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Autore: beesp    13/03/2010    3 recensioni
Forse era stato perché lui quel coraggio di alzare la cornetta e avvisare Max che era arrivato anche il suo turno di chiudere per sempre con la normalità, dire addio alla sua vita, non ce l’aveva. Non voleva che Max fosse costretto a quel tipo di distruzione, probabilmente. E quando con i lacrimoni agli occhi gli aveva domandato, per l’ultima volta, “perché?” era riuscito soltanto a dire che “era giusto così”.
"My hero is ordinary". Un eroe può nascondersi in ciascuno di noi.
Leggero slash, ma tanta dolcezza, ve lo assicuro.
Sad ending a sorpresa.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Say It Aloud

Say it aloud
[Prompt: “There goes my hero / watch him as he goes / There goes my hero / He’s ordinary”; 2’463 parole]

 

Troppi articoli di cronaca nera di cui parlare, foto di eroi che vengono strappate, dimenticate nelle soffitte polverose. Nessuno di cui fidarsi, miti che crollano assieme a torri gemelle… e i paladini della giustizia che si arrendono, gettano le loro armi al suolo e si nascondono nelle rispettive fortezze della solitudine, rilasciando sporadiche interviste in cui giurano che se ne sono andati soltanto perché non c’era più alcuna speranza. I ragazzini spaesati si aggrappano alle sottane sbiadite di nonne passate oltre, se non v’è più alcun vestito abbastanza resistente finiscono alla ventiquattresima di New York, “accidentalmente” caduti dal nono piano di un grattacielo.

I più cari amici di Ronnie, la maggior parte delle volte, gli ripetevano che era fortunato a essere in carcere, a non dover ascoltare neanche una sillaba dei telegiornali. Lui non comprendeva, si rifiutava di credere che quella sottospecie di vita, umida e fredda, fosse la migliore che potesse esistere nel duemiladieci.

Le tragedie potevano susseguirsi nei racconti per ore. Ronnie, dopo ogni visita, si raggomitolava di nuovo nel suo angolo e aspettava che il sonno calasse su di lui, immerso nella luce spettrale della luna. Non c’era nulla di peggio che tremare in un carcere, alcuna via d’uscita e nessuno che potesse consolarlo; se ne avesse parlato con qualcuno, lì dentro, l’avrebbero bollato come una “femminuccia”.
Gli spettri del suo passato apparivano di fronte a lui, ogni notte. C’era Michael Colquitt che sorrideva e porgeva a suo padre la boccetta con il sale. La madre che appariva dalla cucina, a braccetto con una donna che Ronnie aveva identificato come sua madre. Un dolore reale e potente vegliava su di lui e lo destava, perché quello era un futuro che era stato negato. A lui, a Michael e a chiunque altro avesse subito un’ingiustizia simile. Ronnie si trovava a metà di quella strada, vittima e complice, aveva ucciso e lasciato morire. E di tutto quel trambusto non era rimasto null’altro che la sua solitudine e il dolore della donna che aveva tentato in diciotto anni di salvare Michael dalla disgrazia del mondo e che alla fine l’aveva visto sparire nel nulla con un semplice colpo di pistola.

Quando si era reso conto che nei quotidiani non avrebbe trovato mai delle notizie piacevoli – delle nascite, dei matrimoni, perché erano diventati banali e noiosi – aveva domandato a Nasty se gli fosse stato possibile inventare: avrebbe potuto tirarlo sù di morale.
C’erano articoli come quello di un cane che aveva salvato un’anziana dall’annegamento, un bambino aveva combattutto con gioia e molti sorrisi il suo cancro – e aveva vinto – una donna che dopo venti anni aveva ritrovato suo figlio, misteriosamente scomparso; un marito aveva creduto sua moglie morta in un incidente d’auto ma, cinque mesi dopo, erano riusciti a rintracciarlo, avvisandolo che in realtà era rimasta addormentata fino ad allora in uno sperduto ospedale sulle montagne del Nevada.
Ma era stato lo stesso Ronnie a domandare che gli fossero portate quelle invenzioni e, quindi, sapeva che si trattava di fantasia. Lo facevano essere ancora più triste.

