New York City, A.D.
2163
La Metrò Aerea è
puntuale come sempre. Il mezzo si ferma con eleganza davanti a noi, e dalle porte
automatiche scendono passeggeri di ogni razza: umani, alieni purosangue e dal
passo nobile e cadenzato, mutanti che dopo tanto tempo sono riusciti a ottenere
pieni diritti... e perché no, anche un po’ di rispetto. Dopo la sua apertura al
resto dell’universo, la Terra ha imparato a convivere con esseri diversi dal
comune bipede dalla pelle liscia senza scaglie o artigli, apparentemente inerme
eppure capace di tenere per molti secoli il globo sotto il proprio giogo.
E di
sfruttare al massimo l’opportunità di una qualche alleanza con razze di altri
pianeti.
Mentre
mi accingo a salire sulla Metrò, un piccoletto infagottato in un cappotto
cencioso mi spinge di lato, stringendo al petto qualcosa come fosse un tesoro
prezioso: un boccone faticosamente guadagnato per sé e per la sua famiglia, un
portafoglio derubato a qualche riccone, o magari un ricordo di una persona
cara. Mentre fugge, riesco a distinguere
la pelle bianco latte, troppo chiara per essere quella di un semplice
umano.
“Aspetta!”
vorrei gridare, ma la folla dietro di me spinge e protesta per l’improvvisa
interruzione della fila, mentre la Metrò emette un fischio come a voler
esortare i passeggeri a darsi una mossa. Tra le persone che attendono di salire
vedo un paio di giovanotti rissosi, ubriachi quasi di certo; dallo sguardo che
incrocio direi che avrebbero voglia di darmi una lezione, magari per aver fatto
rischiar loro di perdere la Metrò, ma un particolare di me li fa desistere dal
primo proposito: il giubbotto che porto, con tanto di gradi sulle spalle e sul
petto, a sinistra. La divisa che mi qualifica come ufficiale dell’Aviazione
Septoniana.
E come
reduce.
Una volta
dentro, cedo il posto ad un’anziana umana che barcolla vistosamente per via di
alcuni pacchi stracolmi e l’aiuto educatamente a posarli a terra. Lei mi
ringrazia, riconoscente, e io le rispondo con un timido sorriso, aggrappandomi
ad una maniglia.
“Oh...
ma lei è un soldato!...” cinguetta benevola la vecchietta, riconoscendo la
divisa “Da dove viene?”. Non le rispondo, un groppo mi serra la gola
impedendomi di parlare. In questo momento vorrei scendere e sparire tra la
folla, ma le porte della Metrò si stanno chiudendo e non potrei uscire se non
sfondandole; perciò mi limito a fissare la sbarra di metallo sopra di me,
rimirandone assorto i riflessi.
“Lei
non è un tipo molto loquace, giovanotto...” commenta l’anziana umana, e a quel
punto mi scappa una risata roca dalla bocca: non sa che, con ogni probabilità,
ho più dei suoi anni, anche se non li dimostro. Mi sistemo la sacca sulle
spalle e giocherello con la maniglia appesa che mi impedisce di cadere al
seguito di una fermata particolarmente brusca. Grazie al cielo la mia compagna
di viaggio ha deciso di scendere proprio qui: si carica di pacchi e buste,
rifiutando questa volta il mio aiuto, ma prima di allontanarsi mi prende una
mano, stringendola appena e guardandomi negli occhi, senza che io possa impedirlo.
“Buona fortuna, caro” mi dice, caracollando via con quella buffa andatura che,
inizialmente, mi aveva strappato un sorriso.
Stringo
convulsamente le dita a pugno, così forte che se avessi le unghie me le
conficcherei nella pelle. Di colpo, tutto quello che mi circonda perde di
significato; la folla intorno a me e il ronzio appena percettibile della Metrò
mi avvolgono ma io non ne sono più consapevole. Mi lascio andare sul sedile,
tenendomi il viso tra le mani tutt’a un tratto gelide, il buio nei miei occhi
prima nero che torna rosso, come tante volte nei miei sogni. L’odore dei
fumogeni ancora vivo in me, il rumore degli spari e il colore del sangue vivido
e denso...
“Sveglia,
amico. Diamine, non si riconoscono più i vecchi commilitoni?”.
Il buio
e il senso di vuoto scompaiono, mentre una stretta affettuosa sulla spalla mi
riporta alla realtà. Apro gli occhi, finendo per farmi accecare dai neon della
Metrò. Sono steso scompostamente a terra e non ho idea di come ci sono finito.
Tutt’intorno a me, visi a tratti curiosi e preoccupati, a me ignoti.
Tranne
uno.
Riconoscerei
ovunque quella barbetta sottile, così ben curata, e quegli occhi scuri.
“Robert”
saluto, quasi apatico, schermandomi dalla luce con una mano.
“Don” è
la risposta. A sentire quel nome ringhio di rabbia e sferro un colpo secco alla
mano del mio ex commilitone, scostandola dal mio viso. I presenti sussultano,
un bambino scoppia improvvisamente a piangere, mentre la madre si affretta a
calmarlo, fissandomi con timore.
Ignorando
tutti mi dirigo verso l’uscita, mentre un altro umano corre verso di me. “Si
sente bene, signore? L’abbiamo vista perdere i sensi, sì è accasciato sul
sedile, lì...”
“Tutto
sotto controllo” replico senza nemmeno guardarlo, saltando giù su una delle
tante piattaforme sospese che circondano Manhattan e che permettono a tutti di
accedere ai piani più alti, dove si è quasi formata una seconda città. Sotto di
me centinaia di auto sfrecciano sulle strade asfaltate, molte altre solcano i
cieli a un passo dalla piattaforma.
