Dicono: “rimani entro i confini che
abbiamo disegnato,
e starai bene”.
Live
like we’re alive; Nevertheless
Il
maggiore divertimento di Orihara Izaya è sempre stato quello di osservare gli
esseri umani, così divertenti e attraenti ai suoi occhi.
Non
si è mai negato il piacere di guardarli dall’alto, un po’ come Dio, un po’ come
un bambino capriccioso: dal bordo di un palazzo, che è un posto tutt’altro che
sicuro per guardare in basso di almeno sette metri rispetto a lui, i piedi
penzolanti nel vuoto e dondolati come un ragazzino impaziente di poter vedere
finalmente il suo programma preferito alla tv, quasi non stava nella pelle.
In
attesa di vedere se qualche essere umano lo avrebbe mai stupito al punto tale
da non poterne affatto prevedere le reazioni – spesso destinato a rimanere
deluso, o ad essere crudelmente tratto in inganno da un atteggiamento appena
fuori dall’ordinario che troppo velocemente si scioglieva nella banale
monotonia dell’animo umano.
Interessi
passeggeri, e troppo veloci perché il normale stato di noia potesse trarne
beneficio per un lasso di tempo abbastanza lungo da soddisfarlo.
Per
questo lui vagava per le strade di Ikebukuro di tanto in tanto, e a volte
quando proprio non trovava nulla o voleva andare sul sicuro si faceva sentire,
faceva in modo che Shizuo lo trovasse senza troppe difficoltà – anche se spesso
aveva supposto che non servisse impegnarsi molto: aveva la strana capacità di
sentirlo comunque, come un segugio, Shizzy.
Quando
però di menare le mani non aveva voglia, oppure si sentiva con un animo
particolarmente artistico, Orihara Izaya si dava alla creazione di trame
fittizie in cui far muovere esseri umani osservati, o scoperti, o cercati come
tante divertenti marionette di un teatrino all’inizio un po’ goffo, ma che
tutto sommato qualche soddisfazione al suo creatore la faceva guadagnare sempre
alla fine.
Che
non si pensasse di lui come a qualcuno che si faceva a volte prendere dalla
pigrizia, o che volutamente lasciava accumulare delle novità per poterne poi
trarre maggiore divertimento in seguito, scoprendole tutte insieme.
No,
questo ad Izaya non capitava proprio mai – a volte c’era persino da chiedersi
se fosse umano, se dormisse tanto per dirne una. Certo un po’ strano lo era,
poco ma sicuro.
Ma
ammetteva che spesso usciva, si gettava fra le braccia di oscurità, rumori e
luci artificiali e camminava semplicemente.
Se
ascoltavi, Ikebukuro raccontava sempre qualcosa di interessante che poteva
tornare utile.
Di
gente, Orihara Izaya ne aveva vista passare tanta, a volte sembrava quasi che
ne avesse osservata troppa.
Di
persone, “ne è pieno il mondo” come si suol dire – Izaya col tempo aveva
maturato delle preferenze, un po’ come potrebbe succedere con i gusti del
gelato per esempio.
Aveva
osservato gli impiegati, le prime volte, e ci aveva messo ben poco tempo per
considerarli dei soggetti da deridere: non che ci fosse nulla di male, di base,
in loro. Era solo che li guardava, e si chiedeva se non ci fosse razza più
assurda; loro che giorno dopo giorno ripetevano gli stessi movimenti
nell’uscire di casa, prendere treni e metropolitana, salire in un edificio
anonimo per raggiungere un ufficio traboccante del solito lavoro che non
sopportano.
Lamentarsene
come bambini in fasce, ma non fare nulla per cambiare: era stato allora, quando
si era accorto di quella loro contraddizione, che Izaya aveva riso per la prima
volta osservando un altro essere umano.
Da
quella volta era stato tutto molto simile ad un circolo vizioso mai
interrottosi: dagli impiegati, la fascia di esseri umani che aveva osservato si
era allargata così tanto che alla fine l’intero genere umano era divenuto
soggetto di possibile studio.
Un’abitudine
che non l’aveva mai annoiato, che aveva inspiegabilmente continuato a dare
sempre nuovi spunti e alla fine era diventata quasi un tratto distintivo.
Lui
osservava senza pretese particolari sul luogo da cui lo faceva, ma – la maggior
parte delle volte – senza che altri potessero vedere lui.
