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Autore: Shichan    14/03/2010    3 recensioni
«La vendetta per la prima volta era stata al centro dei miei pensieri. E non dico che ora sia scomparsa totalmente, o che io abbia accettato l’accaduto come un’inevitabile conseguenza della mia posizione al fianco di Tsuna. È impossibile, non ci riuscirei in nessun caso. Come non puoi riuscirci tu.»
[Ambientazione TYL][Presenza di un personaggio originale]
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: i personaggi sono copyright di Amano-sensei, e non sono utilizzati a scopo di lucro (perché probabilmente il risultato sarebbe ben più pericoloso di una fanfic *ammicca*)

Disclaimer: i personaggi sono copyright di Amano-sensei, e non sono utilizzati a scopo di lucro (perché probabilmente il risultato sarebbe ben più pericoloso di una fanfic *ammicca*)

Tema: 63. Non ti arrendere, vivi. I sentimenti spiacevoli sono la guida del cuore. (Tabella)

Note: ho avuto qualche dubbio su come sviluppare questo tema. Più che altro lo leggi e fai “yeeee, Tsuna centric”; ma non vorrei riempirmi di Tsuna centric ;__; *fissa il resto della tabella infinita*

E allora, visto che mi era balenata in mente anche quest’altra idea, ho detto e vabbé, proviamoci.

Tsuna centric o Yamamoto centric? Chi riempirà di più la tabelle? *apre banco delle scommesse* XD

2. il termine giapponese taichou significa: “comandante”.

Ringraziamenti: grazie a baseballNUT per aver commentato “Not a game anymore” (scusami per non averti inserito nei ringraziamenti all’altra shot, purtroppo ho postato prima di leggere la tua recensione >.<); un ringraziamento anche a makotochan, LitaChan, nacchan, bleachnaruto e Sophie_ per le recensioni a “A volte i fiori profumano di dolore” <3

 

La tua fedeltà porterà il suo nome

Non ti arrendere, vivi. I sentimenti spiacevoli sono la guida del cuore.

 

L’arrivo di nuovi membri della Famiglia era sempre qualcosa di cui tutti i gruppi mafiosi, dai minori a quelli più conosciuti e temuti, si rallegravano; significava non solo un aumento dal punto di vista prettamente materiale di uomini e di forza, ma era come una normale famiglia che con gioia e trepidazione aspettava la nascita di un bambino desiderato dal profondo del cuore.

Certo, aveva i suoi lati difficili – non negativi, quelli non c’erano viste le premesse.

Per esempio, quando i membri erano particolarmente giovani, o quando non erano convinti fino in fondo – era accaduto che alcuni di loro fossero lì per scelte dei Boss delle Famiglie minori di cui facevano parte e quindi ancora incerti.

Ma per quello, c’era il Boss dei Vongola che in un modo non totalmente chiaro per chi non lo conosceva bene quanto i suoi Guardiani, riusciva a dissipare quei dubbi con gentilezza.

E allora i nuovi membri, che fossero giovani, con esperienza, incerti o già pronti a dare la vita ancora prima di vedere il Decimo, acquisivano sicurezza come se fosse sempre stato un punto fisso della loro vita arrivare ad essere suoi sottoposti.

Tsuna, per contro, anche se era un Boss effettivo nonché del gruppo mafioso più potente, era ancora inizialmente a disagio come un ragazzino ogni qualvolta che si ritrovava davanti un membro nuovo e sconosciuto fino a quel momento: aveva sempre cercato di informarsi della loro storia, ma mai secondo i metodi della mafia, con il quale sarebbe bastato richiedere quelle informazioni e dopo nemmeno un’ora sarebbero arrivate facilmente in un fascicolo sulla sua scrivania.

No, Tsuna cercava sempre di incontrarne il più possibile, e chiedere direttamente: e proprio per quel suo modo di fare, gentile e rispettoso, e sincero com’era la sua indole, alla fine riusciva a conquistare facilmente la fiducia di quelli che a breve sarebbero diventati i suoi sottoposti e membri della sua amata Famiglia.

L’unica eccezione era rappresentata dai più giovani: loro venivano prima addestrati dai veterani per così dire, perché il Decimo dei Vongola non ammetteva di mandare al macello giovani che non erano pronti per una cosa simile.

Era già stato difficile fargli accettare l’idea che ci fossero ragazzi – e una parte esigua di ragazze e donne – che volessero scegliere più o meno di propria volontà la mafia, così come avevano quasi dovuto obbligarlo a rendersi conto del fatto che chi si univa a loro era conscio della possibilità di essere mandato in missione.

E che, se Tsuna avesse continuato a preoccuparsi del minimo rischio possibile, non avrebbe dovuto mandare in missione nessuno – il che era ridicolo quanto impossibile anche solo a pensarci.

Perciò erano dovuti scendere a patti, e il Decimo aveva dato disposizioni secondo le quali almeno i membri più giovani dovessero essere allenati per un periodo ed essere considerati idonei prima di entrare a far parte di quel mondo che sconti non ne faceva a nessuno e dove la pietà era una cosa raramente presa in considerazione e praticamente mai rivolta ai membri di una Famiglia che non era la propria – e in casi estremi nemmeno nei confronti di quest’ultima.

A parte rare eccezioni, ad occuparsi dei suddetti nuovi arrivati erano i Guardiani ai diretti ordini del Decimo: venivano spesso divisi a seconda dell’elemento predominante della fiamma sprigionata dai loro anelli.

Le probabilità di essere considerati idonei dipendevano da moltissime cose, ma certamente fra queste c’era anche il Guardiano a cui venivano affidati: non era ormai un mistero per nessuno che fino a quel momento nessuno dei ragazzi affidati ad Hibari Kyoya fosse entrato a far parte dei Vongola.

Subito dopo di lui, i più severi parevano essere non solo Mukuro – il cui tasso si abbassava quando al suo posto era Chrome ad occuparsene – quanto Gokudera Hayato.

Non poteva vantare lo stesso record del Guardiano della Nuvola, ma con lui ben pochi potevano raccontare di essere stati allenati ed essere stati considerati idonei.

«Il cattivissimo e severissimo Guardiano della Tempesta mieterà vittime anche stavolta.» lo canzonò divertito Yamamoto.

Lui, Gokudera e Ryohei si stavano avviando verso l’ingresso della residenza dei Vongola, dove sapevano essere i membri più giovani di quelli arrivati da alcuni gruppi minori: non erano molti, perché non avevano certo un’armata o degli esami di ammissioni stile scuola.

Erano comunque sempre un numero minimo, specie i giovani, tanto che non era mai accaduto che tutti i Guardiani fossero occupati con loro, anzi.

Gokudera, al centro rispetto agli altri due, fece schioccare le labbra stizzito: «La tua esaltazione per una cosa così seccante ha qualcosa di maniacale, fissato della katana.» ribatté secco, mentre sia Yamamoto che Ryohei ridevano.

Aveva smesso di chiamare il Guardiano della Pioggia “maniaco del baseball” nel momento in cui l’altro allo sport che tanto amava aveva dovuto rinunciarci, adoperando una scelta tra quello e la Famiglia; nonostante ciò però non aveva abbandonato quel modo di appellarsi all’altro, e si era quindi limitato a sostituire “baseball” con “katana”.

Tanto era ugualmente vero, quella roba era ovunque! – e sì, era terrificante pensare a Yamamoto che con sguardo amorevole degno di un papà lavava la katana, motivo per cui Gokudera una volta l’aveva immaginato e si era imposto di mandare a morire quella figura mentale altrove.