Muovo
qualche passo, barcollante, ma un violento capogiro mi prende alla sprovvista e
mi sento improvvisamente svuotato, privo di forze; una stretta forte mi prende
per le spalle, sostenendomi.
“Calmo”
dice piano Robert
“E tu
non chiamarmi con quel nome...” replico stancamente “Mai più”. Il mio ex
commilitone preferisce non replicare, ma allo stesso tempo sembra non volermi
lasciare solo.
“Vieni,
amico. Se non sbaglio, tua moglie non abita da queste parti”.
Allungo
una mano a toccare la parete divisoria nera che separa me e Robert dal
tassista. Il nostro spazio è stato insonorizzato, come richiesto. “Togliti
questo coso” comincia Robert afferrando il mio berretto e tirandolo via,
rivelando la mia corta capigliatura scura, dai riflessi bluastri; glielo lascio
fare, i postumi dello svenimento si fanno ancora sentire e mi costringono ad
abbandonarmi contro il sedile. “Fu sarà anche mia moglie” esalo “Ma io non sono
suo marito”
“Sei
andato di matto, tenente? Allora cos’è l’anello che porti al dito?” domanda
lui, indicando la fede di oro bianco che scintilla sull’indice della mia mano
sinistra, alla maniera dei dogeniani. “È qualcosa di puramente simbolico”
replico, amaro “Io non ci sono stato per quasi quindici anni; ho lasciato Fu
dopo appena due mesi di matrimonio, incinta di nostra figlia, e da allora non
le ho più viste. Ti sembra che abbia rispettato i miei doveri di marito e
padre, Benson?”
“L’unica
cosa che so è che, se avessi potuto, ti saresti risparmiato tutto questo”.
Scoppio
a ridere; è una risata liberatoria, molto diversa da quella esalata nella
Metrò, non più roca ma comunque amara. “Ho scelto io di partire, di stare
lontano dalla donna che amavo e dalla nostra bambina ancora non nata! Ti rendi
conto che non mi ha mai visto nemmeno in faccia? Che cosa sono io per lei, ora?
Nient’altro che un’idea confusa e sbiadita, un ricordo costruito sui racconti
di sua madre e su qualche fotografia. Non c’ero quando è venuta al mondo,
quando ha imparato a camminare e nemmeno quando ha pronunciato la sua prima
parola!”. Prendo a gridare prima che me ne renda conto, le parole che mi escono
dalla bocca a fiotti, parole cariche di malinconia, rabbia e rimorso, le parole
di un soldato le cui certezze sono andate in frantumi e che teme di
confrontarsi con la realtà.
Robert
ascolta pazientemente il mio sfogo, senza che un solo suono esca dalle sue
labbra circondate dalla sottile peluria castana. Solo alla fine, quando mi vede
ansimare sotto il peso delle mie stesse parole, si azzarda a posare una mano
sul mio braccio. “I sensi di colpa ti fanno sentire meglio, tenente?. Se ho
capito qualcosa di te, in questi sette anni trascorsi a combattere insieme, è
che tieni molto più agli altri che a te stesso. Avresti potuto tenere tua
moglie con te, come hanno fatto innumerevoli nostri commilitoni, e lasciare che
tua figlia crescesse in mezzo alla guerra. Non l’hai fatto; hai sacrificato la
tua felicità in cambio della salvezza della tua famiglia. Eri un soldato, non
potevi fare altro”
“È
stata questa infatti la mia colpa più grande” replico, poco convinto della
prospettiva messami davanti dal mio ex compagno d’armi “Arruolarmi. Non dare
ascolto a mio fratello. Andare incontro a ideali vani e ridicoli”
“Ti
sembra così ridicolo cercare di salvare il tuo pianeta natale sull’orlo della
distruzione?”.
Non ho
la più la forza di urlare, ma quella di ribattere sì. “Allora spiegami tu a
cosa sono serviti quasi venti anni di lotte: a liberare Dogen dalla tirannia?
Te lo dico, invece: morti. Sangue e morti. È questa la guerra, Benson; né
vincitori né vinti, da nessuna delle due parti. Solo vittime innocenti”.
Eccole,
le immagini che mi spuntano nella mente a tradimento. Il cielo bruno rossastro
per colpa delle bombe fumogene lanciate per aria, lo scintillio delle armi alla
luce delle stelle quasi del tutto opache, e il sangue, il sangue che cola
ovunque, che si raccoglie in grandi pozze per terra, dai cumuli di cadaveri che
ingombrano il campo...
Sbatto
gli occhi per cercare di liberarmi, ancora una volta, da tutto questo. “Fu non ha sposato un soldato, ma un
assassino” mormoro, ma Robert mi sente benissimo. “Piantala con questa lagna,
signor tenente”
“E tu
piantala di sbattermi in faccia i miei gradi e il mio ruolo”
“Come
vuoi che ti chiami? Non conosco il tuo nome, se non quello di battaglia”.
Già.
Nemmeno io sarei in grado di dire i nomi di tutti i soldati, superiori e
sottoposti, con cui ho avuto a che fare in questi anni: nell’Aviazione e
nell’Esercito Septoniano i nomi di battaglia si sostituiscono quasi subito a
quelli veri. Per me è stata la stessa cosa: per tutti lì, anche per i civili,
non ero Milo Laymana, ma Don. Semplicemente Don. Questo il nome che gridavano
quando guidavo un’imboscata, quando gettavo le bombe su un deposito armi nemico
e riconoscevano le insegne della mia navetta, questo il nome che alcune delle
mie vittime pronunciavano prima di morire, quando non avevo il casco e potevano
identificarmi.
