Odisseo, o della vita perduta
144. Barca fuori dall'acqua
Non sentiva scorrere il tempo. Tutto era immutabile, e nulla cambiava; ogni giorno sembrava uguale all’altro. Tutto era avvolto in un tepore di morte; la vita non sapeva di nulla. Non sentiva più il fragore del mare, il suo gusto salato che s’attaccava alle vesti, ai capelli, agli ansiti di una nave sospinta dalla tempesta. Dov’era andata la vita? Perché non era riuscito a vederla andare via?
E quei giorni passavano come sogni indistinti, e ben presto dimenticò che suono avessero le onde che si infrangevano contro lo scafo, le nubi che si addensavano all’orizzonte, l’euforia di riuscire finalmente ad avvistare la terraferma. Aveva abbandonato la sua nave tra la sabbia e gli scogli, e in quel tempo immutabile ne aveva perso il ricordo.
La voce dolce di Calipso giungeva a lui remota, ed era un canto che parlava di pace, di sonno e di morte. E soavemente cancellava il ricordo di Penelope, le risate gioiose di Telemaco, e a poco a poco non aveva più un figlio, non aveva una sposa, e i viaggi per mare, le guerre, le lotte, eran solo visioni confuse e indistinte.
Quell’oblio era morte che rendeva immortali.
Ma a un tratto sentì il richiamo del mare. Era un suono indistinto, e parlava di vento, sudore, fatica. Parlava della tela di una sposa devota. Parlava di terre e di orizzonti lontani. Parlava di una nave che attendeva, paziente, di tornare nell’acqua.
Quella voce era vita che lo richiamava, che sussurrava suadente il suo nome.
Odisseo sorrise. Era tempo che tutto ricominciasse a mutare.