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Autore: Red_Hot_Holly_Berries    19/03/2010    3 recensioni
-Non ti sei mai chiesto, piccolo ingrato, perché la tua cazzo di Indipendenza lo ha fatto stare così male? Dopotutto tu non sei la prima colonia che si è ribellata contro il suo conquistatore. Ti sei mai chiesto perché Arthur è l’unico a soffrirne ancora dopo duecento fottuti anni?-
No, America non si è mai posto domande. E ora, che lo voglia o meno, avrà delle risposte. Niene è come sembra, e la finzione non è più solo vivere...
Genere: Malinconico, Dark, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: America/Alfred F. Jones, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
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Don’t You Try To Judge Me


Capitolo 1:

La personificazione di una delle più grandi superpotenze, America, non sapeva assolutamente cosa ci facesse davanti a quella lucida porta di mogano, e nemmeno perché la sua mano fosse sul pomello d’ottone.
Sospirò.
Il giorno prima era atterrato all’aeroporto di Parigi con il suo aereo (avendo giurato solennemente che non sarebbe mai salito su un aereo se non come pilota) ed era stato accolto da Francia a braccia aperte e con una proposta oscena sulle labbra.
Fingendosi più ingenuo di quanto già non fosse, America era riuscito ad evitare di ricorrere alla violenza (e di causare un incidente diplomatico) solo con una buona quantità di faccia tosta e ricordandosi di avere un accordo commerciale da discutere.
La sera, a contrattazioni chiuse, erano andati a cena in un ristorante nel centro di Parigi, dove America, stordito dal jet lag, dal cibo buono e abbondante e dalle chiacchiere di Francia, era stato indotto dal francese a bere molto più vino di quanto avrebbe fatto normalmente.
Perciò puntualmente, quella mattina si era svegliato con la testa pesante, un sapore orrendo in bocca e in un letto sconosciuto, fortunatamente da solo, scoprendo poi di essere nella stanza degli ospiti di Francia.
Dopo che questi gli aveva detto che sì, aveva pianificato di farlo ubriacare (aggiungendo che era stata una scena molto divertente) e che no, non si era approfittato di lui (asserendo che non ci sarebbe stato gusto), gli aveva fatto notare che non era nelle condizioni di volare, proponendogli dunque di approfittarne per fare una visita a sorpresa al suo vicino inglese.
Non del tutto in possesso delle sue facoltà mentali, America aveva accettato, ed ora era davanti alla ben conosciuta casa di Inghilterra, con Francia appollaiato su una spalla che lo incitava ad annunciare la loro presenza.
Con un altro sospiro, America suonò il campanello, ma nessuno rispose.
-Forse non è in casa?- suggerì al francese, ma questi sorrise e scosse la testa: -No, ne sono sicuro. Lo conosco bene, fidati di me.- con queste parole assai poco rassicuranti, Francia suonò di nuovo, con più insistenza.
-Francia, senti…- cominciò America, ma l’apertura improvvisa della porta da parte di un irritato inglese lo interruppe.
-Bloody hell, che cazzo vuoi, rana?- ringhiò Inghilterra prima di rendersi conto di chi si trovasse sulla sua soglia.
L’americano, dal canto suo, lo fissava a bocca aperta: quel tizio non poteva essere Inghilterra, no… non il suo rigido, professionale Inghilterra, nonostante quei profondi occhi verdi e quelle sopracciglia cespugliose fugassero ogni dubbio sulla sua identità.
Ma il resto… Invece del solito completo quasi militare che gli aveva visto portare per decenni, era a piedi nudi, indossava un paio di jeans lisi ma robusti, e una camicia a maniche corte grigia e nera, la cui metà superiore era occupata da un intreccio di fiori stilizzati, teschi ghignanti e pugnali.
E poi, diavolo, quegli anellini d’argento che luccicavano al labbro inferiore e al sopracciglio sinistro di Inghilterra erano dei piercing, o lui non era più un eroe!
-Cher Arthùr, come va?- domandò cordiale Francia, chiudendo la porta dietro di sé, avendo spinto avanti lo schokkato America, ridacchiando davanti alla sua reazione. Era ancora meglio di quanto si era immaginato: sembrava un bue stordito da una mazzata in testa.
Anche se non per i motivi che immaginava: i pensieri che in quel momento si susseguivano nella mente di America andavano da “non avrei mai pensato che Inghilterra potesse essere figo” a un più carnale “cazzo, cosa non darei per scoparmelo”.
Inghilterra ringhiò ancora: -Male, come vuoi che vada? Guarda cosa mi avete fatto fare!-
Scostò la mano che teneva a coppa intorno all’orecchio sinistro, mostrando il sangue che gli macchiava tanto le dita quanto il lobo a cui tre orecchini erano agganciati.