“Se
magari ti degnassi di dirmelo...”.
Mi
riscuoto, a sentire le parole di Benson. “Tempo scaduto, capitano. Scendo qui”
replico, quando il taxi si ferma all’indirizzo da me richiesto. Afferro il mio
borsone e apro la portiera di scatto, respirando come se fino a quel momento
fossi rimasto in apnea. “Ehi, campione, prima di andartene devi pagare!” sbotta
seccato il tassista, vedendo che mi sto allontanando. Sbuffo, tornando
indietro, ma Robert mi anticipa, tendendo una manciata di dollari a chi di
dovere. “Offre la casa” mi dice con un sorriso amichevole “E fatti sentire, o
ti verrò personalmente a cercare”. Lo guardo, dubbioso. “Sicuro di volermi rivedere?”
“Come
no!” è la risposta, prima che la portiera si richiuda e il taxi sfrecci via,
alla ricerca di altri clienti.
Nonostante
sia radicato in me il proposito di dimenticare al più presto ciò che è successo
su Dogen negli ultimi venti anni, mi sarà difficile fare lo stesso con il
ricordo del capitano Robert Benson.
155th
Street, n. 24. L’indirizzo è questo, ne sono sicuro. Io e Fu comprammo
l’appartamento al quinto piano poco prima del nostro matrimonio, e ricordo in
modo particolare che non le piaceva il colore della tappezzeria lasciato dai
precedenti coinquilini; così mi ero dovuto improvvisare imbianchino e
ridipingere con cura tutte le stanze, tranne il bagno dove c’erano le
mattonelle azzurre di maiolica. Mi scappa un sorriso nostalgico, e non mi curo
di alcuni passanti che mi vedono imbambolato in mezzo alla strada, con un
borsone stracolmo in precario equilibrio sulla spalla.
Mi
passo una mano sul viso, prima di dirigermi verso i videocitofoni. Rimango di
stucco, notando che i nomi di molti appartamenti sono cambiati, lasciando il
posto a titoli che indicano gli studi di avvocati e medici. Passo a uno dei due
appartamenti del quinto piano, ma con mio grande stupore il mio cognome non
appare più sulla targhetta. Chiudo gli occhi un attimo per poi riaprirli, come
se temessi un brutto sogno, che però è realtà: nemmeno sull’altro c’è scritto
“Laymana”.
Non è
possibile...che abbiano traslocato? No, non ci credo, Fu me lo avrebbe detto in
una delle poche missive che ho ricevuto da lei nell’ultimo anno; ma non sempre
la corrispondenza era attiva, lì su Dogen, e ben funzionante, né tantomeno i
computer e i videotelefoni.
Mi
guardo intorno, improvvisamente sperduto. L’ipotesi peggiore, che possa essere
successo qualcosa di grave, mi attraversa la mente per un attimo prima che la
ragione mi imponga di calmarmi. È inutile pensare a catastrofi, magari Fu e
nostra figlia si sono trasferite e il loro messaggio non è arrivato.
“Chi
cerca?”.
Una
voce giovanile proveniente dalla mia destra mi fa sobbalzare. Mi volto,
incontrando un viso blu poco più chiaro del mio e un paio di occhi verdi. “Lì
ci sono solo dottori e avvocati; se non cerca uno di quelli, perde il suo
tempo” continua il ragazzo, togliendosi il cappello e grattandosi la nuca; ha
una fascia argentata che gli tiene a bada due folti ciuffi di capelli scuri. In
lui riconosco qualcosa di familiare, ma non riesco a spiegarmi cosa, fino a
quando lo sguardo non mi cade su una piccola voglia bianca a forma di stella
che il giovane ha sulla guancia. Allora la memoria mi riporta alla mente un
ricordo nitido e preciso: un piccolo dogeniano sui tre anni, che scalcia
allegramente in braccio a suo padre facendolo ridere. So bene chi è
quest’ultimo: Neo, mio fratello maggiore.
“Miles?”
chiamo, riconoscendo in questo diciassettenne il mio secondo nipote. Vedendo il
suo sguardo, capisco che ho indovinato. “Ci conosciamo?” domanda lui,
squadrandomi da capo a piedi; difficile che si ricordi di me, era troppo
piccolo quando sono partito; senza tener conto del fatto che ho i capelli molto
più corti e sono dimagrito.
“Be’,
io sì” rispondo “Anche se mi arrivavi alla gamba l’ultima volta che ti ho
visto”. Miles mi guarda più attentamente, avvicinandosi e toccandomi la divisa.
Prima di fare tanto d’occhi. “Zio?” esclama “Accidenti, sei...sei...”. Prima di
terminare la frase mi salta al collo, e tra lui e il borsone stracolmo finisco
per rovinare a terra. Sarà anche cresciuto, ma è ancora il piccolo terremoto
che ricordavo.
Riesco
a scrollarmelo di dosso prima che mi strangoli con il suo abbraccio, ma sono
felice di vederlo. Miles mi sorride. “Ti ho riconosciuto dalla giubba; ricordo
che, quando me l’avevi fatta vedere, mi era piaciuta talmente tanto che volevo
provarla a tutti i costi”. Annuisco. Sì, ricordo anch’io di aver posato la
giacca sulle spalle del mio nipotino, che aveva iniziato a correre per casa con
le maniche troppo lunghe che strisciavano per terra e sua madre, Ellie, che lo
seguiva temendo che potesse farsi l’ennesimo bernoccolo.
