(Fabrizio De André)
Versailles.
Era
un caldo pomeriggio di agosto, il cielo era terso, perfetto.
Ogni
tanto si alzava una leggerissima brezza, ma per la maggior parte del
tempo
l’aria rimaneva immobile.
E passeggiavo con Ariel, come al
solito,
parlando del più e del meno. Come chissà quante
altre volte, decidemmo di fare
un giro nella reggia (tanto per non essere monotoni).
All’ingresso
pagammo il biglietto e ci dirigemmo verso i giardini della reggia, le
cui
fontane mi avevano sempre affascinato. Ricordo che una volta ci caddi
dentro,
ed a pensarci mi viene da ridere.
Avevo
12 anni, mese più, mese meno.
Mi
ero talmente piegato in avanti da perdere l’equilibrio e
caderci dentro. Anche
quella volta era estate. Il lato positivo fu che almeno mi rinfrescai.
Come
se mi avesse letto nel pensiero, Ariel mi chiese: -Léandre!
Ti ricordi quando
ci cadesti dentro? –
-Penso
che sia difficile dimenticare una cosa del genere– risposi.
E
lui rise, ma nascondeva un certo nervosismo. Sapeva che
l’avevo notato, e cercò
di fare l’indifferente.
In
realtà si comportava così da qualche tempo.
Non
volli insistere, ma dopo 17 anni, oramai, mi conoscevo fin troppo bene:
prima o
poi l’avrei fatto parlare. Più prima che poi.
Passeggiamo
lungo i giardini parlando, come al solito.
Parlare
con Ariel era fin troppo semplice. Bastava una parola per cavarne un
discorso,
che fosse sensato o meno, o qualche risata.
Proprio
per questo furono gli altri a vedere quello che ci legava, e che fino a
quel
momento non avevamo notato. Anzi, no. Forse io avevo il prosciutto
sugli occhi,
e non essendo un veggente o simili, non sapevo cosa potesse pensare
Ariel, o
almeno non proprio tutto.
Dopo
aver passato forse fin troppo tempo nei giardini, decidemmo di uscire,
e di
andare dove ci avrebbero portato i piedi.
Non
ricordo precisamente quanto tempo camminammo, ma sta di fatto che
raggiungemmo
la campagna di Versailles, grazie ai miei tanto amati viali alberati.
Decidemmo
di sederci all’ombra di un salice. Il caldo era davvero
snervante, anche se il
sole stava per andare a riscaldare l’altra parte del mondo.
Allora,
mi rivolsi a lui: -Ariel, prima nella reggia ho notato che eri
leggermente
nervoso, come se fossi a disagio! E non dire di no, perché
sai benissimo che è
vero-.
Ariel
fissava qualcosa davanti a lui, cercai di seguire il suo sguardo, ma mi
accorsi
subito che i suoi occhi vedevano qualcosa che non apparteneva
all’oramai
conosciutissimo mondo di Versailles.
Si
schiarì la voce. Aprì la bocca, ma non emise
alcun suono.
Deglutì,
e si leccò le labbra per umidificarle.
Intanto
io lo fissavo, in attesa. Mi pesava il fatto che si tenesse tutto
dentro.
Perché non ci stava bene. Era estremamente palese!
Forse,avevo
vagamente intuito quello che stava accadendo.
-Léandre,
io sono…- e la voce gli morì.
-Sei?
Cosa? Ariel! Mi fai la gentilezza di darmi un segno di vita, s'il
vous plaît?!-
-…homosexual!- proruppe.
Appunto.
Avevo fatto centro. Anzi, era da un po’ che nutrivo tale
ipotesi.
Ergo,
la cosa non mi meravigliò. No. Mi sono spiegato male.
La
cosa non suscitò in me tutta la meraviglia che, in teoria,
dovrebbe provarsi.
Rimasi leggermente sconvolto, ma neanche più di tanto.
Vidi
che Ariel era tornato a fissare quel qualcosa che solo lui riusciva a
vedere.
Una lacrima gli rigava il volto. Una, e poi basta. Mi fece una gran
pena, in
quel momento, a dirla tutta.
Sembrava
invecchiato di cinque anni, ma, per lo meno, ora sembrava un
po’ più sereno, in
pace con se stesso.
“Hai
visto? Non eri, non sei e non sarai mai l’unico!”
esclamò la vocina del mio
ego.
“Taci,
tu!” pensai. E, come uno scemo, sorrisi tra me e me.
-Léandre?-
mi chiamò.
Istintivamente,
mi girai verso di lui.
-Je t’aime! Da molto
tempo…-
Uh.
La solita vocina esultò per me. Mi fu piuttosto facile
ignorarla, anche se non
riuscii a trattenere un lieve sorriso, privo di ogni imbarazzo.
Per
qualche attimo ci fissammo negli occhi.
Poi
lo baciai. Imbarazzati, dopo meno di due secondi ci separammo. Ma poi,
chissà
cosa, mi spinse a prenderlo dalla maglietta, tirarlo verso di me, e
riprendere
da dove avevamo lasciato. Questa volta senza vergogna, consapevoli di
cosa
ognuno provava per l’altro.
Le
mie mani erano sulle sue guance, le sue mani sul mio collo.
Andai
in iperventilazione, ma ignorai anche questo.
Quel
che ora contava era Léandre. Niente di più,
niente di meno. Non vi sembra
giusto?
I
nostri respiri si fecero più rapidi, i nostri polmoni,
frustrati, pretendevano
un po’ di ossigeno.
Leccai
le sue labbra con la punta della lingua, per poi fare pressione.
Lì
fu solo un gioco di frenesia, se vogliamo, ma uno dei più
belli ai quali abbia
partecipato!
Sentii
sulla punta della lingua il suo sapore, le mie narici si ubriacarono
del suo
odore.
Era
una sorta di droga. Il suo richiamo era difficile da ignorare! E il suo
potere
era stupefacente!
Intorno
a me solo ed esclusivamente silenzio, il leggero frusciare delle foglie
al
vento era sparito.
Sentivo
solo il leggero rumore delle nostre mani a contatto, del mio battito
cardiaco e
di quel leggero affanno che ora si stava affievolendo.
Lentamente,
ci allontanammo.
Dopo
chissà quante volte ci eravamo visti, ora intravedevamo la
nostra pura realtà.
Sorridemmo
al sole, sorridemmo alla nostra giovinezza, sorridemmo
per noi!