testa ai piedi. Credeva, un tempo, che il sudore non fosse altro che 
un modo del suo corpo di piangere; visto che non si permetterebbe mai di esternare la sua battaglia interiore.
Poche volte si lascia trasportare dai ricordi; quelle rare volte che accade è in ufficio, quando l’aroma del panino hamburger – ben cotto – e senape di Breda invade l’ufficio.
Si porta un braccio a coprirgli gli occhi, anche se sa che non funziona di certo per farlo dormire. Roy è stanco, ma non ci riesce.
Quando ormai ne ha abbastanza dei suoi occhi che non si vogliono chiudere, ecco che nel buio della stanza gira la testa e guarda attentamente la busta candida, 
come se debba, da un momento all’altro, prendere vita.
Non sa perché ma nell’oscurità della camera, riesce ad accettare in maniera più calma l’idea di prendere un sonnifero, per riposare. 
Non sarebbe lo stesso, aprire la busta candida che lo contiene quando c’è luce. Al buio è tutto più confuso e può anche convincersi che non è altro che un sogno.
Dopo averlo preso si ristende, più mansueto, e aspetta che il medicinale lo mette K.O.
Quando le palpebre sono pesanti e pronte per chiudersi, Roy si domanda se mai si noterebbero le sue occhiaie, l’indomani.

 

 

Truth be told, I've tried my best. 
But somewhere along the way, I got caught up in all there was to offer
And the cost was so much more than I could bear

*

Dico la verità, ho fatto del mio meglio
Ma da qualche parte lungo il cammino, mi sono persa in tutto quello che c’era da offrire
E il costo è stato maggiore di quello che potevo sostenere
 

 

 

Riza Hawkeye

|21. 48|

 

Riza ha i capelli biondi, lunghi e appena sveglia ha l’abitudine pressante di raccoglierli in un fermaglio sulla nuca. Lo fa automaticamente tutte le mattine, 
senza neanche guardarsi allo specchio.
Forse non ne ha il coraggio.
Abita, con il suo fidato cane, in un appartamento in periferia, in cui si è trasferita da poco. E malgrado la sua fissa per mantenere l’ordine e il controllo perfetto, in ufficio, 
in casa sua regna il caos totale.
Più di una volta si ripromette di mettere in ordine la sua roba, perlopiù ancora impacchettata negli scatoloni. 
Poi non lo fa mai.
Trova facilmente una scusa a sé stessa...
La mia vita è una continua lotta, non trovo un attimo per stare tranquilla, con quell’incosciente di Roy Mustang. Me lo spieghi, dove trovo un attimo per mettere in ordine?
E, come al solito, sé stessa controbatteva abilmente.
Ti chiedi mai cosa direbbe quell’incosciente di Roy Mustang se vedesse la tua casa in queste condizioni?”.
Riza, a quel pensiero andava sempre a controllare che i capelli fossero a posto.
Niente affatto per vanità – figurarsi. Solo per controllare che almeno lì, sulla sua testa fosse tutto in ordine; visto che dentro vi era una tale confusione.
Ogni volta che pensa al suo superiore scatta una molla. La stessa tensione di quando ha in mano una pistola; il dito sul grilletto.
Appena le persiane sono chiuse e tutto tace, Riza si accorge di essere sopravvissuta ad un altro giorno, con tutto quello che comporta.
Si siede sul letto con cautela e guarda il nulla, con occhi inquieti. 
Decide di non pensare più di tanto e quello che le occupa la mente vola via, come una piuma al vento.
Riza porta una mano sul fermaglio ai capelli e con un gesto secco li fa ricadere sulle spalle, prendendone una ciocca tra le dita. La guarda.
La guarda per la prima volta.

