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Autore: verde_alchimia    20/03/2010    8 recensioni
Tutti gli uomini del paese si recavano allo stadio, ma non per vedere una partita: i partigiani capeggiati la Lovino Romano Vargas avevano catturato cinque di quegli sporchi cani fascisti che avevano voluto quell’infame guerra che costò al Paese vittime e feriti e lo fece precipitare nell’oblio.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nord Italia/Feliciano Vargas, Sud Italia/Lovino Vargas
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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stadio

Carissimi  lettori e carissime lettrici,
Ho deciso di scrivere quest’ennesima mia One Shot sulla fine della seconda guerra mondiale. Teoricamente, questi fatti sono realmente accaduti. Il mio caro nonnino, che ha vissuto in tempo di guerra, mi ha raccontato una storia commuovente e triste alo stesso tempo. Non ve la racconto o vi rovinerei la sorpresa della fiction.
I personaggi non sono intesi come nazioni, ma come PERSONE.
Detto ciò, vi lascio alla lettura ^.^


The end of War: at the Stadium


Finalmente quell’assurda guerra era terminata.
Il piccolo paese era in festa: le donne ballavano senza fine e cucinavano per i mariti di ritorno dal fronte, i ragazzi giocavano a pallone per le strade libere e suonavano la chitarra, mentre gli uomini si recavano allo stadio, ma non per vedere una partita: i partigiani avevano catturato cinque di quegli sporchi cani fascisti che avevano voluto quell’infame guerra che costò al Paese vittime e feriti e lo fece precipitare nell’oblio.
I cinque uomini erano seduti al contrario su delle sedie logore ordinatamente disposte sulla linea di centrocampo: avevano mani e piedi legati per non fuggire, gli occhi bendati e il torso nudo che lasciava travedere le cicatrici lasciate dalle fruste che li avevano umiliati insieme agli sputi e ai graffi ben visibili sui visi parzialmente coperti. Imprecavano e bestemmiavano, consapevoli di quello che sarebbe capitato loro anche se non ci pensavano più di molto. Pensavano piuttosto a raccomandarsi a Dio e Santi, nella speranza di giungere a quel lontano sogno che era il Paradiso.
Cinque dei partigiani scesero in campo armati di fucili; tra di loro c’era anche il loro “capo”: Lovino Romano Vargas.
Si posizionarono dietro ai cani legati. Improvvisamente questi ultimi iniziarono a gridare aiuto e a piangere, ma tutte le persone dello stadio urlavano loro contro: “Cani bastardi! Sporchi fascisti! Va a piangere da mammà all’Inferno!”.
Ce n’era uno, però, che era stranamente pacato; era il più gracile e probabilmente più giovane di tutti, dai capelli di una singolare sfumatura rossiccia e in ciuffo che puntava ricciolo verso il cielo.
Lovino non mise molto a riconoscerlo: era il suo caro gemello Feliciano Veneziano Vargas, “caposquadra” avversario. Era colpa sua se molti mariti di donne non sarebbero mai tornati a casa ad abbracciare i loro adorati figli, era tutta colpa sua che aveva fatto un’alleanza con quei bastardi razzisti che erano i tedeschi. Lui aveva preferito quella stupida razza invece della sua gente; aveva preferito quello stupido Paese invece della sua vera Madre, l’Italia; aveva preferito quello stupido ariano a suo fratello.
Ovviamente, Romano, non avrebbe mai perdonato tutto ciò anche se l’uomo che stava per uccidere era il suo tenero fratellino.
Si ricordava quando erano bambini, nati nello stesso momento, uguali ma diversi.
Lovino amava studiare, dormire fra le vastissime distese erbose della sua amata terra insieme al  caro cugino Antonio, anche lui ammazzato come molti altri per colpa di suo fratello, amava anche raccogliere pomodori e mangiarne fino a vomitare dal tanto che erano buoni e succosi.
Invece, Feliciano viveva nella capitale a Nord del Paese, amava giocare a calcio, cantare e fare festa ogni santo giorno.
Veneziano faceva festa, Romano lavorava fino allo sfinimento.