«Lo trovo divertente, vedere i giovani non è un po’ come vedere noi alla loro età?» chiese, il tono rilassato e anzi con una certa aspettativa.

Quelli erano i momenti in cui Gokudera pensava – con orrore – al fatto che se Yamamoto Takeshi non avesse scelto la via della spada e della mafia, e nemmeno quella da baseball, sarebbe finito a fare il maestro d’asilo.

Con qualche dubbio su chi fosse l’insegnante e chi gli studenti.

«Sì, non riesco ad immaginare un modo migliore per passare la giornata che non sia star dietro a ragazzini che credono la mafia sia un gioco o che loro siano dei supereroi.» commentò sarcastico Gokudera, Ryohei che alzò un braccio verso alcuni membri unitisi da poco che si erano occupati di attendere il loro arrivo lì con i giovani.

Gokudera, notando che erano in prossimità, si zittì lasciando affondare una mano in tasca, mentre Yamamoto sorrideva amichevole e Ryohei dava voce ad uno: «Yo!» dei suoi a mo di saluto.

Notarono che i giovani in attesa erano solamente cinque, di cui due abbastanza inquietati – probabilmente si chiedevano se fra i tre Guardiani ci fosse quello che non aveva mai considerato idoneo qualcuno.

Yamamoto sorrise, incoraggiante, rivolgendosi direttamente a loro piuttosto che ai colleghi; chiese qualche nome ed occhieggiò Ryohei, che aveva lo sguardo puntato sul foglio a lui consegnato.

Con una certa disapprovazione da parte di Gokudera, a lui toccarono ben due mocciosi, come li aveva apostrofati; lo stesso era valso per Ryohei, mentre in quel caso la fortuna era stata dalla parte di Yamamoto.

Un solo “allievo” era certamente più facile da analizzare quanto necessario.

«Il Decimo ha chiesto di ricevere il rapporto sui cinque ragazzi come di consueto a fine della valutazione.» comunicò uno dei due uomini rimasti ad aspettare lì con i giovani.

Annuirono tutti e tre, avviandosi in direzioni diverse per iniziare quanto prima; Yamamoto sorrise nuovamente rivolto all’unico ragazzo rimasto lì con lui.

Questi lo fissò, le mani entrambe in tasca: «…Come se essere valutati da un Guardiano ti cambiasse la vita.» fu l’unico commento, peraltro poco simpatico, che pronunciò prima di deviare lo sguardo come fosse stato già annoiato dalla sola idea.

Forse non era detto che unico studente anziché due fosse necessariamente una fortuna quella volta.

 

 

Dopo quasi due ore durante le quali il suo presunto studente non era apparso intenzionato a farsi valutare nemmeno per errore, degnandosi a malapena di alzare lo sguardo sul Guardiano della Pioggia quando questi gli si rivolgeva, Yamamoto si era detto che magari  l’approccio era stato sbagliato.

Un po’ come poteva esserlo chiedere ad Hibari di accompagnarti a fare shopping, ecco.

Osservò il piccolo fascicolo con le informazioni riguardanti il ragazzo che ora come ora sedeva con espressione annoiata; nella foto allegata al dossier non sembrava di molto diverso. Forse solo i capelli scuri erano leggermente cresciuti rispetto a quando era stata scattata, a giudicare almeno dalla coda che ora poggiava morbidamente sulla spalla sinistra, non lunghissima comunque.

Per il resto, gli occhi scuri erano quelli, e l’espressione tra la noia e l’irritazione era grosso modo la stessa; ad occhio e croce poi non sembrava molto alto, il che in qualche modo confermava i dati fisici riportati. Occhieggiò il foglio che sporgeva appena sotto quello preso in esame e che con ogni probabilità conteneva ogni accenno di vita possibile e rintracciabile.

Yamamoto abbozzò un sorrisetto e chiuse il fascicolo senza guardare il suddetto foglio, rivolgendosi direttamente al più giovane: «Kazuki. Sei giapponese, vero?» chiese, il tono amichevole. Ottenne l’attenzione dell’altro, ma l’espressione non era cambiata granché.

«Ishida.» lo corresse, come a sottolineare – tipico uso della loro cultura in realtà – che nessuno gli aveva dato il permesso di chiamarlo per nome.

«Sono giapponese e l’Italia mi fa schifo.» aggiunse poi, senza nemmeno sforzarsi di ostentare rispetto o cortesia.

Yamamoto alzò le mani in uno scherzoso gesto di resa: «Se devo chiamarti per cognome, tu dovresti chiamarmi “sensei”.» gli fece presente, dubitando fortemente che una prospettiva simile potesse allettare quel ragazzino.

«Dovrei, se tu fossi il mio insegnante, ma non lo sei.» ribatté a tono – però, si ritrovò a pensare Yamamoto, i sedicenni nella sua patria sembravano non essere più quelli di una volta.

«Tecnicamente lo sono.» gli fece presente, ridacchiando anche se come insegnante non ci si vedeva granché. A giudicare dall’occhiata, Kazuki era d’accordo almeno su quello: «Praticamente no. Non c’è niente che io voglia imparare, voglio solo tornarmene a casa in Giappone. Dell’Italia e della mafia non me ne frega un accidente.» sbottò.

Yamamoto non poté fare altro che sorridere divertito – altri sarebbero passati ai metodi duri da un po’, e forse per questo quel ragazzino era stato affidato proprio al Guardiano della Pioggia.

Probabilmente nemmeno Kazuki capiva il senso di quel sorrisetto, però.

«Facciamo così.» riprese Yamamoto osservandolo con l’aria di chi ha avuto un’idea tutto sommato divertente: «Un combattimento solo. Se vinci, ti lascio tornare in Giappone. Solleciterò io stesso il Decimo.» assicurò.

Kazuki lo fissò poco convinto, sebbene nella sua mente qualcosa comunque gli facesse presente che non sarebbe stata male quella scorciatoia: «E se perdo io?» domandò sulla difensiva.

Yamamoto fece un sorriso un po’ più ampio, di sfida: «Rimani e ti fai allenare.» replicò con semplicità, quasi fosse stato ovvio anche senza chiedere.

«E potrò chiamarti come voglio.» aggiunse, e quello lasciò intendere a Kazuki in qualche modo che non era una scommessa da prendere sotto gamba.

Tuttavia vagliò l’altra possibilità: farsi addestrare almeno finché non avesse dimostrato di non essere adatto, di non avere capacità. Il che avrebbe potuto essere semplice, se lui fosse stato il tipo da perdere di proposito e non l’ottuso e orgoglioso esempio di persona che piuttosto ingoiava fango.

Sospirò: no, decisamente era la via più breve. Accettò.

 

Non era stato male, all’inizio, un po’ di sano combattimento corpo a corpo.

Lo aveva trovato un punto a favore di quel ragazzo, perché non sapendo lo stile adottato dal suo avversario, era logico cominciare con qualcosa di comune ad entrambi.

E doveva dire che non era poi così malaccio: aveva una buona precisione nei colpi, e non faceva troppi movimenti superflui. Era abbastanza chiaro che conoscesse le arti marziali e che i suoi non fossero movimenti dettati dall’abitudine alle risse, ma che seguissero invece uno schema abbastanza delineato e perché no, anche efficace.

Se proprio doveva trovargli una pecca – posto che c’erano cose da migliorare, comunque, anche all’infuori di quel difetto notato – era che non avesse una forza bilanciata, e che la sinistra fosse senza dubbio la parte del corpo che usava meno.

I movimenti, aveva notato, erano leggermente più lenti in quel caso.