 

 

Though I've tried, I've fallen...
I have sunk so low, I have messed up
Better I should know

*

Nonostante ho provato, sono caduta…
Sono affondata così in basso, ho fatto un gran casino
Avrei dovuto saperlo meglio

 

 

Glacier Hughes

|22.35|

Non sa se lo fa per maniacalità o solo per istinto materno. Non lo sa per niente e non se lo chiede.
Lo fa e basta: ogni notte, quando la sua bambina già sonnecchia nel suo letto, chiude le imposte delle finestre saldamente e la porta a chiave. 
La chiave di quella camera se l’appende sempre al collo, così da non perderla.
Da quando la sua famiglia si è ristretta drasticamente, fa di tutto per proteggere quello che ne rimane.
D’altronde, non può di certo fare molto. È solo un essere umano.
E da essere umano si comporta, con i suoi propri momenti di forza e propri momenti di debolezza.
Debolezza che non riesce a superare, che strugge nel profondo.
Ogni notte, dopo che è sicura che sua figlia stia dormendo, entra nel ripostiglio e caccia fuori uno scatolone di ricordi immersi nel polistirolo e carta d’imballaggio.
Ricorda fin troppo chiaramente la volta che Maes, di ritorno da un viaggio di lavoro, lo aveva trascinato sulla soglia, tutto da solo, 
ingobbito dal peso di quello che conteneva.
Lo aveva poggiato a terra e poi lo aveva aperto, sotto gli occhi strabiliati di Elycia.
Tanti doni per loro, tanti sorrisi, tanti baci.
Tutto.
... Tutto perduto, svuotato.
E rimane solo quello scatolone vuoto.
Glacier mette lo scatolone aperto e disordinato alla destra dell’entrata della camera da letto, da quando ha scoperto che può essere un modo di ritornare indietro nel tempo.
Quelle volte in cui dovevano ancora fare spazio nel ripostiglio, lei e suo marito – ex marito, marito, marito defunto, che differenza fa? – lo appostavano sempre lì, 
in una posizione approssimativa. Non avevano mai avuto il coraggio né la voglia di spostarlo, anche quando una sera tardi Maes, tornando dal lavoro, ci aveva incappato, 
finendo a faccia a terra.
Non sopravvivrai mai ad un’aggressione, se ti fai ostacolare da una scatola!, lo aveva preso in giro.
Avevano riso.
Glacier non ride più per quella battuta arrangiata, fatta un anno prima che... beh, prima che succedesse quello che è successo.
Spera ancora che, rimettendo quel pezzo di cartone spesso alla sua postazione, Maes c’inciampi e si lasci sfuggire un piccolo oh! goffo dalle labbra sottili. 
E lei avrebbe trattenuto un risolino, sentendolo entrare in camera da letto e cercare – senza risultato – di non svegliarla.
Ogni notte Glacier si addormenta con un sorriso sulle labbra e lo scatolone immobile fuori la porta, ad aspettare qualcuno che non sarebbe di certo più ritornato.

 

 

So don't come round here,

And tell me I told You so...

*

Allora non venirmi intorno,
E dirmi
Te l’avevo detto… 

 

 

Scar

|22.57|

 

L’umidità è già nell’aria.
Rende tutto appiccicoso, malgrado l’aria che soffia sul suo viso scuro è più fredda della corteccia su cui è poggiato.
Corteccia dai lineamenti scabrosi e vissuti, freddi, spigolosi. Di un colore marrone reso più scuro dalla notte, così simile alla sua pelle.
Si siede sul terriccio, tra le radici che sporgono in superficie.
Guarda il cielo, le stelle e le costellazioni che crede di ricordare con precisione.
Ma quanto ricorda davvero? Poco e niente.
Quello che appartiene al suo passato è coperto da una patina rossastra e maleodorante. Impossibile avvicinarsi senza che il proprio stomaco non si attorcigli dal disgusto.
La nausea sale. Lo sguardo si distoglie.
È strano di come ci si possa ricordare di nomi difficili di costellazioni, create da quel Dio così buono e misericordioso – “un Dio che vi ha abbandonato nel momento del bisogno”
e si possa dimenticare del proprio nome, un vero dono ricevuto dalla nascita.
Un dono che lui stesso ha rifiutato, rimpacchettandolo con non molta educazione, e rispendendolo al mittente con tanto di gestaccio del dito medio.
Si è dovuto sbarazzarsi di tutto quello che gli era stato donato dal suo Dio.
Si è dimenticato il colore delle toghe, il profumo delle spezie nei mercati, quello di zolfo, quello del sangue.
Il sorriso di sua madre, le pacche sulla spalla del padre. Tante cose aveva dovuto dimenticare.
Ma non la vendetta. Non la voglia di sterminare. Non quella costellazione che regna, unica, nel cielo blu profondo.
Lui è sicuro di sapersi consolare da solo, attraverso i ricordi, con la voce di sua madre che lo chiama per l’ora di cena. Ricorda il suono, non le parole.
Frasi confuse, sguardi offuscati.
Lui si è trovato un soprannome: Senza Nome.
Una soprannome sempre più degno di Scar.
Senza Nome...
Riporta lo sguardo al cielo e si accorge che le stelle sono scomparse, coperte da una coltre di nuvole scure.
Senza Nome, circospetto, si alza e svelto si allontana, alzandosi il cappuccio sulla testa.
Tra poco sarebbe scoppiato un temporale.