-Mon cher, cosa ti sei fatto?- chiese Francia, avvicinandosi per osservare quello scempio.
-Quando avete suonato quel cazzo di campanello mi stavo svestendo, e per la fretta un orecchino mi si è impigliato nel maglione- spiegò, un luccichio sospetto negli occhi mentre l’altro sfiorava la parte lesa.
America, che a quella vista si era riavuto, vide che la pelle intorno al secondo dei tre buchi era lacerata e gonfia, e lanciò un’occhiata all’altro orecchio, sano a parte i quattro piercing che lo ornavano fino al bordo superiore.
Francia sospirò, con aria desolata: -Andiamo di là, mon cher, dobbiamo pulire questo casino-. disse, mettendogli un braccio intorno alla vita e pilotandolo verso una stanza che si rivelò essere la cucina, segno per America che il francese conosceva bene tanto la casa quanto il suo proprietario.
-Cosa ci fate qui? Alla tua abitudine di piombare in casa mia senza avvisare sono abituato, ma lui?- domandò Inghilterra indicando America, prima di scostare una sedia dal tavolo e sedervisi.
-Il nostro cowboy era venuto a trovarmi e ho pensato che fosse un peccato che se ne andasse senza nemmeno farti un saluto.- fu la risposta di Francia mentre prendeva una spugnetta e la bagnava nel lavandino.
Conoscendo il suo pollo, Inghilterra si voltò scettico verso la sua ex-colonia, e mentre si puliva le mani con uno fazzoletto, gli chiese con un sogghigno: -Ti ha fatto ubriacare?-
America mise il broncio.
-Come fai a dirlo? Io sono un eroe, non mi sbronzo mai.- Insomma, non poteva essere così evidente, no?
-Esperienza pluricentenaria, Alfred.- rispose l’altro alla domanda inespressa, lanciando poi un’occhiataccia a Francia, mentre questi tornava da lui.
-Ti giuro che non gli ho fatto niente di male.- lo anticipò il francese, leggendogli nel pensiero. -E ora, preparati- avvisò, prima di cominciare a pulire delicatamente l’orecchio dal sangue.
Inghilterra si irrigidì e strinse i denti. Sì, era un impero plurisecolare, ma hey, le orecchie sono delicate!
-Questo è per essere sempre troppo frettoloso.- lo rimproverò Francia.
-Ma senti chi parla! Perché tu non sei frettoloso, soprattutto quando si tratta di scegliere chi portarti a letto, vero?- ribatté l’altro, disposto a cercare la lite pur di trovare un modo per ignorare il dolore.
-Humpf- sbuffò Francia, senza distogliere gli occhi dal suo lavoro –Non mi pareva che fossi così pronto a giudicarmi quando sceglievo te.-
Peccato che l’unico orecchio che Francia riuscisse a vedere fosse quello sanguinante, in quanto era sicuro che l’inglese avesse le orecchie in fiamme.
-Ancora una parola, rana, e giuro che ti taglio la lingua e te la faccio mangiare.- sibilò Inghilterra voltandosi verso l’altro, ed emettendo un guaito di dolore per aver tirato il lobo ferito, che se non altro aveva smesso di sanguinare.
Le risate di Francia e le imprecazioni di Inghilterra furono interrotte dall’esclamazione a scoppio ritardato di America, della cui esistenza si erano dimenticati entrambi:
-VOI AVETE FATTO COSA!?-
-Siamo andati a letto insieme. E più di una volta, n’est-ce pas, Arthùr?- rispose serafico Francia, passando le braccia intorno al collo di questi e stringendolo contro il suo petto.
Si vedeva lontano un miglio che Inghilterra avrebbe dato qualunque cosa per poterlo negare: ma quelle parole avevano l’orribile sapore della verità, sapore che impastò anche la bocca di America quando lo vide piegare la testa in avanti perché i suoi capelli più spettinati del solito gli nascondessero gli occhi lucidi di vergogna.
-Di cosa ti vergogni, mon petit Arthùr? Non ti ricordavo così timido. Di sicuro non a letto…- lo punzecchiò Francia, che improvvisamente si ritrovò col culo a terra tenendosi lo stomaco colpito da un potente pugno, guardando dal basso verso l’alto un inglese magnifico quanto spaventoso nella sua furia.
-TACI! Abbiamo scopato, è vero, ma non sono tuo! Non lo sono mai stato! Prima di dire simili stronzate, prova a ricordare chi era a fottere chi!- sibilò, aprendo e chiudendo i pugni spasmodicamente, gli occhi verdi offuscati dall’ira fino a renderli quasi neri.
Inghilterra era furioso, furioso e ferito. Anche se aveva sempre saputo che prima o poi America lo avrebbe scoperto, non avrebbe voluto che succedesse così, non in quel momento, non in quel momento.
Perché Arthur amava Alfred.