La cosa che non gli tornava davvero, era stata che ad arma di un box si ostinasse a rispondere senza una appropriata ma con lo stesso stile di prima. Alla fine Yamamoto si era ritrovato costretto a fermarsi, lasciando che la fiamma che avvolgeva la sua katana si ritraesse fluidamente così come si era propagata lungo la lama.

Aveva quindi parato un calcio del più giovane, afferrando con la mano libera la gamba in modo da costringerlo a fermarsi; Kazuki gli rivolse uno sguardo contrariato, senza capire la manovra.

Yamamoto invece lo ricambiò con uno dapprima pensieroso, poi perplesso: «Non ha senso se non ti impegni.» lo riprese, avendo trovato in quello l’unica spiegazione plausibile – benché insensata, vista la scommessa su cui si basava quella sorta di scontro che stavano avendo.

Kazuki non parve cogliere: «Io sto facendo sul serio.» rimbeccò infatti, mentre Yamamoto non accennava ancora a lasciargli la gamba.

«Un corpo a corpo contro un’arma non è intelligente.» disse, adocchiando le mani del più giovane e notando la presenza di un anello sulla sinistra, il che lasciava presupporre fosse a conoscenza del combattimento con i box e che ne possedesse almeno uno per usufruirne.

Vi accennò appena col capo: «Parlo di quello.» chiarì, osservando l’altro portare lo sguardo in direzione della mano e capendo a cosa Yamamoto si riferisse.

Fece schioccare le labbra in un verso stizzito: «Non uso quel coso.» replicò, mentre il Guardiano della Pioggia lo lasciava con un sospiro quasi rassegnato.

«Oramai si combatte solo in questo modo. Non è sbagliato affidarsi al corpo a corpo se pensi sia il tuo punto di forza, ma è da irresponsabili tralasciare il resto.» gli fece notare pazientemente – ed era chiaro a quel punto che fosse proprio per quella sua pazienza che Kazuki era stato dato in custodia a lui.

«Sta a sentire, io non li uso. A te che cambia?» sbottò acido, allontanandosi di qualche passo e riprendendo la posizione di guardia.

Yamamoto puntellò una mano sul fianco, l’altra che ancora teneva la katana: «…Sai usarli?» chiese a quel punto; a giudicare dalla sfumatura sorpresa che per una manciata di secondi aveva poi animato lo sguardo del suo presunto allievo, a Takeshi parve evidente di aver colto nel segno.

Gli rivolse un sorriso bonario, riponendo nel fodero la katana: «Se era questo il problema potevi dirlo subito.» assicurò col tono cordiale tipico di lui, quasi fosse intenerito da quel modo di fare. Si avvicinò di qualche passo, prendendo senza tante cerimonie il polso sinistro per portarlo vicino al viso abbastanza da studiarne l’anello.

«Il box?» domandò quindi, spostando lo sguardo sul viso di Kazuki.

«Ma tutti i Guardiani sono così impiccioni?» chiese, nel tono una sfumatura d’irritazione per quel modo di fare: se era solo quello a cui era stato affidato, era sfiga.

Se invece erano tutti così, c’era davvero da sperare che in un modo o nell’altro lo rimandassero a casa il prima possibile.

Notando comunque che quel tale Yamamoto sembrava intenzionato a fare tutto tranne mollarlo, si arrese a portare la mano libera in tasca, estraendone il piccolo box: era consunto, segno che era stato certamente utilizzato. Era probabile comunque che fosse appartenuto anche a qualcun altro – magari il precedente maestro di quel ragazzino? – perché viste le premesse dubitava fosse stato Kazuki a ridurlo così.

«Proviamo a vedere che ne esce.» decretò infine Yamamoto, lasciando il polso sinistro di Kazuki e rivolgendogli uno sguardo incoraggiante.

«Non apparirà niente di utile.» borbottò facendo per riportare il box in tasca, fermandosi nel momento in cui si vide la katana puntata contro il viso; alzando lo sguardo, incrociò quello di Yamamoto, a metà fra la provocazione e il divertimento: «Senza box però puoi considerarti già sconfitto, sai?» gli fece notare, ricordandogli la scommessa fatta.

Kazuki si morse il labbro inferiore, accigliandosi: iniziava seriamente a odiarlo, quel tipo.

Lasciò che la fiamma avvolgesse l’anello, facendo spuntare un sorrisetto compiaciuto sulle labbra del più grande nel momento in cui ne riconobbe la familiare colorazione blu tipica dell’attributo della pioggia.

Lo vide portare l’anello vicino al box, lasciando che la fiamma lo attivasse.

 

Non era andata male, no.

O meglio, dipendeva dai punti di vista in realtà: per Yamamoto, che si era aspettato l’altro non fosse nemmeno in grado di incanalare la fiamma nel box visto quanto si era dimostrato restio anche solo a mostrargli l’oggetto, il fatto che avesse estratto l’arma era un buon risultato.

Volendo passar sopra al fatto che la prima impressione era stata quella di un’arma poco utile lì per lì, o moderatamente adatta ad essere chiamata “arma” appunto; ne aveva viste due, quindi un utilizzo “doppio” per così dire. Ma da sola era ben poco funzionale a suo avviso.

Dal punto di vista di Kazuki comunque, quella era una disfatta su tutti i fronti: proprio in virtù della natura duplice dell’arma che avrebbe dovuto materializzare dal box, era stato quasi sbilanciato nei movimenti e negli attacchi utilizzandone una soltanto.

E a quello era seguito un utilizzo della fiamma dell’attributo della pioggia più flebile di quanto avrebbe potuto sfruttarne in realtà; a quello era inevitabilmente conciso la sua sconfitta – che ci sarebbe stata comunque per la differenza di esperienza e di forza, ma che era stata molto più evidente e scottante in quel modo.

Yamamoto rinfoderò la katana, lo sguardo su Kazuki che fissava il box nel quale l’arma era sparita: l’espressione sembrava un misto tra il contrariato e il deluso e, per contro, l’esserselo quasi aspettato, come fosse una prassi che non c’era modo di cambiare.

«Non pensavo si potesse usare anche un solo Sai.» osservò, il tono bonario, per nulla irrisorio, anzi.

Kazuki non parve dello stesso avviso, o più semplicemente l’aveva presa totalmente sul personale: «Certo che no, perché i Sai si usano in coppia.» commentò stizzito. Per lui suonava come una presa in giro detto da un giapponese che doveva quantomeno conoscere le armi utilizzate nelle arti marziali, vista la larga diffusione di quella disciplina nel suo paese.

Yamamoto assunse un’aria poco furba, almeno dal punto di vista del più giovane: «Ti avevo detto di fare sul serio. Non accetterò reclami sulla tua sconfitta.» gli fece presente, una nota di severità nel tono, per quanto leggera.

Kazuki tacque e Yamamoto lo prese come una possibilità di continuare il discorso senza essere interrotto da qualche commento o protesta da parte dell’altro: «Ti allenerai con tutti e due i Sai. Dov’è il secondo box?» domandò senza girarci troppo intorno.

Ebbe modo di notare però che il suo allievo non sembrava granché propenso a mostrargli il fantomatico secondo box: si limitava a guardare altrove, lateralmente, l’espressione contratta, infastidita sicuramente dalla sconfitta ma a quanto sembrava anche da qualcos’altro di non meglio identificato.

«Beh?» lo interrogò Yamamoto, perplesso da un’assenza di reazione, l’espressione che ricordava – ma Kazuki non poteva saperlo – quello stesso Guardiano della Pioggia che da ragazzino sembrava non capire nemmeno le cose più semplici se non gli venivano spiegate passo passo.