 

 

We all begin with good intent. Love was raw and young.
We believed that we could change ourselves,
The past could be undone

*

Tutti partiamo con buone intenzioni. L’amore era selvatico e giovane.
Credevamo di poter cambiare noi stessi,
Il passato poteva essere disfatto

 

 

Winry Rockbell

|23. 04|

Vieni qui, affianco a me. Ti proteggo io.”
I suoi sogni finiscono sempre così da almeno un mese.
Winry non riesce a spiegarselo, ma mica se ne dispiace. Una fine monotona, che non diventa mai noiosa.
Sì, ne è certa che ogni volta che apre gli occhi, ricorda che in quella frase c’è sempre un’adorabile sfumatura diversa.
Un volta cammina scalza verso una porta semichiusa, un’altra volta con le pantofole gialle, un’altra ancora con quelle rosa di spugna. Una notte indossa una 
camicia da notte svolazzante, quella dopo un pigiama invernale.
Non sogna sé stessa da piccola, malgrado la porta verso cui si dirige è quella dei suoi genitori.
I suoi genitori non ci sono più, eppure è lei, adolescente come lo è ora, che attraversa le ombre di un corridoio troppo lungo.
Winry non ha la smania di arrivare in camera. Lo fa con lentezza; tanto sa che il sogno finisce sempre con quella solita frase.
Ma a volte le cose che cambiano: non sono semplici sfumature. Sono cose evidenti.
Alcune volte sono due sagome, avvolte dalle lenzuola, di cui una si sporge e le parla...
Altre c’è ne solo una, girata su un fianco e le ripete la solita cosa con l’intonazione più strana del mondo...
Il sogno finisce lì. Winry, stamattina, si è svegliata con i brividi addosso – piacevoli – dovuti all’assenza di una coperta a riscaldarla. Ha aperto gli occhi 
su un letto vicino alla finestra aperta, all’alba.
E si è chiesta come mai sia finita proprio nella stanza dove dormono i fratelli Elric, usata solamente quando ritornano a Rezembool.
Pinako le chiede come sta, Winry non risponde e guarda nel vuoto.
“Stanotte non riuscivi a dormire? Ho sentito che facevi avanti e dietro per il corridoio.” Il modo in cui lo dice sua nonna ha un che di 
spaventoso e inquietante.
Se la immagina, Winry, la sua camminata nell’oscurità.
“Forse sei sonnambula.”: una che cammina nel sonno.
Winry si dice che il suo letto è scomodo e trova più confortevole dormire in uno freddo, in una stanza con gli spifferi e con 
la luce della luna che l’invade in modo prepotente.
Pinako le chiede ancora se si ricorda qualcosa, di quando passa da una camera all’altra.
Lei mente, dicendo di no. Poi la conversazione cade lì.
Arrivata la sera, Winry si mette a letto con calma, affondando con la guancia nel cuscino soffice.
Chiude gli occhi e sospira; non ha affatto fretta di addormentarsi.
Lentamente cade un uno stato di semi-coscienza e ricorda con chiarezza il finale del sogno, così nostalgico: “Papà, non riesco a dormire.”
... A volte il sogno cambia finale e si ritrova con una strana sensazione allo stomaco, più forte di quella legata a quando sogna il proprio padre.
Respira a fondo e sente ancora l’odore del cuscino sul letto, dove sa che andrà a finire; un odore di capelli biondi, scossi dal vento di continui viaggi.
Si addormenta e dove il sogno finisce ne inizia un altro, definito e confuso:
Edward, non riesco a dormire.”