Lo aveva amato come un figlio, quando lo aveva preso sotto la sua protezione, stanco della solitudine.
Lo aveva amato, e aveva cercato di farlo crescere al riparo di tutto ciò che era brutto e cattivo.
Ma il tempo era passato…
E lo aveva amato come si amano i fantasmi del passato, dopo essere stato abbandonato come una giocattolo rotto nel mezzo di un campo di battaglia sotto la pioggia.
Lo aveva amato, piangendo ad ogni invisibile ferita che infliggeva spietatamente al cuore di America, mentre in quello di Inghilterra scorreva solo un odio totale e assoluto.
E il tempo era passato ancora.
Era così giunto ad amarlo come si ama qualcosa di irraggiungibile.
Lo amava, e volontariamente si teneva lontano da lui, costruendo un muro di accettazione e rifiuto tra loro. Perché lui accettava di amare Alfred, ma rifiutava di entrare nella sua vita, o di farlo entrare nella sua: non voleva nessuno in quel cantuccio di finzione che era il suo rifugio.
Sì, fingere, fingere era l’unica cosa che lo faceva andare avanti; fingere e in realtà sapere di non farlo affatto. E Alfred, Alfred che era solo America, semplicemente avrebbe non potuto capire
Sapeva che il più giovane non aveva mai smesso di cercare la sua approvazione, anche se spesso Alfred stesso non se ne accorgeva, eppure non aveva mai ceduto alla tentazione di svelargli i suoi segreti.
E ora, che lui lo volesse o meno, era riuscito a sbirciare cosa ci fosse dietro quella porta custodita così gelosamente.
-Mi scuso per quel che ho detto, ma non mi scuserò per ciò che abbiamo fatto in passato. Questo non puoi togliermelo.- disse Francia serio, rialzandosi per fronteggiare l’inglese.
L’americano li osservò guardarsi in cagnesco a vicenda, e decise che era dovere di un eroe come lui impedire una zuffa in piena regola (e un’altra guerra secolare, già che c’era).
-Non per cambiare discorso- cominciò, anche se ciò era esattamente il suo scopo –Ma, Inghilterra, hai del sangue sulla camicia. -
I due litigando guardarono stupiti prima lui (si erano dimenticati di nuovo della sua presenza!?) e poi le macchie rosse imbevute nel tessuto sulla spalla sinistra di Inghilterra.
-Acqua fredda.- suggerì Francia, saltando sull’occasione per tornare in termini civili.
-Sì, se la metto a lavare in fretta non dovrebbe lasciare traccia.- fu d’accordo Inghilterra, istintivamente cominciando slacciare i bottoni superiori, prima di rendersi conto di cosa stesse facendo e cercare di rimediare aggiungendo: -Tanto, mi stavo spogliando comunque.-
-E, tra parentesi, hai i pantaloni slacciati.- aggiunse servizievole America.
Gli sguardi delle due nazioni più vecchie raggiunsero il suo fissandosi sui jeans di Inghilterra, il quale doveva ringraziare solo il loro essere stretti di natura per il fatto che non gli fossero ancora scivolati giù dalle anche con i suoi movimenti convulsi, dato che non era chiusa né la zip né il bottone superiore.
L’inglese arrossì come un pomodoro quando si rese conto che non indossando mutande di sorta, era in bella vista tanto l’incavo tra le anche e la parte superiore del pube, quanto la serica peluria bionda che li ricopriva, che si diradava man mano che si allungava sotto la camicia.
-Quando siamo arrivati hai detto qualcosa riguardo allo “spogliarsi”… Esattamente cosa stavi facendo? Non volevamo disturbare…- disse con finta preoccupazione Francia, con un ghigno che andava da un orecchio all’altro mentre Inghilterra si affrettava a ridarsi una parvenza di decenza.
-Stai zitto!- ringhiò questi, ma l’imbarazzo gli strozzava la voce rendendola più simile al miagolio di un gattino arrabbiato.
-Mi stavo per fare una doccia e mi sono rivestito in fretta senza fare caso a cosa mettevo- disse, ma non osò guardare nessuno dei due in faccia, sempre più rosso.
-Hummm… ma siamo sicuri? Vuoi dire che se salgo in camera tua non ci trovo un Gilbert molto arrapato? Questo- indicò l’orecchio ferito –mi pare sia molto simile a ciò che ti aveva lasciato l’ultima volta…- suggerì il francese in torno da cospiratore, cingendo le spalle di Inghilterra con un braccio.