C’erano giorni in cui Ronnie si domandava se non fosse meglio di quanto credesse essere lì. Aveva ferito Max troppe volte, si era messo contro i suoi amici, aveva deluso suo padre e distrutto la sua vita. E, ancora, riusciva a serbare rancore per quello che non gli era stato possibile possedere. La felicità, per esempio, portatagli via in quelle quarantotto ore durate più di tre mesi: correva, con l’auto, con le sue gambe – perfino gli occhi erano troppo veloci – non c’era nessun nascondiglio abbastanza invisibile né alcun telefono con cui domandare a Max di raggiungerlo per poter volare via, lontani, per sempre.
Cosa sarebbe importato degli Escape The Fate? Magari Bryan, Omar e Robert ne avrebbero riso e avrebbero continuato con qualcun altro, avendo più successo di quanto ne avevano avuto fino ad allora.
Forse era stato perché lui quel coraggio di alzare la cornetta e avvisare Max che era arrivato anche il suo turno di chiudere per sempre con la normalità, dire addio alla sua vita, non ce l’aveva. Non voleva che Max fosse costretto a quel tipo di distruzione, probabilmente. E quando con i lacrimoni agli occhi gli aveva domandato, per l’ultima volta, “perché?” era riuscito soltanto a dire che “era giusto così”.
Si spiegavano in quel modo le assenze di Maxwell, le due nuove fidanzate, il cantante degli Escape The Fate che aveva surfato decisamente meglio di lui sulla cresta dell’onda del successo.

Quel momento lo ricordava come se fosse stato il giorno prima. Aveva sempre trovato Max adorabile mentre piangeva, c’erano delle volte, quand’era immaturo, che gli aveva provocato il pianto di proposito. Sembrava sempre troppo fragile, le spalle gli si rimpicciolivano e si asciugava freneticamente le guance, gliene uscivano sempre troppe di lacrime, e si concentrava sul panorama attorno a lui, perché se non era sgombro avrebbe dovuto scappare, non voleva essere visto. Quella era la parte migliore di lui, che nessuno avrebbe dovuto conoscere. Tranne Ronnie. E Ronnie faceva in modo di potergli sempre stringere un braccio attorno al collo e consolarlo. Ma allora, mentre Max lo vedeva sparire nell’auto della polizia… allora no, non c’era stato modo di alleviare il suo tormento né di aggrapparsi a lui.

Quando arrivò la voce di Max nel bel mezzo del trambusto era soltanto metà agosto. C’era ancora il sole che splendeva nel cielo e i cosiddetti fazzoletti di cielo che potevano essere ammirati attraverso le sbarre. Qualche guardia cantava quasi avesse il cinguettio al posto della voce, e perfino i compagni di Ronnie erano di buon umore. All’interno di un posto umido e freddo, in estate, il caldo si sopporta perfettamente.
« Il signor Ronald Joseph Radke è atteso al telefono » Era la solita voce metallica che aveva imparato a riconoscere, la stessa che lo chiamava ogni qual volta una delle brillanti idee di Nasty si faceva strada nel suo cervello.
Ma quella volta era diverso. Sentiva ogni fibra del suo corpo tesa e improvvisamente vigile. Come se tutti quei mesi li avesse trascorsi in un campo d’addestramento, o nella foresta dove qualsiasi rumore è decisivo per la sopravvivenza o la morte. La sua velocità nel rispondere, era evidente, sarebbe stata fatale. Un attimo di esitazione e… puff! La chiamata sarebbe stata come mai esistita.
« PRONTO! » Urlò senza fiato, si era catapultato, scaraventando quà e là compagni, attraverso la stanza, fino ad arrivare a quel luogo sacro e mistico.
« Pr-pronto-o? » La voce. Balbettante e incerta. Ronnie lo vedeva attorcigliare intorno alle dita il filo del telefono.
« Sei proprio tu? » Non poté fare a meno di chiedere, perché sognarlo era ben diverso dal viverlo. Sentiva gli occhi contriti nel sorriso che tanto tempo prima era stato un’abitudine, e le mani che sudavano e attendevano una risposta affermativa, pronte a sfregiarsi se non fosse stata tale.
« Sì, sono io… ciao, Ronnie » E di nuovo quella nota melliflua che stava tentando di trattenere. “Ti prego, Max, lasciati andare perché io…” forse sentirlo distante sarebbe stato peggio di non sentirlo affatto. Ma la fortuna volle che, ancora, Max fosse perso. Perso in quel sentimento che gli aveva fatto recitare il nome di Ronnie come se fosse la più bella parola al mondo. E Ronnie, al contempo, l’aveva ascoltata come se da quella fosse nato lui, il mondo e qualsiasi elemento amasse.
« Ciao, Max… Max, Max, Max »
« Di’, ti ho chiamato per parlare con te, non per sentirti ripetere il mio nome »
« Mi sei mancato » Un singhiozzo, uno soltanto.
« Stai bene Ronnie? »
« Sì, ma… »
« Perfetto, anche io sto bene. Ci si sente… » Eppure Ronnie non ne era tanto sicuro.