Ellie...la
moglie di mio fratello è venuta a mancare due anni dopo la mia partenza da New
York. Da quel momento Neo si è rimboccato le maniche, crescendo da solo i suoi
due ragazzi e mandando avanti la casa.
Miles
si annoda meglio la fascia dietro la nuca, invitandomi con gli occhi a seguirlo.
“Ci siamo trasferiti in questa strada quando la mamma se n’è andata” spiega
tristemente, guidandomi lungo la via fino a quando non ci fermiamo a uno dei
tanti portoni. Lo apre, servendosi della sua chiave elettronica, e mi invita ad
entrare.
Mentre
Miles avvia l’ascensore, la mia mente percorre lentamente ricordi passati, e il
tempo sembra quasi rallentare per permettermi di sfogliarli con dolcezza, come
le pagine degli album di fotografie che si usavano una volta, con fogli di vera
carta e non file che scorrono veloci su un freddo schermo. Socchiudo gli occhi,
mentre le immagini cominciano ad affiorare dietro le palpebre.
Mia
sorella minore Joey fu la prima di cui decisi di prendermi cura; la vedevo così
piccola e fragile, ed ero pronto a fare qualunque cose per farla stare bene.
Dopo la sua morte, avvenuta a quattro anni dopo un’operazione di peritonite
particolarmente complicata, riversai il mio affetto e la mia attenzione su Neo,
nonostante lui avesse tre anni più di me. Per molto tempo ebbi paura di vederlo
uscire di casa, anche per una piccola commissione, e restavo chiuso nella mia
camera, con gli occhi serrati, fino a quando non sentivo lo scatto della porta
che si apriva e la sua voce che invadeva l’atrio. Molte altre volte lo seguivo
come un’ombra, anche di nascosto, senza farmi notare. Crescendo, il mio
atteggiamento eccessivamente protettivo cambiò, ma non la voglia di comportarmi
da fratello maggiore: prendermi cura della mia famiglia era la cosa che amavo
di più al mondo, e volevo continuare a farlo.
Neo mi
voleva bene, sebbene disapprovasse il mio atteggiarmi a mamma chioccia, e più
di una volta mi prese in giro per questo. Io e lui dividemmo le nostre strade
quasi subito, quando io scelsi di diventare un pilota e successivamente di
entrare nell’Aviazione.
“Tuo
padre è in casa?”. Interrompo per un attimo il filo dei ricordi, ponendo questa
domanda a Miles
“Sì.
Probabilmente in biblioteca; se avesse una fortuna la spenderebbe in libri
antichi, con le pagine di carta che gli piacciono tanto”.
Sorrido.
La lettura è sempre stata la più grande passione di Neo: ero io l’irrequieto
della famiglia, che amava l’ebbrezza della velocità e provava veicoli sempre
più potenti; quando entravo nella cabina di pilotaggio, sentivo la mia
coscienza annullarsi, mentre la sequenza di manovre mi affiorava alla mente e
mi spingeva a premere bottoni e levette, a collaudare il motore e a farlo
rombare.
La
guerra mi ha cambiato: se ora mi portassero davanti alla mia vecchia carlinga
che ho guidato per 15 anni, dubito che avrei il coraggio di salirci sopra. Ho
fatto tante cose con quella navetta. Troppe.
Proprio
accanto all’appartamento vedo una porta con una targhetta olografica: è lo
studio di avvocato di mio fratello, quello che ha sempre desiderato aprire fin
da quando aveva terminato il liceo. Mentre fisso il nome sulla targhetta, Miles
apre la porta di casa e infila dentro la testa. “Papà, un cliente. E sembra
avere molta fretta”
“Se ha
fretta l’ascensore è a due passi da lui. Fallo accomodare nel mio studio, io
arrivo”.
La voce
di mio fratello mi colpisce: non perché sia cambiata, no, ma forse risentirla
dopo 15 anni può fare uno strano effetto. L’ultima volta che ci siamo
incontrati, io e Neo abbiamo litigato: non voleva che partissi, mandava
all’inferno il senso del dovere e tutte le altre idiozie, come le chiamava lui,
che mi avevano inculcato nella testa. Fu la prima e unica volta che lo vidi
davvero arrabbiato. Che farà, adesso, vedendomi seduto di fronte a lui? Mi
abbraccerà? Mi prenderà a schiaffi?
“Vieni,
su” mi esorta Miles, prendendomi per un braccio. La stanza dove mi fa
accomodare è sobria e ben ammobiliata, con una bella scrivania in mogano tirata
a lucido; probabilmente Neo l’avrà presa in un negozio di antiquariato, è
difficile reperire cose del genere in normali negozi.
Quando
Miles mi lascia solo, io non ho il coraggio di sedermi sulla poltroncina
destinata ai clienti, e per il più stupido dei motivi: con la mia divisa
sgualcita e spiegazzata, temo di sporcare. Così mi limito a restare in piedi,
col borsone pesante sulle spalle, in attesa.
E
sobbalzo, sentendo un passo cadenzato, molto diverso da quello di Miles,
avvicinarsi. “Benedetto ragazzo, poteva anche accendere la luce qua dentro,
no?” apre la porta e schiocca leggermente le dita vicino alla parete, e la
stanza viene illuminata “Mi scusi per il...” si blocca di colpo, quando mi
mette a fuoco.
Neo,
fratellone...sei vestito con camicia e completo scuro, ti sei tagliato i baffi
e porti gli occhiali, ma dietro le lenti ovali sei sempre lo stesso. Lo sguardo
che mi posi addosso, come a voler guardare dietro il berretto e la sciarpa che
mi infagotta il collo, dietro i gradi che mi pesano sulle spalle come la
divisa, è il tuo, e non lo cambierei con nessun altro, sebbene ora mi appaia
quasi ostile.