Da
un vicolo buio, nascosto dietro un nickname e un monitor, fra i passanti che
ogni giorno si incrociano: prese l’abitudine di fare dell’osservazione lavoro e
diletto in qualsiasi momento della giornata, non importava da dove. Anche se
forse, Izaya aveva sempre avuto una certa predilezione per i posti alti, come i
cornicioni dei palazzi un po’ malconci e spesso abbandonati.
Come
era stato per quella ragazza sciocca, Magenta-san: che ragazza priva di
attrattive, così monotona e prevedibile!
Ogni
volta che ci ripensava, a Izaya veniva l’impulso irrefrenabile di tornare su un
posto alto – non importava dove, quello che cercava non era un tentativo di
riassemblare dei ricordi nostalgici alla stregua di un puzzle. Quello che
cercava di ricreare era sempre quella bizzarra sensazione di euforia, di
leggerezza mentre camminava ad un passo dal vuoto, o si sporgeva sul margine;
o, ancora, quell’adrenalina mentre guardava giù, e sapeva che poi in fondo
sarebbe bastato un passo che non avrebbe mai fatto, perché a lui la vita tutto
sommato non dispiaceva affatto, anzi: lo divertiva eccome.
Oh,
e ovviamente quando tornava in posti alti e si ricordava di Magenta-san, rideva
così tanto che a volte finiva per tenersi lo stomaco e far quasi lacrimare gli
occhi.
Perché
per lui in fondo era qualcosa di simile ad un gioco, un intrattenimento –
perché Izaya forse non si credeva Dio, ma nemmeno un essere umano.
Di
persone al vaglio, Orihara Izaya ne aveva passate tante, spesso ad insaputa dei
diretti interessati ovviamente.
Quanti
lo avevano interessato più del tempo necessario a ridicolizzarli un po’?
Pochi.
Ma
non l’aveva presa come un’offesa personale, eh.
L’aveva
capito fin da subito che gli esseri umani si suddividevano fondamentalmente in
tre categorie: quelli che arrivavano, passavano e se andavano, come la maggior
parte di quelli che incrociava, come Magenta-san.
Quelli
che lo interessavano e, miracolosamente, non lo avevano ancora stancato; come
quel Mikado-kun, per esempio.
Ed
infine, c’erano quelli che – ma erano anche meno della categoria che reputava
“interessante” – aveva osservato, e poi lasciato stare perché annoiato. Ma che
per un gesto inaspettato, una parola o chissà cos’altro, avevano nuovamente
destato il suo interesse in qualche modo.
E
non era una cosa da poco, perché di Orihara Izaya si potevano dire molte cose –
e sicuramente una di quelle più quotate era che fosse innegabilmente animato da
una follia pura, un’intelligenza distorta – ma non che fosse un tipo
nostalgico.
Perciò,
per rientrare nella cerchia piuttosto ristretta di persone che hanno ridestato
la sua curiosità, Kida Masaomi doveva davvero essersi impegnato, in qualche
modo.
Lo
aveva già notato tempo prima a dir la verità: che Kida-kun aveva una mente
molto più semplice di quanto lui stesso non credesse; tra lui e quel ragazzo
c’era qualcosa che non era proprio un legame, ma che in qualche modo li
collegava probabilmente, perché un conto era incrociarsi per caso per le vie di
Ikebukuro, un altro era incrociarsi perché ci si ritrovava immischiati nella
stessa faccenda.
Forse
era stato proprio per i diversi incontri “casuali” che c’erano stati che Izaya
lo aveva osservato più di altri, con una certa iniziale soddisfazione nel
constatare di averlo inquadrato senza grossi intoppi.
Perciò
non era stata una grossa fatica capire cosa ci fosse nella sua testa quando lo
aveva intravisto dall’altra parte della strada: da dove veniva lui, Izaya lo
vedeva di profilo, ma era bastato; fra sé e sé aveva supposto che fosse uno di
quei casi in cui si poteva dire che “il corpo aveva parlato da solo”:
L’aveva
divertito vedere quel ragazzino serio come solo alla sua età si poteva essere
su certe cose, quando ancora si tendeva a pensare che l’occasione di cambiare
il mondo fosse semplicemente nelle proprie mani ogni giorno, a propria completa
disposizione.