America osservò meglio il suo aspetto complessivo, dai capelli spettinati, al rossore del viso, e d’un tratto la sua mente, per conto suo, tolse all’immagine alcuni bottoni della camicia e aggiunse un’espressione di desiderio in quegli occhi verdi, che li rendeva lucidi di lussuria…
America non poté impedirselo: arrossì, ma grazie al cielo gli altri due erano troppo impegnati per accorgersi di quella madornale gaffe. Un eroe non cade mai preda dell’eccitazione, anche se Inghilterra sembrava capace di svegliare istinti molto poco eroici…
Fu allora che America notò un’altra cosa, ovvero che Francia (nel tentativo di calmare Inghilterra che continuava a imprecargli contro), gli stava massaggiando le spalle, e così facendo aveva involontariamente sollevato il bordo della camicia dell’inglese.
-Cos’e quello, Inghilterra?-
Se America pensava che nulla ormai l’avrebbe più stupito, si sbagliava di grosso.
-Quello cosa?- fu la risposta, mentre riusciva finalmente a togliersi di dosso il francese.
-Quello.- ripeté America, indicando il fiore che spuntava dal bordo dei suoi pantaloni, inciso in inchiostro nero sotto la delicata pelle dell’anca: una rosa dal capo piegato verso il basso, che sebbene non fosse del tutto aperta, aveva già alcuni petali che sembravano sul punto di cadere.
-È un tatuaggio, Alfred.- disse Inghilterra, chiaramente ritenendolo un idiota.
-Non ci posso credere! Hai…- si fermò un attimo per contare –Nove piercing, e anche un tatuaggio! Perché cazzo lo hai fatto?-
Francia rise. –Mon Dieu! Ma sentilo! Che effetto fa essere rimproverati dal proprio figlio, Arthur?-
Ma l’interpellato si limitò a scacciare il commento con un gesto della mano, senza smettere di fissare America sogghignando. -Ad essere precisi, ne ho dodici.-
-Dodici!?-
-Dodici.- confermò l’altro –Solo perché non li vedi non vuol dire che non ci siano.-
Francia lo fissò con aria critica. –Quand’è che ti sei fatto l’ultimo? Io ne ricordo solo undici… È anche quello in un posto che non si può esibire in pubblico? Non so se ti ricordi quale metodo ho dovuto usare per trovarli tutti…-
In tutta risposta Inghilterra gli fece la linguaccia, schernendolo, e mostrando il piercing dalla pallina d’argento che l’attraversava, al che Francia rise, sollevato.
-Bon, trovato l’ultimo. Amérique, ti lascio il piacere di scoprire dove sono gli altri.- disse il francese con un sorriso lascivo, al che Inghilterra procedette e sferrargli un altro pugno, stavolta fortunatamente evitato.
-Ma perché? Va bene i piercing, ti sarai finalmente stufato della tua stessa noiosità, ma un tatuaggio? Perché? Non è da te, Inghilterra!- Stavolta America intendeva ottenere una risposta, e l’avrebbe avuta, Cristo!
-Di nuovo, in realtà i tatuaggi sarebbero tre…- cominciò Francia, pronto a far ripartire la discussione, ma uno sguardo al viso di Inghilterra lo fece zittire.
America si sarebbe aspettato di tutto: che Inghilterra cominciasse a imprecare contro tutti e due, gridando loro di non farsi i cazzi suoi, o che altezzoso se ne andasse, dissociandosi da quella discussione così volgare.
E invece, ciò che America ottenne fu vedere per la prima volta nella sua vita una vera espressione preoccupata sul volto di Francia, mentre questi si chinava per essere allo stesso livello degli occhi (vuoti, vuoti, vuoti) di un Inghilterra che alle ultime parole di America si era accasciato, sconfitto, stanco, senza forze, triste. -Non capisce, non può capire.- gli sussurrò. –Ascoltami Arthur! È troppo giovane per poterlo fare!-
-Non è più un bambino!- ribatté Inghilterra, la voce stanca, stanca, stanca.
-E allora tu smetti di trattarlo come se lo fosse! Svegliati Arthur, non sei suoi padre, non lo sei mai stato, cazzo! Non puoi proteggerlo per sempre! La sai una cosa? Ne ho abbastanza di vederti soffrire al posto suo! È ora che impari a portare il suo, di dolore, dannazione!-
Di nuovo, America non aveva mai visto Francia arrabbiarsi in quel modo… serio. Da come stavano discutendo, intuì non fosse la prima volta che quei due iniziavano quella discussione.
-Tu… l’hai fatto apposta di portarlo qui, oggi! Perché mi vedesse, e io fossi costretto a parlargli!- Inghilterra non urlò, non propriamente, ma il suo tono incredulo ci andò molto vicino.
-E magari mi chiedi anche perché l’ho fatto?- chiese ironico il francese, prima di voltarsi verso il più giovane e sibilare tra i denti: -Non ti sei mai chiesto, piccolo ingrato, perché la tua cazzo di Indipendenza lo ha fatto stare così male? Dopotutto tu non sei la prima colonia che si è ribellata contro il suo conquistatore. Ti sei mai chiesto perché lui è l’unico a soffrirne ancora dopo duecento fottuti anni?-
  
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