Mio fratello
si toglie la giacca, superandomi e posandola sulla poltrona dietro la
scrivania. Si toglie anche gli occhiali con un gesto stanco, poi mi guarda.
“Levati quella cosa!” mi intima, gelido. Il suo tono mi colpisce, a tal punto
che lascio andare di colpo il borsone, facendolo cadere con un tonfo sordo.
“Ti ho
detto di levartela!”.
Neo si precipita verso di me e mi afferra per la giacca,
aprendomela sul petto con forza. “Toglitela!” grida ancora, spingendo per farmi
uscire le braccia dalle maniche, fino a quando la giubba non si affloscia
pigramente. Neo mi prende il viso tra le mani, guardandomi fisso; indugia sui
miei occhi, sui capelli corti lasciati in vista dal berretto caduto a terra,
sulla piccola cicatrice che ho su una guancia.
“Non
voglio vedermi davanti un capitano, tenente o qualunque cosa indichino quegli
stupidi gradi!” esclama, strappandomi via dal collo le piastrine di
riconoscimento e gettandole sulla scrivania. “Voglio mio fratello...”. Il tono si
addolcisce, la voce divenuta d’un tratto più morbida. Ed è quello il colpo di
grazia: le gambe non mi reggono più, e mi fanno cadere di colpo sulla
poltroncina dietro di me.
“Milo...” sento che mi chiama Neo, usando il mio vero
nome “Sei tornato, Milo...” si china, circondandomi con le braccia forti, e il
contatto con il corpo di mio fratello scioglie in parte il groppo che avevo
fino a quel momento in gola.
“Sono
io...sono qui...” esalo, la voce che mi esce spezzata mio malgrado; abbraccio a
mia volta Neo, appoggiando la testa nell’incavo del suo collo, io, suo fratello
minore.
“N-Neo...mi
sei mancato, Neo...”
“Anche
tu” è la risposta, quella che volevo sentire “Bentornato a casa, fratellino”.
Sorseggio
piano un infuso di erbe, lasciando che la tazza di ceramica mi riscaldi le mani
fredde. È una ricetta custodita gelosamente da nostra madre e successivamente
trasmessa a noi, assieme a molte altre, raccolte in un libriccino che Neo, dopo
la mia partenza, ha conservato con cura in un cassetto della sua scrivania. “Ne
vuoi ancora un po’?” mi domanda mio fratello alzando la teiera, ma riponendola
subito quando vede il mio cenno di diniego.
Il mio
sguardo vaga pigro per la stanza, soffermandosi dapprima sulle finestre, da cui
posso vedere le luci della metropoli, poi sul piano di mogano della scrivania.
Accanto al vassoio con il servizio da tè c’è una cornice argentata: la
fotografia raffigura un dogeniano sui trent’anni, pelle blu scuro e occhi
castani, che indossa fiero una divisa e si appoggia a una motocicletta di
grossa cilindrata.
“Noah”
mi anticipa Neo prima che possa domandarglielo “È stato promosso ispettore
dell’ESU l’anno scorso”. L’ESU (Emergency Service Unit) è un’unità speciale del
dipartimento di polizia di New York; ne ho fatto parte anch’io, per cinque
anni, prima di entrare definitivamente nell’Aviazione di Septon.
Mio
fratello maggiore sospira, dando un’occhiata all’immagine del suo primogenito.
“Ti somiglia molto, per certi versi” commenta “Ha le stesse aspirazioni che
avevi tu alla sua età”
“Allora
mi auguro che non commetta i miei stessi errori” replico io, finendo l’infuso
con un sorso e scottandomi la lingua. “Ti sei pentito della tua scelta, dunque”
commenta Neo, rigirando per un po’ la tazza che ha in mano prima di riporla sul
vassoio
“Ho
qualche motivo per non farlo? Ho vinto la guerra, sono di nuovo a casa, ma a
quale prezzo?”
“Ciascun
soldato ha bene in mente cosa l’aspetta. Lo sapevi anche tu, quando hai deciso
di partire, non dandomi ascolto”
“Lo so,
Neo. Non farmelo ricordare” sospiro, dando un’occhiata all’orologio appeso alla
parete. Le dieci di sera. “Non voglio disturbarti oltre. Vado a fare un giro”
mi alzo in piedi, stiracchiandomi, ma prima che possa prendere il borsone e la
giubba Neo mi blocca il braccio. “Dove vuoi andare a quest’ora? È tardi,
dovresti dormire”.
Un
sorriso amaro mi affiora sulle labbra. “Non posso più dormire, Neo...non dopo
quello che è successo”
“Tu non
me la racconti giusta, fratellino. Posso immaginare che sopravvivere a una
guerra non è facile, ma il tuo comportamento è comunque...strano. A cosa ti riferisci?
Deve essere accaduto qualcosa di molto grave, per farti stare così male”. Non
rispondo, raccogliendo finalmente le mie cose e dirigendomi verso la porta. In
questa stanza mi sento improvvisamente soffocare, ho solo voglia di uscire e di
fare un po’ di chiarezza dentro di me. So anche il nuovo indirizzo di Fu e di
mia figlia, abitano a pochi isolati da qui. Per cercare di distogliere Neo dai
miei problemi, parlo appunto di loro. “Sono felice di sapere che mia moglie e
la bambina stanno bene. Non vedo l’ora di vederle”
“Milo,
lo avrai detto almeno quattro volte durante la conversazione. E Muya non è più
una bambina, visto che ha compiuto da poco 14 anni”.
