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Autore: E x p r e s s i o n    13/04/2010    3 recensioni
Quando le emozioni e i sentimenti si traducono in colori, quando non esiste il mondo e ti ritrovi intimamente connesso con te stesso: allora chiudi gli occhi, assaggia l'arte e rimani completamente rapito da essa. Inuyasha, l'esplosione dei toni caldi. Sesshomaru, l'algido possessore delle tinte fredde. Cosa succede quando una persona, per caso, si ritrova a dover far parte del mondo bizzarro di due artisti? Siete disposti a scoprirlo? Intrecci di vita, aspirazioni, sogni; vissuti tramite una condivisione forzata, e perché no, forse ''destinata'' a divenire... semplicemente altro.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Inuyasha, Kagome, Rin, Sesshoumaru
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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C o l o r e   s u   t e l a

 

Prologo

 

L'arte non è lo studio della realtà positiva, ma la ricerca della verità ideale. 
(George Sand)

 

 

Fissavo l’intercapedine di quel muro da circa dieci minuti ormai, tanto che mi era parso che lo spazio vuoto avesse cominciato a prendere vita tutt’un tratto.  Era un’attesa snervante, più tentavo di non pensare alla mia vescica che sarebbe scoppiata di lì a poco, più questa premeva contro il bacino ricordandomi il richiamo della natura che non avrebbe atteso ancora per molto prima di manifestarsi proprio là, davanti al bagno.

Trattenni il respiro per circa quindici secondi, contando una dopo l’altra le piastrelle scure che si incrociavano, a bordi rossi e gialli, attorno alla porta.  “Hai intenzione di trasferirti là dentro a vita?” sbottai ironico, cercando di non ostentare troppo la natura poco gentile che mi apparteneva. Dopo pochi secondi, il clack della chiave nella toppa, mi avvisò che finalmente era giunto il mio turno.  Ci ritrovammo l’uno dinanzi all’altro, mentre io fui prontamente congedato da un’occhiata indifferente da parte di mio fratello.  Avrei avuto voglia di sollevare il braccio per malmenarlo in mezzo al corridoio, se l’etichetta al quale ero stato sottoposto non mi avesse intimato di contare almeno sino a cento prima di scatenare una rissa.

“Ha concluso di rifarsi il make-up, signorina?” nessuno mi aveva mai detto di non poter rispondere con l’arma più tagliente del quale ero stato fortuitamente dotato, il sarcasmo.

Non costringermi a ricorrere a metodi drastici” ricevetti in tutta risposta, mentre contemplai il braccio di Sesshomaru piegarsi di quarantacinque grandi per far fuoriuscire dalla punta delle dita gli aguzzi artigli dei quali era dotato.  Non mi intimidisci” ribattei semplicemente, prima di conquistarmi il trono nella toilette e chiudere a doppia mandata la porta.  Giornalmente, chissà poi per quale motivo, s’inscenava quel delizioso quanto pittoresco dipinto di cospirazione tra me e lui.  Non eravamo decisamente nati  per condividere lo stesso sangue, né lo stesso tetto, né la stessa città probabilmente. Raddrizzai la schiena, poggiandomi per qualche istante sulla superficie della porta per respirare e chiedermi per quale assurdo complotto mi ritrovavo a dover dividere la casa con quel losco figuro. Era una domanda che mi ponevo ogni santo giorno purtroppo, della quale non avevo mai trovato risposta.

Sentii i suoi passi allontanarsi col tono cadenzato e composto che gli apparteneva.  Era sempre stato una pennellata totalmente atona su di me quell’uomo. Eravamo due artefatti della stessa identica materia, plasmati con materiali e colori differenti. Il mio mondo era pregno di tonalità differenti, che s’addicevano più o meno al mio carattere,  non propriamente rispettoso delle regole,  ma perlomeno intonato allo stile di vita che mi ero sempre proposto. Lui era il mio contrario, un’antitesi perfetta e ribaltata del mio spirito. Opaco, tetro, freddo e distante dal mondo, quasi che con un dito potesse sfiorare il cielo stesso.  Inarcai le sopracciglia con disappunto, mentre mi dedicavo al mio … ristoro temporaneo. Pensare a Sesshomaru in situazioni come quelle era capace perlomeno di stimolarmi la diuresi.  Osservai le piastrelle del bagno, di un sottotono inquietante: un nero tetro mescolato a bianco, che non spiccava particolarmente per eccessi. Tutta la conformazione della stanza era inquadrata su qualcosa che definivo: ben poco interessante. Chi altri avrebbe potuto accostare colori così smorti se non mio fratello? Era buffo, perché quella casa era una sorta di tempio barocco dell’arte. Divisa a metà tra stile e colore; tanto che passavi da una stanza all’altra avendo l’impressione di trovarti in una galleria di quadri piuttosto che in un appartamento comune.