This blood on my hands is something I cannot forget
Da quando aveva potuto ascoltare la voce di Max lo scorrere del tempo si era trasformato in un sottofondo di brusii e pensieri veloci. C’era di continuo Max che risuonava nelle sue orecchie, e vi si aggiungevano alle parole dette altre che non erano state pronunciate a voce alta durante la breve conversazione, ma che Ronnie sperava fossero sepolte, da qualche parte, nella memoria dei pensieri di Max.
La lontananza, quella invalicabile e solcata da tubi di ferro pesanti e arrugginiti, è più dolorosa perfino delle crisi d’astinenza. Perché quelle si è sicuri che terminino, mentre la distanza, spesso, può soltanto aumentare il suo volume.

Una notte sognò, perfino, le parole che una volta una fan gli aveva rivolto. Presa dallo sconforto che “Not Good Enough For Truth In Cliche” inevitabilmente diffondeva, gli si era avvicinata e gli aveva raccontato della sua vita. Gli aveva ricordato Max, nei suoi occhi c’era quello stesso dolore e la voglia di scappare, di nascondersi. Si rannicchiava in se stessa, proprio come usava lui quando piangeva, e ripeteva che aveva bisogno di essere salvata. Ma fu trascinata via dalla folla e Ronnie non la vide mai più. Era per quella singola apparizione che, mesi dopo, aveva deciso che sarebbe passato oltre e che avrebbe continuato a fare musica. Perché la sua voce doveva arrivare a tutti quelli che la forza di alzare la testa non ce l’avevano e che avrebbero dovuto trovarla nelle sue parole in musica, nella sua voglia di salvare il mondo.
Hold your head, hold it up high

Here’s to the friends that were alibis”.

Prometteva ad amici, cognoscenti, e chiunque glielo chiedesse che sarebbe tornato e sarebbe stato meglio che mai. In realtà non sapeva se fosse verità, credeva nel karma, e dopo i mali che aveva commesso, il dolore causato, e gli affronti contro la povertà dell’umanità, se non fosse stato in grado di mettere insieme due parole, sarebbe stato giusto.
Nasty lo rassicurava, gli ripeteva che quel carcere era stato già abbastanza e che la vita avrebbe continuato a essere una punizione equa: non aveva idea di quello che stava succedendo.
Ronald” si domandava “cosa diavolo stanno facendo della loro vita?
Proprio non sapeva porre quel quesito ad altri, aveva paura di quel che si poteva ricavare dai loro occhi stanchi e le loro bocche distorte.