«Non uscirà niente.» mormorò contrariato Kazuki, senza nemmeno guardarlo in faccia mentre parlava.

«Il box è danneggiato? O non riesci a reggere due armi contemporaneamente?» tentò Yamamoto, pensoso; il più giovane alzò lo sguardo, irritato: «Ho detto che non uscirà niente dal box, fatti gli affari tuoi sul motivo!» sbottò, dandogli le spalle.

 

 

Ammetteva che non era stato geniale parlarne a Gokudera che avrebbe preferito una missione suicida al rapportarsi ai giovani promettenti che arrivavano lì da loro; che non avesse una gran pazienza era assodato, e Lambo avrebbe potuto narrare storie su storie in proposito, che lo testimoniassero.

Quindi Yamamoto doveva effettivamente biasimare se stesso se ora stava rischiando che Gokudera, trovato il suo cosiddetto studente, avesse deciso di adottare una terapia d’urto, ecco.

«Non ho intenzione di perderci tempo come fai tu, idiota, sappilo da adesso.» chiarì il Guardiano della Tempesta, lanciandogli un’occhiata eloquente da sopra la spalla prima di portare di nuovo lo sguardo davanti a sé, continuando a camminare in direzione della stanza d’allenamento dove questo Kazuki doveva essere in attesa.

Sì, si ripeteva Takeshi, non era stata proprio la scelta migliore: tuttavia era stata la più logica.

Dopo tre giorni in cui aveva praticamente subito un forzato ritorno al passato scontrandosi con il pessimo carattere di Kazuki – che aveva tragicamente scoperto essere un pessimo miscuglio tra la scarsa pazienza, l’essere impulsivo e tendente allo straparlare di Gokudera e l’arroganza insita in Hibari. Con la differenza che il Guardiano della Nuvola poteva anche permetterselo – Yamamoto era riuscito a capire quale fosse il problema delle sue armi.

Kazuki sembrava aver sviluppato la capacità di liberare le fiamme utili ad aprire i box solo in alcuni punti specifici: uno, quello dell’attributo pioggia che aveva utilizzato, era alla mano sinistra e non sembrava dare particolari problemi. Il secondo, che Yamamoto supponeva fosse quello utile ad aprire il box con il secondo Sai, era alla mano destra e si era rivelato appartenere all’attributo della tempesta.

A quel punto era parso chiaro che il problema di Kazuki fosse non riuscire a bilanciare contemporaneamente due attributi diversi – confermato dalla reazione del ragazzo, che si era tradotta in un tentativo andato a vuoto di mollare un cazzotto al suo maestro, per nulla rispettato nemmeno di striscio nonostante la sconfitta subita.

Era stato scontato chiedere a Gokudera: chi meglio di lui avrebbe potuto efficacemente insegnare a Kazuki come bilanciare entrambe le fiamme, se non il Guardiano della Tempesta che sapeva destreggiarsi con il C.A.I System?

Nessuno, si era risposto.

Peccato che ora, mentre varcavano la soglia della stanza in cui Kazuki li attendeva – assolutamente controvoglia, tanto per cambiare – Yamamoto pensava che in meno di dieci minuti avrebbe potuto assistere ad un attacco di infantilismo di Gokudera e conseguente litigio come se fossero due ragazzini tutti e due.

Sospirò quando vide Kazuki alzare lo sguardo su di loro, sperando che qualcosa nell’istinto di sopravvivenza del ragazzo gli suggerisse di tacere o almeno limitare i danni.

«E questo chi sarebbe?» chiese guardingo – e Yamamoto capì che no, Kazuki al momento non possedeva alcun istinto di sopravvivenza. Neanche vago.

Gokudera fissò il ragazzino: «Questo» ripeté, sottolineando la poca simpatia che sembrava aver già sviluppato verso il più giovane «è quello che deve insegnarti a bilanciare quello sputo di potere che ti ritrovi.» replicò in una provocazione piuttosto palese.

Kazuki lo fissò, l’aria annoiata: «E chi te l’ha chiesto.» fu la replica lineare.

Takeshi si chiese fra quanto avrebbe dovuto iniziare a reggere Gokudera.

Quasi a sorpresa, l’altro inspirò ricercando la calma necessaria da qualche parte – oh, una differenza rispetto al Gokudera di dieci anni prima allora c’era!

«So che hai perso contro Yamascemo.» gli fece presente – però il vizio di punzecchiare gli altri, notò Yamamoto, quello in Gokudera non sembrava essere mai cambiato.

«Visto che devi comunque restare, tanto vale imparare, no?» gli fece presente, stavolta serio, senza alcuna presa in giro di sottofondo. Dopotutto, dal punto di vista del Guardiano della Tempesta, quel ragazzino aveva tutto da guadagnare: se anche dopo l’allenamento non fosse stato considerato adatto, lo avrebbero lasciato tornare a casa come sbraitava di voler fare dall’inizio secondo quanto riferitogli da Yamamoto.

Qualora invece avesse dimostrato una buona attitudine, avrebbe avuto la possibilità di diventare più forte e di molto, senza considerare i vantaggi o meno di appartenere alla Famiglia Vongola.

Per Gokudera, che all’età di quel Kazuki avrebbe pagato oro per avere qualcuno che potesse farlo migliorare sul serio in tempi sicuramente più brevi rispetto all’avere altri insegnanti, quella sembrava un’ottima occasione per la quale essere grati da qualsiasi punto di vista la si osservasse.

«Io odio la mafia. Dove lo vedi, il lato positivo?» chiese irritato il più giovane, fissandolo altrettanto seriamente: «Non mi interessa se siete la Famiglia più forte del mondo, né che qualcuno pensi che la mia sia una grande fortuna. Per me non lo è, cedo il posto volentieri. Voglio solo tornarmene in Giappone, a casa mia, e fare finta che non esista niente di quello che vedo al momento.» concluse, chiaro e conciso per la prima volta – e, notò Yamamoto, quella era probabilmente la frase più lunga che Kazuki avesse pronunciato in sua presenza da quando si erano rivolti la parola.

 

 

«Sei un imbecille!» imprecò contro di lui Gokudera, tirandogli il dossier addosso – che Yamamoto prese prontamente prima che tutti i fogli cadessero al di fuori della cartelletta che li teneva ordinati.

«Eh?» chiese perplesso, osservando il compagno che occupava la stanza.

Questi lo guardò con espressione nervosa, che al Guardiano della Pioggia ricordò con una certa nostalgia i tempi della scuola media, quando Gokudera si arrabbiava con lui praticamente per ogni cosa, dandogli spesso dello stupido anche quando forse a volte non serviva – ma spesso, col senno di poi, serviva eccome.

«Ti sei almeno dato la pena di leggerlo quel fascicolo?!» sbottò l’italiano, fissandolo eloquente.

Yamamoto sorrise, quel sorriso che prometteva una risposta stupida e l’ennesima irritazione per il suo interlocutore: «Naah, ho pensato che non aiutasse la fiducia fra maestro e allievo. Lui non ha un fascicolo su di me, ho creduto che fosse più divertente scoprire le cose conoscendosi, no?» replicò.

«No! Ed è esattamente per questo che continuo a ripetere che sei un imbecille!» lo aggredì Gokudera, lasciandosi cadere seduto sul divano.

Senza dare il tempo a Takeshi di chiedere nulla, lo anticipò: «Se solo ti fossi preso la briga di dargli un’occhiata, lo avremmo rimandato indietro subito e avremmo evitato anche a lui di restare in Italia senza un motivo.» sfuriò, fissando il Guardiano della Pioggia che al momento valutava di essersi seriamente perso qualche passaggio.