 


But we carry on our backs the burden
Time always reveals the lonely light of morning
The wound that would not heal
It's the bitter taste of losing everything that I have held so dear

*

Ma portavamo sulle nostre spalle un fardello
Il tempo rivela sempre la luce solitaria del mattino,
La ferita che non guarirà
E’il sapore amaro di perdere ogni cosa che valeva qualcosa per me
 

 

 

Edward Elric

|00.01|

Sta girato su un fianco. La sua sagoma, da sotto le coperte, si alza e si abbassa regolarmente.
Finché non emette uno sbuffo, compromettendo la sua farsa.
L’aria, prima immobile come i loro corpi, adesso è invasa dal rumore della testa di Al che si volta verso la sua schiena.
Ed trattiene il respiro.
Lo trattiene finché non è sicuro di essere riuscito a convincere silenziosamente suo fratello di star ancora dormendo. O di essersi riaddormentato.
In verità non ha mai chiuso occhio, da quando si è infilato sotto le coperte.
I suoi scarsi tentativi di addormentarsi serenamente sono sfumati dal momento in cui l’umidità è penetrata dagli infissi e la pioggia ha infuriato per le strade.
Rare sono le volte che gli capita di chiudere gli occhi e non riuscire proprio mai ad abbandonarsi completamente alla stanchezza.
Eppure a Ed piace dormire. Tanto.
E gli prende una strana ansia, tutta concentrata sul petto, nel momento in cui la sua mente non fa altro che rivangare tra ceneri, carne pulsante...
Un sapore amaro si fa spazio in bocca, come metallo.
Ed vorrebbe alzarsi in piedi, respirare velocemente, magari correre e spaccare qualcosa.
Facendolo forse Al si preoccuperà per la sua salute mentale. Lui non vuole far preoccupare suo fratello più di quanto non è necessario.
Si domanda quando l’anima di quel ragazzino tanto fragile quanto forte si decidi a rigettarsi fuori da quel corpo di latta e dissolversi nell’aria, scomparendo.
La voglia di spaccare qualcosa si fa più impellente.
Ma Edward non osa muovere un muscolo; tutto il suo corpo è in tensione.
Si sente terribilmente solo come se la presenza di Al, in quella stanza, fosse già svanita per sempre.
L’amaro in bocca è più sopportabile, una volta addentato il cuscino. Con forza stringe gli occhi, lasciando cadere le lacrime.
Lacrime che non hanno mai avuto il coraggio di scendere. Si sente sfinito, come se stesse combattendo per una battaglia già persa.
Non è ancora tutto finito, ma si sente così male...
Non si è mai permesso di abbandonarsi alla disperazione, dopo la notte in cui ha visto il Portale. Si è sempre mostrato forte, davanti ad Alphonse, ma adesso si chiede 
se lo è mai stato davvero. Lascia bagnare il cuscino.
Lascia sfuggire un singhiozzo.
Al lo sta ascoltando, probabilmente, ma non interviene. La pioggia colpisce il vetro con potenza, sembra che faccia male. Sì, fa male, fa male. Al non parla, non si muove.
Lo ascolta piangere e basta.
Edward si ripromette di non dover far sopportare mai più un supplizio del genere, al suo fratellino che sa che è troppo delicato per chiedergli di smetterla di singhiozzare.
D’un tratto rincomincia a percepire Al, la sua anima che cerca di dargli almeno telepaticamente, qualche conforto. Solo con lo sguardo 
vacuo puntato contro la schiena, scossa da tremiti.
Ma le lacrime continuano a scendere, forse inarrestabili.
Forse bisogna aspettare l'alba per fermarle. Non lo sa.
Intanto le lacrime scivolavano giù e brucia la loro casa, il letto in cui la mamma è andata in cielo, il tavolo, i piatti, le tende. Bruciano le lacrime.
Bruciano da anni e non hanno mai smesso.