Una visione gli dimostrava che lui e Max avrebbero oltrepassato la più buia strada, anche se su un’auto che avrebbe dovuto sfasciarsi completamente da un momento all’altro. E, allora, come avevano fatto a percorrere più di tre chilometri in pochi secondi, com’era possibile che i pezzi non si fossero frammentati e sparsi al suolo?
E com’era successo che, tutto a un tratto, Ronnie rideva nella sua cella e accarezzava i mattoni credendo che si trattasse della pelle – ancor più fredda di quelli – di Max?

Quanta acqua che crollava dal cielo! Da bambino era convinto che fossero le lacrime degli angeli, poi era nata in lui l’idea che fossero quelle delle nuvole, che combattevano e si ferivano. E, poi, gli era parso ovvio che si trattasse di Dio, dispiaciuto per le disgrazie dei suoi figli.
Ma quanto ancora avrebbero gettato al vento quel liquido, quanto ancora ci sarebbe stato bisogno della sofferenza?
Avevano bisogno di un eroe, anche piccolo, che salvasse ciascun mondo. Avevano bisogno di un erore, che non chiedesse nulla in cambio se non un sorriso.

Era soltanto il venticinque settembre duemiladieci. Poi fu il ventisei. Era nel naturale scorrere degli eventi che dopo il cinque ci fosse il sei, ma che ventiquattro ore potessero scomparire in così poco tempo non lo credeva possibile.
C’era l’aria attorno a lui, che non aveva confini e non era bloccata da serrature, sbarre o mattoni. Alberi che soffiavano, per quanto il deserto ne permettesse la crescita, spazio infinito che lo circondava, la sabbia rossiccia che volava rasente il suolo. La guardia si richiudeva la porta alle spalle mentre Ronnie gettava la sacca dietro di sé e fissava con intensità una vettura parcheggiata esattamente a tre metri dal suo viso.
Una Gran Torino. Max ne aveva sempre desiderata una, diceva che stringerne il volante lo avrebbe fatto commuovere. Ronnie ricordava di avergli promesso che, non appena ne avesse avuto la possibilità, gliene avrebbe regalata una. Ma allora Max avrebbe fatto in modo di distruggerla, pur di non aver qualcosa di Ronnie. Il finestrino si abbassò.
« Insomma! Vuoi salire o no? Inizia a far freddo e non ho tutta la giornata » MAX. Max con un paio di occhiali da sole e la testa appoggiata alla mano, Max e tutti quegli stramaledetti tatuaggi che in quel momento avrebbe voluto solo sfiorare. Max e un sorrisetto che non gli riusciva di nascondere. Max e il loro primo CD che suonava alla radio. « Se te lo stai chiedendo, sì, questi sono quel gruppo che odiavi tanto, gli Escape The Fate »
« Davvero posso salire? »
« Secondo te io sarei venuto fin qui per salutarti e andarmene a casa? »
Non importava cosa sarebbe accaduto dopo, affrontare Craig, aprire un nuovo appartamento, registrare un album con i Falling in Reverse. Non contava.
« Tu… sei venuto qui per me? » Max fece in modo che nessuna voce filtrasse dall’interno verso l’esterno, gettò le lenti sul sedile posteriore e rimase occhi – così grigi e spalcati – negli occhi.
« Sì. Perché mi sarei sentito l’uomo più stupido del pianeta a lasciarti camminare fino a casa, e perché è tutta colpa tua. Ma te la farò pagare, questo è certo. Ma con amore, facendoti comprendere, se non hai già capito. E hai bisogno di una casa dove stare e, diamine, devi tornare a casa nostra, perché altrimenti starei ancora peggio a saperti in città e non con me »
« Mi stai dicendo che mi perdoni? »
« Oh, Ronnie. L’ho già fatto anni fa! L’unica cosa che non ti ho mai perdonato è di avermi permesso di ama- » Ma ormai non importava più neanche quello, soltanto una frase ironica per spiegare a Ronnie qualcos’altro di molto più profondo – ciò che davvero voleva ascoltare.