E
lo si pensava non peccando di egocentrismo, quanto di un’ingenuità quasi
imbarazzante.
Vederlo
in piedi perso a pensare chissà che – un’idea se l’era fatta, ma se la sarebbe
tenuta per lui ancora un po’, giusto il tempo di vedere come andava a finire –
a fissare davanti a sé.
E
a quel punto nel campo visivo di Izaya, lì da dove era con le mani in tasca a
camminare senza dare nell’occhio, era rientrato un gruppo anonimo, una di
quelle gang nate per gioco e che dicevano più volte di essere dei Dollars che
una qualsiasi particella ricorrente in una frase semplice e di uso comune.
E
lo aveva visto, Kida Masaomi che alzava il braccio davanti al viso, il pollice
verso l’alto e l’indice che puntava il bersaglio davanti a sé, come in un gioco
da bambini; si era avvicinato solo di qualche passo, ma era stato abbastanza
per vederlo sillabare un “bang”, mentre la mano mimava lo sparo di un colpo e
la fontana lanciava alti schizzi come allo scattare di ogni ora, quasi volesse
assecondare quel gioco di spari che non si sentivano e non ferivano.
Si
era poggiato al muro, scivolando nel vicolo vicino al quale si trovava e
portando una mano alla fronte, le dita appena insinuate fra i capelli scuri; e
si era lasciato andare ad una risata divertita, trattenuta nemmeno lui sapeva
come e perché – non era tipo da curarsi dell’opinione altrui, ma probabilmente
era dovuto al fatto che se non voleva essere trovato o notato, Izaya reputava
seccante che altri facessero attenzione a lui.
E quello?, era stato il pensiero che gli aveva attraversato la
mente, districandosi dal resto di quelli che poi, stranamente, si erano
annullati completamente in quella risata trattenuta – quando rideva, aveva
notato, una persona si ritrovava con la mente del tutto sgombra da qualsiasi
pensiero, quasi fossero stati cancellati in massa e, semplicemente, rideva in
maniera fine a se stessa.
Cosa
significava quel gesto? Kida Masaomi aveva una faccia così seria e determinata
da essere incredibilmente buffa, guardandola a lungo persino ridicola.
Oh,
l’aveva riconosciuto! Lo sguardo di chi ha deciso di cambiare almeno un po’ il
mondo che conosce, e di farlo per il bene di qualcun altro – chissà, forse il
“qualcun altro” di Kida Masaomi era quel Mikado-kun?
Che
pensiero fastidiosamente ingenuo.
Aveva
storto il naso, l’ombra di un sorrisetto un po’ strafottente, un po’ seccato da
qualcosa di non meglio definito.
Non
amava gli eroi, Orihara Izaya, forse poteva addirittura affermare di trovarli
irritanti quanto la feccia senza nome che girava nella parte più oscura di
Ikebukuro senza nemmeno rendersi conto di cosa questo comportasse.
Ma
forse – aveva soppesato osservando il ragazzino riavviarsi per la sua strada –
poteva anche rivelarsi divertente con lui.
E,
qualora fosse diventato noioso, avrebbe sempre potuto movimentare la cosa per
divertirsi un po’ – chissà che faccia poteva fare Kida-kun sapendo del suo
amico messo in mezzo a qualcosa in cui non si sarebbe dovuto trovare.
«Mpf. Omoshiroi, Masaomi-kun.» bisbigliò a se stesso,
riavviandosi lungo la strada principale.
Magari sarebbe rimasto ad osservare ancora per un
altro po’, sì.
Due parole dall’autrice
In
primis, “omoshiroi” è “interessante” in giapponese.
Poi:
i personaggi di Durarara!! Ovviamente non sono miei, ma dei rispettivi autori;
la frase in apertura è una parte di testo della canzone “Live like we’re alive” dei Nevertheless.
Ed
ora, due parole che esulano dai disclaimer: perché questa fan fiction doveva
essere (nel mio progetto iniziale) un’introspezione di Kida, Izaya solo una
comparsa e invece sembra una threesome platonica IzayaKidaMikado e l’introspezione
alla fine è solo di Izaya e Kida è diventato la comparsa? T_T
*sospira*
bah. Ad ogni modo spero sia stata di vostro gradimento, non è escluso che
rimetterò mano a Drrr!! Di nuovo <3