Yamamoto sospirò, prendendo posto nella poltroncina vicina al divano dove sedeva l’altro.

Gokudera sospirò nel vederlo portare lo sguardo sul fascicolo: «Lascia perdere.» lo interruppe quasi subito, accendendo una sigaretta e portandosela alle labbra.

Dopo una prima boccata, parlò di nuovo: «Ishida Kazuki, figlio di Ishida Haruki e Aikawa Midori; vive in Giappone attualmente, a Kyoto.» iniziò a riassumere quanto letto nel fascicolo.

«Suo padre, Ishida Haruki, è conosciuto nell’ambiente della mafia e dei Vongola: è stato un sottoposto del Nono negli ultimi periodi in cui c’è stato e poco prima dell’investitura ufficiale del Decimo è morto, ucciso da una Famiglia rivale.» spiegò, occhieggiando Yamamoto e concedendosi un’altra boccata.

«Mi pare ovvio che quel Kazuki non abbia alcuna intenzione di stare qui. La mafia ha ucciso suo padre, non puoi aspettarti che faccia una festa all’idea di essere assoldato nell’ambiente e nella famiglia che lo ha privato di un genitore. Non sposerà mai la nostra causa, a prescindere da tutto e da qualsiasi cosa gli si proponga.» concluse.

Nessuno dei Guardiani meglio di loro poteva capire: entrambi avevano subito la perdita di un genitore, Gokudera da bambino e Yamamoto poi. E proprio quest’ultimo poteva comprendere ancor meglio i sentimenti dell’allievo, visto che anche suo padre era morto ucciso dalla mafia.

Forse Kazuki era stato affidato a lui per un motivo diverso dal pessimo carattere che altri avrebbero soppresso quasi nell’immediato senza mezze misure.

Forse, Kazuki gli era stato affidato perché altri non avrebbero potuto capire quanto il Guardiano della Pioggia poteva invece fare.

 

 

Sentì bussare alla porta, verso la quale alzò gli occhi prima di pronunciare un neutro: «Avanti.» salvo pentirsene nel vedere apparire sulla soglia Yamamoto Takeshi.

Sbuffò senza darsi la pena di nasconderlo; in realtà non avrebbe saputo dire con precisione cosa lo infastidisse davvero di quell’uomo, perché a conti fatti non gli aveva fatto nulla di così tremendo – a parte chiamarlo “Kacchan” perché aveva vinto quella stupida scommessa, ecco.

Forse, si era detto, era il semplice fatto che fosse nella mafia e della Famiglia Vongola.

O forse che cercasse in tutti i modi di fargli credere che avrebbe dovuto essere grato di essere finito lì; o, ancora, probabilmente era proprio la sua indole a non piacergli: quel continuo tentativo di essere amichevole, di fargli da fratello maggiore o di instaurare un’amicizia, un rapporto di fiducia.

Magari erano tutte quelle cose insieme a irritarlo.

Lo vide richiudersi la porta alle spalle e la pessima sensazione di un classico discorso padre-figlio lo fece pentire di aver pronunciato quel “avanti”.

«Che c’è?» chiese, più che altro perché si sbrigasse a riferirgli qualsiasi cosa fosse venuto a comunicargli – era troppo sperare che fosse un “sei libero di andartene”, vero?

«Ho letto il tuo fascicolo. Cioè, in realtà lo ha letto Gokudera e me lo ha più o meno riassunto.» spiegò raggiungendo il letto dove sedeva anche Kazuki, uno dei diversi presenti nell’alloggio adibito ai ragazzi che venivano per essere valutati prima di entrare in Famiglia.

Kazuki non disse nulla, e Yamamoto lo prese quasi come un invito a continuare: «Ho saputo anche di tuo padre quindi. Se avessi letto prima di iniziare con quella nostra sfida, forse sarebbe stato più semplice.» ammise, l’espressione gentile rivolta al più giovane che ancora si limitava ad osservarlo.

Dopo qualche istante di silenzio, tuttavia, parlò: «Quindi posso andarmene?» chiese a bruciapelo. Se davvero ora sapeva come stavano le cose, certamente non poteva essere ancora convinto che ci fosse una possibilità di convincerlo a rimanere – sempre ammesso che fosse idoneo.

«Veramente sono venuto a prenderti. C’è una persona che vorrebbe parlare con te, prima di qualsiasi decisione.» ammise, portando istintivamente Kazuki ad inarcare un sopracciglio confuso.

«E chi sarebbe?» domandò, una nota di sincera curiosità nel tono.

Yamamoto abbozzò un sorriso leggero: «Tsuna, il Decimo boss dei Vongola.»

 

Era stata una pessima idea; questo era il pensiero condiviso da tutti i presenti al momento.

Non era stato eccessivamente problematico portare Kazuki da Tsuna: il ragazzo non aveva fatto troppe storie, sebbene non fosse esattamente il ritratto dell’entusiasmo. Tuttavia, considerando il soggetto e la situazione, un’assenza di lamentele era da considerarsi un buon segno.

Nel momento in cui Kazuki era stato fatto entrare nell’ufficio personale di Tsuna, Yamamoto era entrato con lui e all’interno della sala erano presenti Gokudera e Mukuro, mentre Hibari sembrava fosse in procinto di uscire quando loro erano arrivati.

Tsuna, il sorriso gentile disteso sulle labbra, si era alzato quando erano entrati come un ragazzino in ansia per un incontro atteso da tanto; Kazuki era rimasto sulle sue, dapprima affiancato dal Guardiano della Pioggia, poi lasciato avanzare di poco rispetto a quest’ultimo.

Le parole di Tsuna erano state come ci si poteva aspettare dal Decimo dei Vongola: cortesi, rassicuranti. Come il sorriso che aveva rivolto al più giovane, o il modo di fare pacato e un po’ impacciato che lo aveva sempre contraddistinto, come se in realtà fosse rimasto il ragazzino delle medie di una volta.

Si era presentato anche quando non ce ne era davvero bisogno, vista la sua posizione: si era reso un pari del suo interlocutore, porgendogli una mano che Kazuki aveva stretto senza troppa enfasi e si era detto a conoscenza della situazione e del desiderio del più giovane di voler andare via ancora prima di essere considerato idoneo o meno all’addestramento tra i nuovi membri della Famiglia Vongola.

Kazuki si era mantenuto fermo sulla sua decisione, confermando tutto; Tsuna aveva sorriso appena, probabilmente un po’ a disagio. Non era mai stato il tipo bravo con le parole, e sebbene avesse fatto di necessità virtù, era sempre l’imbranaTsuna di una volta, in qualche modo.

Yamamoto per un attimo era stato convinto che l’amico, nonché suo Boss ormai, sarebbe riuscito ad instaurare quel dialogo che sembrava tanto difficile da costruire con il giovane giapponese.

Invece non era andata così bene.

Nel momento in cui Tsuna si era scusato per la morte del padre di Kazuki – non era certo colpa sua, né era tantomeno a capo della Famiglia quando era accaduto, ma era tipico di Tsuna un atteggiamento simile – il più giovane lo aveva guardato come aveva fatto la prima volta che Yamamoto aveva cercato di avvicinarlo amichevolmente.