Veneziano mangiava pasta e pizza, Lovino spesso non mangiava neppure.
Veneziano era fascista, Lovino partigiano.
Ed ora si trovavano nello stesso posto ancora una volta, come anni e anni fa…
Una voce profonda e forte squarciò il cielo con queste parole: “Quando suonerò questo fischietto, la partita finirà una volta per tutte!”.
D’improvviso il silenzio calò come un leggerissimo velo sullo stadio.
I cinque soldati legati patirono più di chiunque altro quel silenzio, ormai divenuto assordante. Non sapevano quando sarebbero morti, non sapevano se il fischietto avrebbe suonato subito riducendo la loro agonia. Stavano impazzendo.
I partigiani caricarono i fucili e si misero in posizione.
Lovino puntò l’arma dritta alla testa del suo gemello. Non avrebbe mai pensato di arrivare a tanto.
Da piccoli spesso litigavano e lui rispondeva secco: “Se non la smetti, ti riempio di piombo, bastardo!”.
Ora, che stava veramente per succedere, si accorse di quanto potesse essere difficile; va bene che era un fascista, che aveva portato la guerra e che aveva tradito il popolo, ma era pur sempre suo fratello.
Romano doveva farsi coraggio, per il bene della sua terra e del Paese.
Impugnò l’arma con mani tremanti mentre una calda lacrima cominciò a rigargli il volto in attesa di quel dannato fischio. Iniziò a mordersi un labbro per non far uscire i gemiti e i singhiozzi che gli si fermavano in gola creando un enorme nodo che lo stava soffocando.
Perché proprio Feliciano? Cos’aveva fatto di male per andarsene al nord qualche anno fa? Cosa l’aveva spinto ad allearsi con i tedeschi?
Tutte queste domande senza risposta, vagarono nella mente di Lovino, in cui balenavano anche ricordi lontani… Era troppo attaccato al passato, non era come il gemello che pensava al futuro e a tutte quelle stronzate che i fascisti gli avevano probabilmente inculcato in quella testa troppo piccola e bacata la quale sarebbe stata trapassata da un proiettile qualche secondo più in là.
Romano vide di sfuggita l’annunciatore portarsi il fischietto alla bocca.
Le lacrime non volevano fermarsi, così come le mani tremanti e i singhiozzi che uscivano a scatti dalla bocca socchiusa e stranamente sollevata ai lati in un sorriso.
Proprio un secondo prima del fischio, Veneziano si riempì i polmoni d’aria e urlò con tutto sé stesso due piccole parole, tristi, ma felici allo stesso tempo:
“Grazie, fratellone!”
Un fischio.
Cinque spari.
Il sangue dei cani usciva copioso dai loro crani perforati e i corpi privi di vita si accasciarono sulle sedie logore e sporche di quel denso liquido rosso. Quello era l’unica cosa che avevano in comune con i partigiani: il sangue italiano. Anche se il loro non era puro, a causa di tutte quelle schifezze che i superiori e gli ariani gli avevano impiantato nelle vene.
Quando lo stadio si svuotò, i cinque corpi rimasero nel campo sulle sedie: avevano deciso di lasciare i loro resti lì a marcire e a cibare i corvi e i topi.
Lovino rimase fino alla fine, poi si avvicinò al corpicino gracile del fratello e notò con suo grande stupore che sul viso esangue era stampato un sorriso.
Anche lui sorrise, poi tirò via la benda dagli occhi del fratello e slegò mani e piedi per accomodarlo sulla sedia come se fosse addormentato.
Non riuscendo a trattenere una lacrima nel vedere il buco nella testa del cadavere, sussurrò queste due parole con cui tutto finalmente finì:
Prego, fratellino”.


Angolo della scrittrice:
Aww, vedo che ci siete arrivati fino in fondo!
Beh, teoricamente mio nonno era un partigiano , mentre suo fratello era fascista. Quando hanno catturato i fascisti, li hanno portati allo stadio e lui era ad assistere e ha visto morire suo fratello ç.ç
Che crudeltà però… Io ho pianto quando mi ha raccontato!
Spero di non avervi fatto cadere in depressione!
Ringrazio già tutti quelli che recensiranno e tutti quelli che seguiranno la storia!
Alla prossima, carissimi!
*kiss*





   
 
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