Il cellulare squilla. Si gratta la testa e si domanda chi sia a quell’ora del giorno. Getta la mano come può sul comodino, per fortuna è un messaggio. È Nasty.
Ben tornato, campione… Jacky mi ha detto quello che pensavi: no, quelle notizie non le ho inventate, erano le migliori che riuscivo a trovare, tutta farina del sacco della realtà, che a volte non è tutta da buttare. Non sei l’unico che salverà il mondo, Ronnie. In ogni caso, buona notte di fuoco con Max”.
« Chi era, Ronnie? » Ancora non si è riabituato ad ascoltare la voce di Max, a poter di nuovo guardare quel colore in continuo subbuglio e ad ascoltare il battito del suo cuore, sempre troppo veloce.
Gli prende la testa tra le mani e lo bacia. « Niente che importasse più di questo »
Dopotutto, ogni eroe ha un modo diverso di salvare il mondo.

 

 

 

 


Angolo dell’autrice: I personaggi descritti nella storia sono realmente esistiti. Si tratta di Ronald Radke, Maxwell Green e Nason Shoefler, rispettivamente ex cantante degli Escape The Fate-nuovo cantante dei Falling In Reverse, bassista degli Escape The Fate e bassista dei Falling in Reverse.
Non conosco i personaggi e quindi non posso rappresentare né i loro carratteri né le loro abitudini, né nulla che li riguardi; infatti non conosco i loro gusti sessuali e non posso dire se siano omosessuali o meno. Questa storia non è scritta a scopo di lucro né commerciale, purtroppo (almeno avrei i soldi per i fumetti di Naruto >_>).

Con “eroi che si rifugiano nelle rispettive fortezze della solitudine” mi riferisco, leggermente, ai Fall Out Boy. In questa storia, quando si parla di eroi, si tratta per lo più di eroi musicali (;
Michael Colquitt è il ragazzo che è morto nella rissa in cui ha partecipato Ronnie, quella per la quale è stato accusato e poi incarcerato. Sua madre ha da poco “chiarito” con Ronnie, credendo che lui la odiasse per averlo fatto imprigionare (anche se non è affatto colpa sua, ma è una storia complessa, se volete saperne di più leggete gli articoli e non vi fidate di Wikipedia).
Le storie di cui Nasty parla nel suo giornale “immagginario” sono state inventate, ma non è detto che non siano davvero successe.
This blood on my hands is something I cannot forget” è una parte della canzone degli Escape The Fate “Not good enough for truth in cliché”.
La fan degli Escape The Fate che Ronnie “conosce” al concerto sono io: no, non li ho incontrati, ma con molta presunzione mi definisco particolarmente distrutta (ma non uguale a Max, per niente).
Hold you head, hold it up high / Here’s to the friends that were alibis” è un pezzo del brano degli Escape The Fate “Friends And Alibis”.
Jacky è il chitarrista dei Falling In Reverse, la nuova band di Ronnie.
L’intera one-shot è ispirata, come alcuni di voi avranno potuto intuire, a “My hero” canzone dei Foo Fighters di cui anche i Paramore hanno inciso una cover. (È una canzone fantastica, se vi capitasse per le mani, ascoltatela!)

Passando a me, vorrei dedicare questa storia ad Arianna, perché è la prima Mannie che faccio concludere bene e perché un po’ mi piace. E poi anche perché è ispirata a My Hero e lei, un po’, è il mio eroe.
E poi la dedico a lei anche perché cambierà il mondo :D
Oh, e poi questa storia è stata un po’ ispirata anche al nuovo video di Lady Gaga e Beyoncé, “Telephone” perché c’è una parte in cui Beyoncé, una volta che è uscita Gaga dal carcere, le dice che è stata una ragazza davvero cattiva e sono tanto dolci assieme *_* (Infatti, in realtà, questa avrebbe dovuto essere una metamorfosi fic con Ronnie-Gaga-Mello di Death Note e Max-Beyoncé-Matt di Death Note, però poi non l’avrei potuta regalare ad Ari e non sarebbe stata nemmeno lontanamente abbastanza dolce).
E, niente… spero che vi abbia dato un po’ di fiducia in questo mondo.
Arrivederci <3
   
 
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