«Non scusarti per la morte di mio padre.» aveva detto, e per un attimo aveva lasciato sperare in una reazione positiva: «Tu di lui non sai niente. Sei solo uno che sta seduto dietro una scrivania, firma i fogli e manda a morire le altre persone. Forse non sei quello che ha mandato mio padre, ma sei sicuramente come lui. Non si sceglie un successore in base a quello? A quanto somiglia alla persona di cui deve prendere il posto?» aveva continuato, fissando Tsuna non tanto con l’arroganza che si rifletteva nel tono, quanto più con risentimento.

Segno evidente che credeva in quello che diceva.

«Per me non sei né più, né meno di un assassino. Anche se ti scusi, non mi ridarai mio padre. Perciò risparmiatelo. Sentire quello che dici mi fa venire volta stoma—»

Non aveva finito di parlare; contrariamente a quanto ci si potesse aspettare data la presenza di Gokudera nella stanza però, non era stato l’italiano ad interromperlo, sebbene si fosse sbilanciato di qualche passo verso Kazuki con il chiaro intento di non permettergli di offendere oltre il Decimo.

Tuttavia era stato fermato da un movimento veloce: Yamamoto aveva fatto pressione sulla spalla di Kazuki quanto bastava perché si voltasse appena, e un ceffone aveva colpito il più giovane in pieno viso senza che questi potesse evitarlo in alcun modo.

La stanza era piombata nel silenzio, la mano di Yamamoto ancora a mezz’aria, il volto di Kazuki girato lateralmente a causa dello schiaffo, Gokudera ancora in procinto di muoversi verso il ragazzo e Tsuna proteso a sua volta in avanti con espressione sorpresa dopo aver istintivamente richiamato il Guardiano della Pioggia nel tentativo di fermare il suo gesto.

Kazuki aveva un’espressione di pura sorpresa, senza quell’alone tipico di un ragazzino che tenta di fare l’adulto che invece sembrava essere onnipresente almeno fino a quel momento.

Quando aveva riportato lo sguardo su Yamamoto, magari anche con l’intento di dire qualcosa, ogni possibile replica gli era morta in gola ritrovando non l’espressione amichevole e un po’ sciocca vista fino a quel momento nel Guardiano, ma una di fredda severità.

Addirittura gli era parso di leggervi irritazione, rabbia.

«Impara a rimanere al tuo posto di ragazzino viziato che non sa niente.» erano state le uniche parole che Yamamoto gli aveva rivolto, prima di guidarlo quasi forzatamente nella stanza comune da cui lo aveva prelevato.

 

Avevano lasciato passare due giorni, durante i quali Ishida Kazuki non era tornato in Giappone, né era stato addestrato. C’era stata una discussione aperta sul permettergli o meno di essere valutato come tutti gli altri, e alla fine Tsuna aveva insistito per dargli quella possibilità se il ragazzo avesse cambiato idea e quindi avuto il desiderio di provare. In caso contrario, aveva dato disposizioni perché venisse accompagnato in aeroporto insieme ai candidati ritenuti non idonei; aveva inoltre rimproverato Yamamoto, sebbene senza un’eccessiva severità com’era facile immaginare.

«So che lo hai fatto istintivamente e per rimproverarlo di quello che ha detto.» aveva premesso Tsuna: «Ma è giovane. E nemmeno noi avevamo una grande opinione della mafia alla sua età: io stesso pensavo fosse niente più di una cosa pericolosa da cui tenermi fuori. Ma almeno i miei genitori erano entrambi vivi. Ishida-kun ha anche l’odio dalla sua parte, penso che dirgli quelle cose in qualche modo sia stato sbagliato.» aveva spiegato quindi.

Troppo buono, lo aveva definito Gokudera, e in parte Yamamoto si era detto d’accordo con il Guardiano della Tempesta quella volta. Per contro però, capiva anche il punto di vista di Tsuna, e doveva ammettere che lui per primo aveva rimuginato su quanto fatto.

Non che perdonasse fino in fondo le parole di Kazuki, ma ammetteva che si trattava appunto di un ragazzino che non poteva vedere che un solo lato di loro e di quel mondo di cui facevano parte.

«Chi è?» sentì chiedere oltre la porta alla quale aveva bussato.

Sospirò: sarebbe stato tutt’altro che facile.

«Yamamoto. Esci un attimo.» replicò.

«Sono troppo viziato per arrivare fino alla porta.» sentì ribattere dall’altra parte; abbozzò un sorrisetto divertito.

Se non altro, aveva ancora voglia di fare battute irriverenti come quella.

«Allora entro io.» sentenziò semplicemente aprendo la porta e ritrovandosi a dover evitare un cuscino che si abbatté contro la porta, afflosciandosi durante la discesa verso il pavimento.

Cercò con lo sguardo Kazuki, trovandolo con il braccio ancora a mezz’aria, in piedi vicino al proprio letto; lo vide voltare il viso lateralmente interrompendo il contatto visivo e tornando a sedersi.

Yamamoto sospirò, facendo qualche passo avanti.

«Non venire qui!» sbottò il più giovane, lo sguardo nascosto un po’ dal viso voltato, un po’ dalla frangia; il tono era inequivocabilmente quello di chi è arrabbiato, confuso e in qualche modo anche umiliato.

Nonostante lo avesse lasciato fare come voleva anche troppo da quando glielo avevano affidato qualche giorno prima, Takeshi rimase fermo dov’era.

«Ho capito, va bene?» riprese senza che il Guardiano della Pioggia gli chiedesse nulla: «Devo per forza stare qui a meno di non dimostrarmi totalmente incompetente. Ho capito anche il perché del ceffone, quindi puoi andartene via, non c’è bisogno che rimani!» blaterò, lasciandosi cadere seduto sul materasso.

Yamamoto sospirò: a discapito del fare arrogante che aveva, quel ragazzino era molto più infantile di quanto non sembrasse, sotto certi aspetti.

Riprese ad avanzare, fino a raggiungerlo vicino al letto, sedendovi senza chiedergli nulla.

«Nessuno di noi Guardiani aveva molta voglia di entrare nel mondo della mafia. A parte Gokudera probabilmente, e Lambo era già parte di una Famiglia.» prese a raccontare.

Kazuki, le mani poggiate quasi all’altezza delle ginocchia, strinse impercettibilmente la presa sulla stoffa dei pantaloni: «Non te l’ho chiesto.» borbottò.

«Lo so.» fece presente Yamamoto: «Vorrei solo che ascoltassi per un po’. Non devi né per forza credermi, né essere d’accordo con me. Solo ascoltare.» disse, accondiscendente.

Data l’assenza di proteste o repliche da parte dell’altro riprese come se il più giovane avesse acconsentito.

«Questa storia della mafia è iniziata che avevamo la tua età grosso modo. Tsuna era un fifone incredibile, c’era da chiedersi chi fosse stato il folle a designarlo come successore del Nono boss dei Vongola.» prese a ricordare, il tono divertito.

«Prova ad immaginarti la scena: i membri principali che avrebbero formato la seguente generazione di una Famiglia potente come questa, erano un boss che non aveva voglia di nuocere nemmeno agli insetti e quindi men che meno di far parte della mafia. Ed era affiancato da un braccio destro un po’ troppo impulsivo, un bambino di cinque anni, un fissato dell’estremo, un nemico che è diventato poi un alleato, una persona che piuttosto che fare squadra si sarebbe fatto volentieri uccidere probabilmente, e da me che credevo la mafia fosse un gioco in stile guardia e ladri.» raccontò, senza alcuna vergogna, anzi quasi con affetto.

Era il passato che li aveva accomunati, legati, e portati lì dov’erano ora: ad essere, in un modo strano e tutto particolare, una famiglia unita.