Sospiro, ripensando a ciò che ho appreso da
Neo sulla mia famiglia: Fu è riuscita a tirare avanti grazie al suo lavoro e al
denaro che riuscivo a mandarle dai vari campi in cui mi trovavo, ma sei anni fa
l’America ha dovuto subire i colpi di una crisi economica che ha portato al
rialzo dei prezzi; non riuscendo più a poter tenere un appartamento grande come
quello che avevamo preso, e rifiutando l’aiuto più volte offerto da Neo, decise
di vendere la nostra casa e di puntare su un appartamento più piccolo. Da tre
anni, per fortuna, la situazione del Paese è migliorata e i prezzi sono
ridiscesi. “Mi dispiace di non aver potuto far molto per loro; ho cercato di
mandare quanto denaro potevo, ma a quanto sembra non è bastato...”
“Milo...”
mi richiama mio fratello “Non cambiare discorso. Vorrei che mi dicessi cosa ti
preme sul cuore; apriti con me, lo sai che possiamo parlare”.
Sto per
infilarmi la giacca della divisa, ma adesso, guardandola meglio, serve solo a
ricordarmi le mie colpe, e i miei errori; la passo a Neo, che la getta sulla
poltroncina. “Seguimi, allora. Ho voglia di sgranchirmi le gambe”
“Ma sta
per piovere!”
“Meglio.
La pioggia mi aiuta a riflettere”.
Lascio
pazientemente che l’acqua mi coli addosso; gli abiti che indosso (come tutti
quelli in vendita) sono impermeabili, tranne il berretto che ormai è diventato
qualcosa di gonfio e informe sulla mia testa. Sto aspettando che Neo esca dal
negozio dove è entrato, ma non passa molto tempo prima che lo riveda in strada,
sotto l’ombrello e con una busta di plastica in mano. “Tieni” mi dice,
porgendomela e tirandomi sotto di lui per non farmi bagnare; nel sacchetto c’è
una confezione con due sandwich al pollo freddo, ma fingo di non guardarli.
“Non fare l’idiota, per poco non sei collassato nel mio studio; hai bisogno di
mangiare, Milo, ti sei guardato allo specchio?”. No, fratellone, oppure sono così
cieco da non essermi accorto di aver perso dieci chili in meno di due mesi...
“Milo,
ti sarei grato se mi guardassi in faccia quando ti parlo” Neo mi spinge sotto
un balcone, dove c’è anche una piccola panchina, e io mi ci siedo senza
pensarci due volte; con la coda nell’occhio, vedo mio fratello sedersi accanto
a me, cacciando i due sandwich dalla busta e mettendomeli sotto il naso. Il mio
stomaco si ribella, non resisto più e alla fine rompo la confezione, portandomi
uno dei panini alla bocca e staccandone grossi morsi. Neo non dice nulla, si
limita ad appoggiarmi affettuosamente una mano sulla spalla e ad attendere
pazientemente che termini di mangiare.
Alla
fine ripongo la confezione vuota nel sacchetto, guardando il dogeniano accanto
a me. Di comune accordo, abbiamo deciso di aspettare fino a domani per vedere
Fu e mia figlia: primo, perché non ho nessuna voglia di svegliarle a quest’ora;
secondo, perché ammetto di vergognarmi a farmi vedere in queste condizioni.
Solo ora sento il bisogno di parlare, di aprirmi con qualcuno...e Neo è sempre
stato pronto ad ascoltare ciò che avevo da dire.
“Tutto
è cominciato due anni fa. Io e la mia squadriglia avevamo ricevuto l’incarico
di sorvegliare una base Alchemis che orbitava intorno a Dogen”. Gli Alchemis
erano l’unica razza aliena che appoggiava la dittatura su Dogen, ma era
sufficientemente capace da creare una solida rete di resistenza intorno al
pianeta; la missione che ci era stata affidata era piuttosto semplice, almeno
così sembrava.
“I
nostri congegni di mimetizzazione funzionavano bene, e per comunicare tra noi
usavamo una rete protetta e non individuabile dagli apparecchi nemici...ma
qualcosa andò storto non appena ci avvicinammo alla base”. Neo mi si è
avvicinato, comincia a intuire quello che è accaduto.
“Virus
informatici; così potenti da danneggiare il nostro sistema in meno di un
minuto. Gli Alchemis se ne servivano per individuare nemici nel raggio di
azione delle loro basi, sebbene fossero stati proibiti nell’uso militare. Una
volta scoperti, ci risucchiarono all’interno tramite il raggio di due loro
cannoni e ci attaccarono, costringendoci ad abbandonare le armi.
Inizialmente
pensavo che avrebbero chiesto un riscatto, o magari l’abbandono delle loro basi
su Dogen che proprio la settimana prima avevamo faticosamente conquistato.
Illusi...me e i miei poveri compagni di squadra; ci separarono, loro in una
cella e io, in qualità di comandante e di ufficiale di grado più alto, in
un’altra...e dopo due giorni di prigionia, fecero uscire gas tossico dalle ventole
dell’aria”.
“Dannati
bastardi...” impreca sottovoce Neo, aumentando la stretta sulla mia spalla.
“Il mio
respiratore era rotto, e non potevo trattenere il fiato in eterno. Il gas mi
aveva già intorpidito e stava avendo del tutto la meglio su di me, quando la
porta venne sfondata; Seth, il generale dell’Aviazione, e un manipolo di uomini
guidati da lui intervenne giusto in tempo per salvarmi la vita”.