 

 

 

Tough I've tried, I've fallen...
I have sunk so low, I have messed up
Better I should know

*

Nonostante ho provato, sono caduta…
Sono affondata così in basso, ho fatto un gran casino
Avrei dovuto saperlo meglio

 

Alphonse Elric

|01. 09|

Fuori tutto è silenzioso, solo una leggera pioggerella fredda picchietta lievemente sul vetro.
Al è certo che adesso può regnare davvero la pace, in quella stanza. Di certo non servirà a fargli passare il tempo più velocemente, ma sempre meglio 
che ascoltare impotente i singhiozzi di Ed.
Era stata la notte eterna più lunga della sua vita. 
Si è sentito l’essere più frustato di questo pianeta, solamente per il fatto di non esser capace di avere un corpo caldo, in carne ed ossa, con 
cui poter stringere il suo fratellone. Consolarlo, fino a quando non è calmo.
Al si sente solo.
Forse solo allo stesso modo di suo fratello.
Entrambi confinati nella loro sfera di dolore, mutilati, incatenati dall’Acciaio pesante e gelido.
Davanti ad Al, Edward non si permette mai di piangere. Non che lo ha fatto proprio davanti ai suoi occhi, ma è certo che è successo.
Ed non ne parlerà volentieri, l'indomani mattina.
Di certo, conoscendo il suo carattere, si alzerà e con un sorriso stanco e continuerà la loro estenuante ricerca. In piedi, con una sola gamba.
Non smetterà. Mai.
Al sa che questa è la natura esasperante di suo fratello, ed è impossibile fermarlo.
La sua natura lo esorta a rimanere in piedi da solo, per quanto disperato può essere.
Quella piccola arma umana, dorme in un letto di cui può sentirne la consistenza delle lenzuola con le dita. Con il viso.
Al è accasciato contro un muro – armatura insensibile.
Lui non dorme mai.
Non può sospirare, non può singhiozzare perché non ha veri polmoni. Non può sentire il dolore. Non può fare gli incubi e svegliarsi piangendo, perché non possiede 
occhi abbastanza tristi per farlo. Non può neanche sognare.
Lavora con l’immaginazione, confusa con i ricordi.
Finge di saper sorridere e saper cambiare la sua espressione. Finge di chiudere gli occhi e sapersi abbandonare alla stanchezza.
Ogni notte, Al sogna una casupola – ancora intatta e nostalgica – i rumori del vento fra gli alberi e la brace del caminetto che scoppietta lievemente in un silenzio pacifico.
Alphonse ogni notte sogna di poter ritornare a dormire sulla collina della sua infanzia.
FINE
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Note della pseudo-autrice della malora:

Salve a tutti. Sono tornata a rompere le balle. ù_ù

No, non mi sentivo depressa. Nè triste. Nè arrabbiata. Solo... come dire? Sonnolenta. Il mio nuovo hobby - dopo la scrittura, certo - è dormire. Forse mi riesce anche meglio! XD

Allora, 'sta idea mi è venuta giusto una mattina in cui non vedevo l'ora di andare a scuola - strano, vero ò__ò - malgrado avessi fatto tutta la notte in bianco. Era lunedì, ed io ero felice come una pasqua di andare a quella maledetta scuola. effe_95 ne sa anche il motivo è___é

Sì, questa fic racchiude tutti i momenti di alcuni personaggi, prima del fatidico momento di addormentarsi. C'è a chi riesce difficile e a chi no. Spero che vi sia piaciuta almeno un pochettino, anche se io sono convinta che non sia proprio il massimo. Bhà.

La canzone che ho usato all'interno della fic è Fallen di Sarah McLachlan, anche se io ci vedrei più azzeccata Dont' Let Go. Poi giudicate voi. All'inizio ho messo i link di entrambe.

Ah, e per chi se lo chiedesse, le cappie non sono per niente definite. Nel senso: Roy pensa a dei capelli biondi, ma non ho specificato a chi appartengono. Potrebbero essere di Ed oppure di Riza. Ho lasciato tutto molto vago, giusto perchè voi ci potreste vedere tutti gli accoppiamenti che volete. Ma altre sono evidenti, come Winry. Si vede che prova qualcosa verdo Ed.

Dovrei smetterla, altrimenti vi annoio a morte.

Sono graditissimi - ma tantissimo - i commenti, opinioni, congetture, critiche costruttive e chi più ne ha, più ne metta! <3

Saluti,

Wolf.

  
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