Notò che aveva catturato l’attenzione di Kazuki, almeno a giudicare dall’occhiata veloce che l’altro gli aveva rivolto in quel momento: «…Mi chiedo come siate ancora vivi.» borbottò infatti, ancora sulla difensiva e con una sfumatura della spavalderia ostentata nei giorni precedenti.

Yamamoto rise apertamente: «Ce lo chiediamo tutti, te lo assicuro. E non ti nego che abbiamo rischiato la vita più volte di quante ne abbiamo contate con cognizione di causa.» ammise, come se quella dovesse essere una rassicurazione.

Kazuki non disse nulla, e Takeshi decise quindi di proseguire: «Ci sono stati nemici. E ci sono stati anche amici, come delle conquiste e delle perdite. Riassumerti degli anni interi sarebbe impossibile, ma sono anni fatti di ricordi belli e pessimi.» gli fece presente, quasi un ammonimento sebbene non severo.

«E quale sarebbe il punto? Se stai cercando di farmi piacere la mafia, guarda che—»

«Aspetta, aspetta.» lo interruppe Yamamoto, alzando una mano davanti al viso dell’altro, enfatizzando le parole appena pronunciate in modo che potesse finire il discorso: «Il punto è che ora noi siamo tutti qui.» pronunciò con semplicità, come si direbbe una verità che non può essere contestata.

E in fondo era vero.

Dopotutto, nonostante gli anni passati, le premesse, le battaglie vinte o perse, erano esattamente tutti lì.

«Tutti siamo cambiati, ognuno ha ceduto a dei compromessi in qualche modo. Non sto dicendo che il mondo della mafia è bello e divertente. La mafia in Italia ha una storia che fa accapponare la pelle e che è conosciuta persino all’estero.» ammise con totale sincerità.

«La mafia toglie la vita alle persone. Persino di quelli che ne fanno parte, non solamente di che ne ha subito o subisce i soprusi.» proseguì: «La mafia ha una giustizia tutta sua, che spesso nemmeno noi condividiamo totalmente. Ha ucciso tuo padre, così come ha ucciso il mio.» disse, concedendosi una pausa leggera.

Momento di silenzio in cui il più giovane lo aveva guardato sorpreso, più confuso di prima se possibile: «Tuo padre è…?» mormorò piano, quasi temesse di dirlo.

Yamamoto annuì soltanto: «Lui non faceva parte di questo mondo, ma io sì. Per colpire me, hanno colpito lui.» spiegò brevemente, cercando di indovinare i pensieri che potessero affollare la mente del più giovane in quel momento.

«La vendetta per la prima volta era stata al centro dei miei pensieri. E non dico che ora sia scomparsa totalmente, o che io abbia accettato l’accaduto come un’inevitabile conseguenza della mia posizione al fianco di Tsuna. È impossibile, non ci riuscirei in nessun caso. Come non puoi riuscirci tu.» gli fece presente.

Azzardò ad alzare la mano e scompigliare i capelli di Kazuki con fare da fratello maggiore – dire o pensare “paterno” sarebbe stato davvero fuori luogo in quel momento – rivolgendogli un sorriso gentile.

Il più giovane, che istintivamente aveva chiuso gli occhi quasi aspettandosi un altro ceffone neanche fosse una prassi decisa chissà quando, si ritrovò ad arrossire.

Non tanto per il gesto o per chissà quale pensiero, ma per la vergogna e i pensieri che aveva represso finché aveva potuto, rifiutandosi di parlare della morte di suo padre in modo approfondito come ora stavano arrivando a fare.

Aveva negato persino a sua madre di poterne parlare per sfogare un dolore che certamente lei aveva sentito più di lui: era cosciente, benché avesse fatto finta con se stesso di non essersene accorto, di essere stato terribilmente egoista e ingiusto nei suoi confronti.

Eppure, per proteggersi da quel dolore che lo aveva svuotato e riempito al tempo stesso quando una voce anonima al telefono aveva comunicato la morte di Ishida Haruki alla famiglia, era passato sopra ai sentimenti di molti, riversando la sua rabbia e la sua frustrazione da ragazzino viziato su persone che soffrivano più di lui.

«Sapevo che mio padre… era morto perché aveva scelto di morire.» pronunciò, nel tono la vergogna che già i gesti avevano palesato.

Yamamoto comunque fu in parte sorpreso da quella frase; allontanò la mano, osservandolo in attesa di qualcosa che gli facesse capire meglio cosa intendeva.

«Sapevo che mio padre amava e rispettava la Famiglia di cui faceva parte. Sapeva che era pericoloso, ma… quando tornava a casa, mi ricordo che parlava di questo posto come una casa piena di persone che amava. Per lui io e mia madre eravamo importanti, ma le persone qui… erano come fratelli. Lo ha sempre detto.» pronunciò, inaspettatamente logorroico quando fino a poco prima non sembrava fidarsi  nemmeno di avere il Guardiano nella stessa stanza.

Probabilmente non era fiducia, quella: non completamente, non ancora.

«Diceva anche che il boss era una persona buona, e che solo per quello si affidava a lui come tanti altri. Ma è stato egoista!» alzò il tono di botto: «Anche se si sentiva legato a lui, ce l’aveva una famiglia! Aveva me e mia madre! Lei ha… pianto, si è disperata e io non potevo fare niente! Cosa pensi che se ne faccia di un telegramma di condoglianze che riporta quanto il comportamento di suo marito sia stato impeccabile?!» esclamò con rabbia e quel risentimento che Yamamoto riconosceva fin troppo facilmente.

«Non se ne fa niente! Come io non me ne faccio nulla di due stupidi anelli e delle armi e la sua richiesta di accogliermi qui! Se io morissi, mia madre… mia madre non…» balbettò, troppo giovane per esprimere tanti sentimenti mescolati insieme.

«Tu non devi necessariamente morire. E non devi per forza rimanere qui.» pronunciò piano Yamamoto, il tono che voleva essere quanto più conciliante possibile.

«Decidi quello che pensi sia giusto.» riprese, osservandolo e tornando a dare una breve scompigliata ai capelli scuri, alzandosi poi dal letto.

«La fedeltà di tuo padre portava il nome del nono Boss dei Vongola. La tua, porterebbe quello di Sawada Tsunayoshi, questo voglio tu lo sappia prima di pensare a cosa vuoi fare.» disse, mentre si avvicinava alla porta col chiaro intento di andarsene via.

Si fermò poco distante da essa: «Sai per quale motivo persone come noi, che sembravamo niente più di un gruppo assemblato a casaccio, siamo diventati tutti comunque Guardiani del Decimo?» chiese, voltando la testa quanto bastava ad osservare il più giovane da sopra la spalla.

Non attese una risposta di Kazuki, dal momento che la domanda era stata volutamente retorica.

«Perché la mafia non è un bell’ambiente, e Tsuna è assolutamente inadatto a questo mondo. È pacifista fino al midollo, si preoccupa dei nemici quanto degli amici, è onesto, sincero e ingenuo. È anche impacciato, e a volte terribilmente tonto.» disse, come se quella fosse la risposta.

Kazuki fece per aprire bocca, ma il Guardiano lo anticipò: «Proprio per questo, sembra che allontani tutti i sentimenti negativi, almeno un po’. Quando ti dice che capisce, che vendicarsi è comprensibile ma… “stai attento”. “Bentornato”. “Non morire, e guarda che è un ordine”.» elencò.

E ridacchiò piano, osservando poi Kazuki col sorriso ancora sulle labbra, ma l’espressione di chi sta parlando più che seriamente: «Lui è quel Cielo sotto il quale tutti noi abbiamo deciso di vivere. Non di morire, ma vivere..» disse semplicemente.