Attraverso la nebbiolina che mi aleggia
davanti agli occhi, scorgo un paio di braccia robuste che mi caricano su una
barella, poi lo sfrigolio di ruote mal oliate sotto di me. “Svelti, non abbiamo
tempo da perdere!” sento gridare alla mia sinistra. Il viso di Robert entra
nella mia visuale. “Don, siamo noi...va tutto bene, ti stiamo portando via...”.
Sento la sua mano sulla spalla destra, ma a poco a poco perdo coscienza del
mondo intorno a me.
“Mi
risvegliai all’ospedale, tre giorni dopo. Erano riusciti a mantenere costante
il funzionamento dei miei organi vitali”. Deglutisco, alzandomi e allungando la
testa fino a che la pioggia la lambisce con le sue gocce “I miei superiori
aspettarono che mi fossi ripreso un po’, prima di comunicarmi che la mia
squadriglia non esisteva più; Undin, l’unico septoniano del gruppo, era
riuscito a sopravvivere grazie al respiratore; gli altri non ce l’avevano
fatta”.
Esco
completamente allo scoperto, alzando il viso al cielo e lasciando che l’acqua
mi bagni in abbondanza il viso. Neo mi raggiunge, senza nemmeno curarsi di
aprire l’ombrello. “Milo, so già quello che pensi, ma ti sbagli...”
“Io non
penso nulla...se non al fatto che tutti loro non meritavano di morire come
ratti in gabbia, senza nemmeno avere la possibilità di difendersi!” sbotto,
girandomi di scatto e prendendo per le spalle mio fratello.
“Lo sai quanti anni
aveva Gary, il più giovane? Ventitré! Gli altri due umani, Josh e Angelo,
ventisette! Xinjan, per la sua razza, era nient’altro che un ragazzo...”
abbasso la testa “...come gli altri” poso la fronte sul petto di Neo “E la cosa
che mi brucia maggiormente...è di non essere stato con loro”.
Mio fratello mi
abbraccia piano, prima di portarmi nuovamente all’asciutto e di togliermi dalla
testa il berretto fradicio; i capelli colano acqua che mi riga la nuca e mi
finisce sotto il colletto, in rivoletti gelidi che mi fanno rabbrividire.
Continuo a parlare. “Nonostante tutto, decisi di continuare a combattere. Per
loro, per altri che erano morti...ero consapevole di avere dei doveri, in
qualità di ufficiale e soldato” chiudo gli occhi “Ma tutto questo mi è bastato.
Non tornerò più su Dogen, e non metterò più piede su una navetta”.
Neo mi
fa girare, un braccio stretto attorno alle mie spalle. “Torniamo a casa” mi
dice. Vuole che dorma, che riposi, ma non sono sicuro di poterlo fare; anche
dopo essere rimasto sveglio fino al limite, anche dopo che gli occhi non
possono più restare aperti, le immagini che per anni mi sono danzate davanti
agli occhi ritornano. Tutte insieme.
A
ricordarmi ciò che è stato.
Neo mi
precede nelle scale: l’appartamento è al primo piano, quindi era inutile
scomodare l’ascensore, anche perché una vecchietta appena tornata dal
supermercato ne ha certo più diritto di noi. “Oh...ma è lei!” sento esclamare.
Mi volto...e riconosco l’anziana signora che ho aiutato nella Metrò Aerea. Sul
suo volto solcato dalle rughe, ma gradevole e affabile, si dispiega un sorriso.
“Abita qui? Ma allora siamo vicini! Io abito al secondo piano, e lei?”
“Al...al
primo” balbetto, mentre Neo continua a camminare. La signora congiunge le mani,
sorridendo. “Bene, così potrò conoscerla meglio! Si è appena trasferito, vero?
Se non sbaglio un appartamento era in affitto”
“Be’,
ecco...”
“Al
primo piano, dice? Quindi accanto a Fu e alla sua cara figliola. Ora mi
perdoni, ma ho tutta questa roba da portare a casa, se vuole scusarmi...” entra
nell’ascensore, non prima di avermi affettuosamente salutato.
Neo si
affaccia dalle scale, esortandomi a muovermi.
È mio
fratello a suonare alla porta, e sempre lui ad attendere che vengano ad aprire.
Io sono semi nascosto dietro l’ascensore, ho paura che Fu o la bambina si
prendano un colpo se compaio così all’improvviso.
“Ciao,
zio” sento dire, e di colpo le gambe mi diventano molli, costringendomi a
scivolare a terra. Mi sporgo appena, vedendo una figuretta alta e snella sulla
soglia della porta; altro che bambina, mia figlia è cresciuta ed è diventata
una signorina, ormai. E io mi sono perso tutto di lei...
“Ciao,
Muya. Entriamo in casa, devo parlare con tua madre”
“Non
c’è, è uscita per...”
“Bene,
allora parliamo noi due. Ti dispiace?” vedo Neo spingere mia figlia dentro
casa, ma lasciando la porta aperta per permettere a me di entrare. “Zio, che
fai, la porta...”
“Non ti preoccupare della porta, c’è Miles dietro di me che
deve entrare. Su, andiamo”.
Solo
quando li vedo scomparire entrambi alla vista, mi azzardo a uscire dal mio
nascondiglio e a varcare la soglia del piccolo appartamento. Intravedo, nei
colori e in alcuni pezzi di mobilio, la sobrietà e il gusto di mia moglie; ma
qualcosa, in bella mostra in una stanzetta alla mia sinistra, attira
immediatamente la mia attenzione.