Lui ed io, artisti. Semplicemente questo. Avevamo una concezione dell’ espressione dell’emotività e del sentimento leggermente folle. Una volta, da bambini, decidemmo di sfidarci nel ridipingere la villa dei nonni, con l’unico risultato che venne a metà. Ogni cosa, a partire dalle tazzine del caffè, e genuinamente spaccata tra la mia concezione e la sua. Freddo e caldo. Alzai le labbra in una sorta di sorrisetto soddisfatto, non appena conclusi la fantastica opera d’arte che avevo deciso di comporre proprio sopra la tavoletta del w.c.  del mio stimatissimo coinquilino. Una gigantesca ed imperiosa montagna di carta igenica si addensava scomposta al di sopra del mero oggetto, rigorosamente disposta in origami armoniosi che formavano la parola : perdente.

Mi divertivo spesso a fargli trovare scherzetti del genere disseminati per casa; l’arte in fondo, era o non era espressione dell’estro in ogni sua forma? Uscii compiaciuto del mio operato, applaudendo a me stesso interiormente per richiudere infine la porta alle mie spalle.

Raggiunsi la cucina, dove regnavo io stavolta.  Le mura tappezzate d’un arancio vivo, che a contatto con le linee oblique di luce che toccavano i punti giusti degli archi rampanti in alto, creavano giochi di media e piccola forma sul tavolo disposto al centro, dove per l’appunto, il mio consanguineo era impegnato a leggere il giornale del mattino sorseggiando beatamente la solita tazza di caffè nero.

“Ah-ah. Ti ho lasciato un regalino in bagno” formulai smargiasso,  piegando le braccia sui fianchi per poi disegnare un sorriso che la diceva lunga. “Anche io” formulò, allungando un braccio verso la zona in cui erano piazzati i fornelli, per mostrarmi la lunga chiazza nera che ricopriva il muro, poco sopra le piastre.

Strabuzzai gli occhi nel denotare che la mia creatura era stata orribilmente deformata da una gigantesca macchia di caffè. “Bastardo! Sai benissimo che il caffè su di una parete così chiara non andrà mai via. Giochi sporco Sesshomaru!” . Il blasonato fittizio si limitò a ritrarre il braccio, senza alzare nemmeno lo sguardo dalla pagina della cronaca sportiva del giorno. Lo fulminai con lo sguardo per capitollarmi vicino alla parte sfregiata per tentare di eliminare la macchia. “Ah! Ah! Ahhh!” sgranai le palpebre nell’accorgermi che il mio tentativo di pulizia aveva solo peggiorato la situazione, trasformando il mio capolavoro in una schifezza sovrumana. Avrei dovuto riverniciare la stanza da capo, ed erano già cinque, le volte in cui avevo dovuto rimettermi all’opera. “Ti rendi conto di cos’hai fatto?” latrai sopra la spalla,  mostrando i canini aguzzi messi ben in risalto lungo il labbro inferiore.

“Ho espiato il mondo da una bruttura” rispose lui, concendendomi per grazia un suo sguardo, dietro il bordo di porcellana della tazza dalla quale in quel momento sorseggiava il caffè con tranquillità.

“Ti espio dalla faccia della terra!” ero pronto a ricorrere alle mani. Se qualcuno osava sfiorare le mie creazioni, il bon ton poteva anche andare a farsi benedire. Mossi un passo col chiaro intento di mettergli le mani alla gola, e stavo per riuscirci, se quello stramaledettissimo campanello non avesse deciso di suonare proprio nell’esatto istante in cui lo avevo impugno.

“Arrivo, arrivo” afferrai un canovaccio per asciugare le mani dall’acqua, strofinandole con così tanta forza da procurarmi qualche graffio sui palmi, a causa degli artigli.

Aprii la porta, senza ritrovarmi nessuno di fronte. “Che scherzi idioti” formulai gutturalmente, prima che una mano, dal basso, non si premurasse di tirarmi un lembo della maglia per annunciare la sua presenza. Abbassai lo sguardo, per ritrovarmi di fronte a quella che somigliava poco di più che ad una bambina. Inarcai un sopracciglio, chiedendomi cosa ci facesse davanti a casa mia una mocciosa.

“Tu sei?”

“Rin, piacere…” mi lanciò un’occhiataccia fulminante, probabilmente per negare qualcosa “Sono Rin Edogawa, non sono una bambina, e da oggi vivrò qui”.

  
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