Aprì la porta, varcandone la soglia, per richiudersela alle spalle.

Solo dopo aver pronunciato: «Se te la senti, prendi i tuoi sentimenti peggiori, trasformali in forza e fidati di lui. Non morirai tanto facilmente; nessuno permette a qualcuno di uccidere un membro della Famiglia senza proteggerlo in ogni modo possibile.»

 

 

«Ehi, rimani al tuo posto!» sente rimproverare da Gokudera; a Yamamoto scappa uno sbuffo divertito, un po’ per la solita apprensione dell’altro Guardiano, un po’ per la sua totale assenza di tatto e di sopportazione nei confronti delle persone che entrano a far parte della Famiglia ex novo.

Vede il poveretto che è stato ripreso irrigidirsi e scusarsi a profusione farfugliando, mentre Gokudera sbuffa seccato senza badare a nasconderlo troppo, tornando a guardare ansioso la casa fuori dalla quale stanno aspettando.

Yamamoto ne approfitta per fare lo stesso, il mento poggiato sulla spalla di Gokudera tanto per stare più comodo e cercare di allentare un po’ la sua tensione.

«Che vuoi?!» scatta subito Hayato – e va bene, dovevano tenersi la suddetta tensione a quanto pareva.

«Sembri un novellino, calmati un po’.» mormora Yamamoto con tono morbido, sentendo inevitabilmente il classico verso stizzito sfuggire dalle labbra dell’altro: «Non parlarmi di novellini, non fossi preoccupato commetterei un omicidio a breve.» pronuncia e qualcosa suggerisce che un’altra sfida ai suoi – al momento – fragili nervi e potrebbe farlo davvero.

«Non preoccuparti per Tsuna. È un incontro tranquillo, siamo qui solo perché è formale.» gli riporta alla mente, visto che l’altro tende a dimenticare i dettagli ogni volta che un incontro implica l’interagire solo ed esclusivamente dei Boss.

Nota l’espressione del Guardiano della Tempesta distendersi, e coglie il sospiro sollevato; seguendone lo sguardo ne individua la causa: Tsuna sta tornando indietro, perfettamente integro, sano e salvo.

Lo vede rivolgere un sorriso in loro direzione, per tranquillizzarli come fa sempre in casi come quello.

«Vongola-juudaime!» sentono chiamare, tant’è che Tsuna si ferma e si volta con fare interrogativo verso uno degli uomini del Boss con cui ha appena finito di discutere e nota che ha fra le mani un foglio che sì, ha dimenticato quando era esattamente per quello che si era recato lì.

Sospira appena, l’aria impacciata per la propria distrazione – sperava seriamente che Reborn non lo scoprisse – facendo per muovere qualche passo per andare incontro all’uomo.

Intenzione bloccata sul nascere nel notare l’appartenente all’altra Famiglia fermarsi con aria sconcertata e appena spaventata: comprensibile, se ci si ritrova un’arma puntata alla gola.

«I-Ishida-kun!» richiama Tsuna, lo sguardo su Kazuki che è l’autore di quell’interruzione e che, alle spalle dell’uomo, tiene uno dei Sai puntati alla sua gola pur portando lo sguardo sul Decimo.

«Sì?» dice come se la posizione fosse quasi comoda.

Tsuna gli va incontro, frettolosamente: «Non c’è bisogno, quel foglio è solamente quello che ho firmato e dimenticato!» pronuncia quasi inceppandosi per velocizzare il chiarimento della situazione e far sì che il diciannovenne lasci il povero uomo.

Kazuki non sembra convinto lì per lì, non tanto dall’espressione che non muta, quanto più dal fatto che non si muove, almeno per i primi istanti.

«Niente mosse azzardate e distanza decente dal Decimo. O potrebbe accidentalmente sfuggirmi il controllo sulla mia arma.» pronuncia, il tono fra l’arrogante e il divertito dal terrore del poveretto che non c’entra nulla e che deglutisce annuendo più volte.

Tsuna gli rivolge un’occhiata di rimprovero eloquente, della quale Kazuki non si preoccupa troppo, abbassando l’arma e controllando che tutto si svolga regolarmente e che Gokudera affianchi Tsuna per considerare la situazione sotto controllo.

Lascia che i Sai rientrino nei box, in tempo per sentirsi circondare le spalle in un gesto a cui ormai si è arreso per disperazione; sospira: «Taichou*, siamo al lavoro.» fa notare pazientemente.

«Tecnicamente abbiamo finito, Kacchan. E comunque, non devi spaventare così i nuovi alleati della nostra Famiglia.» lo rimprovera Yamamoto.

«Guardi che è lei che si fida troppo.» rimbecca in contrasto con il formale “lei” che gli rivolge; Yamamoto ridacchia: Kazuki in tre anni era cambiato tanto, ma certe cose erano rimaste uguali.

Come l’irriverenza, la testardaggine o il carattere fondamentalmente irascibile.

Se non altro, manteneva sangue freddo quando serviva – ancora non sapeva con quale allenamento avessero ottenuto quel risultato, ma supponeva che l’importante fosse averlo ottenuto.

Porta una mano a scompigliargli i capelli, ritrovandosi di nuovo a sentire lamentele di un diciannovenne che a quel gesto torna sempre il ragazzino di una volta che odiava la mafia.

La odia anche adesso per la verità, o così gli ha detto; solo, ha chiarito Kazuki quel giorno di quasi tre anni fa, mio padre diceva del Nono le stesse cose che tu dici del Decimo. Ma se non mi fa cambiare idea sulla mafia, me ne vado.

«Taichou, la pianti di trattarmi come un peluche maledizione!» lo sente imprecare mentre schiva un suo pugno, che nel linguaggio personale del suo allievo sa essere abbastanza scherzoso.

Anche se, a distanza di anni, dei miglioramenti, dei cambiamenti, del rispetto che l’altro gli rivolge, Yamamoto continua ad essere convinto di aver commesso uno sbaglio con lui.

Lasciare che Gokudera se ne occupasse trasmettendogli certe reazioni violente – carine, certo, ma indubbiamente pericolose per lui.

 

 

Deliri dell’autrice (ossia tutte quelle note che potete anche saltare)

Ho odiato questa fanfic con il cuore.

All’inizio l’idea di Yamascemo insegnante mi aveva presa totalmente, e affiancargli uno studente difficile altrettanto; Kazuki nasce come personaggio in qualche modo di contorno, un mezzo per sviscerare un po’ il fatto che i Guardiani siano diventati tali prendendo tutte le esperienze e facendone tesoro, come si suol dire.

…Non so quanto ci sono riuscita, né quanto Kazuki possa essersi rivelato adatto allo scopo e all’ambientazione di Reborn.

Altro punto focale, il rapporto del personaggio originale con la mafia: nonostante Reborn sia un anime che trovo bello e divertente, non volevo che la mafia passasse erroneamente per una cosa carina e coccolosa: anche per questo ho lasciato volutamente un po’ in sospeso il processo per il quale Kazuki è rimasto accanto al Decimo dei Vongola, alias Tsuna.

Credo che addentrarmi in una cosa simile sarebbe risultato troppo delicato e fuori dalla mia portata.

Senza contare che 12 pagine per una shot sono improponibili, e me lo dico da sola.

Perciò concludo il siparietto, come sempre mi rimetto al vostro giudizio e se avete colto sfumature 8059 sul finale era cosa puramente voluta.

Se li avete colti su Yamamoto e Kazuki, vi prego, no: mi fa impressione ç_ç” (XD).

   
 
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