Un
pianoforte. Bellissimo, laccato in nero, con un piccolo schermo dove scorrono
le note delle canzoni da suonare. Sia io che Fu sappiamo suonarlo, anzi è stata
proprio la musica ad avvicinarci. Allungo la mano, mettendo allo scoperto i
tasti bianchi e neri, sfiorandoli e cercando di riportare alla mente sensazioni
e ricordi passati. Più che un ricordo, dentro di me si accavallano note, che
poi lentamente si dispiegano e tornano in ordine, formando una melodia.
Sorrido.
A Fu sono sempre piaciuti i vecchi compositori italiani; una canzone di uno di
questi le era rimasta nel cuore in modo particolare, e poiché la riproducevo
niente male non faceva che farmela suonare. Di continuo. Me la chiese anche il
giorno del nostro matrimonio, e rimase seduta accanto a me, radiosa nel suo
abito bianco, per tutta la durata della canzone.
Mi
siedo, incurante di ciò che sta succedendo tra Neo e mia figlia, e le dita
vanno naturalmente a posarsi sui tasti giusti. Esito un attimo, prima di
premerli e lasciare che il loro suono limpido invada la stanza; la mano
sinistra è impegnata con un accordo, mentre la destra scorre veloce sulla
tastiera per riprodurre la melodia principale.
Ormai
non guardo nemmeno più le note che scorrono rapide sul piccolo schermo, dove la
canzone è stata memorizzata; alzo il viso al soffitto, poi chiudo gli occhi e
mi lascio guidare esclusivamente dalla musica che sto suonando. Durante questi
sei minuti di musica, la mia coscienza si annulla nuovamente, le pareti della
stanza sembrano come allargarsi intorno a me, e per un folle attimo sono
convento di essere sospeso in cielo, in mezzo alle nuvole.
“Mamma...volevo
sentirlo suonare...”.
Apro di
scatto gli occhi, chiudendo di colpo il pianoforte e tornando alla realtà.
Altro che nuvole, sono in una stanza semibuia con uno strumento musicale
davanti a me. E alle mie spalle, oltre a Muya appoggiata a mio fratello, vedo
una donna.
Il
tempo è trascorso anche per Fu, inesorabile; vedo due rughe sottili sulla
fronte, altre agli angoli della bocca, e i capelli blu come la mia pelle hanno
perso parte della loro lucentezza. Ma i piccoli difetti non possono adombrare
comunque la limpidezza dello sguardo azzurro cupo, e la dolcezza dei lineamenti
regolari anche se non perfetti.
“Mamma...”
chiama nuovamente Muya, senza comunque distogliere lo sguardo da me. In lei
rivedo sua madre quando era solo una ragazzina e rincorreva i suoi fratelli nel
parco di Edhros, città dogeniana che ha dato i natali a noi due; ma il
rimescolamento dei geni le ha permesso di avere anche qualcosa di me: riconosco
i miei occhi scuri, il profilo del mio viso, anche la serietà dello sguardo. Fu
si volta, prende la figlia per le spalle e la lascia venire di fronte a me, in
modo che possa guardarmi meglio. Le tendo una mano, che lei prende timidamente
prima di abbandonarsi contro di me, un braccio stretto attorno al mio torace.
Le lacrime minacciano di uscire ma riesco a trattenerle, e con le labbra bacio
la fronte tiepida di Muya. Solo gli dei sanno quante volte avrei voluto farlo...
“La
mamma. Devi restare solo con la mamma” mi dice, scostandosi dolcemente da me
“Muya...”
“Abbiamo
tempo, papà. Tanto” mi anticipa, voltandosi e seguendo Neo che è rimasto in
corridoio senza intervenire. Una volta soli, Fu chiude la porta. “Non dire
nulla” dice, avvicinandosi e percorrendo con le mani la superficie del mio
petto, coperta dalla maglia; senza pensarci due volte me la sfilo, restando a
torso nudo di fronte a lei e lasciando che il suo sguardo indugi sulle
cicatrici che le battaglie da me combattute mi hanno procurato. “Hai mantenuto
la promessa che mi hai fatto prima di lasciare casa nostra” mormora, quasi
pensierosa “Sei tornato” si appoggia con la testa alla base del mio collo.
E io
cedo.
Completamente.
Il
groppo in gola che spinge da due giorni scompare, e le lacrime escono alternate
da singhiozzi spezzati. Ripenso alla mia prima missione per conto
dell’Aviazione, alla battaglia più cruenta combattuta fuori dall’atmosfera di
Dogen, alla perdita dei miei compagni di squadriglia...e poi a Neo e alla sua
rabbia per non averlo ascoltato, a Fu, incinta al secondo mese di nostra
figlia, che mi abbraccia e mi fa giurare che sarei tornato. Tutte immagini che
mi attraversano veloci la mente, come un film, interrotte solo da mia moglie
che mi spinge piano contro il muro, chiudendomi la bocca con un bacio.
Lo
accetto docilmente, prima di rispondere con eguale trasporto, le lacrime che
continuano a scendere imperterrite lungo le mie guance; Fu si stacca un attimo
da me, asciugandole piano con il dorso della mano, prima di avvolgermi nel suo
abbraccio. Solo ora la morbidezza del suo corpo e il suo tepore si fanno più
acuti, e la certezza di averla qui, per non abbandonarla più, soppianta tutto
il resto.
Non
potrò dimenticare quello che ho passato, mai. Ma sono sicuro che gli incubi che
tante volte hanno tormentato il mio sonno non si presenteranno, questa notte.
Non con Fu, pronta a restarmi al fianco come moglie e compagna di vita.