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Autore: Satomi    14/04/2010    2 recensioni
La storia di un soldato, disilluso e con la morte nel cuore, che torna a casa dopo quasi 15 anni di assenza. A fare da sfondo una Terra futuristica, ma al tempo stesso così simile a quella dei nostri giorni. Perchè in fondo, certe storie non smettono mai di ripetersi.
Genere: Triste, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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reduce

New York City, A.D. 2163

 

 

La Metrò Aerea è puntuale come sempre. Il mezzo si ferma con eleganza davanti a noi, e dalle porte automatiche scendono passeggeri di ogni razza: umani, alieni purosangue e dal passo nobile e cadenzato, mutanti che dopo tanto tempo sono riusciti a ottenere pieni diritti... e perché no, anche un po’ di rispetto. Dopo la sua apertura al resto dell’universo, la Terra ha imparato a convivere con esseri diversi dal comune bipede dalla pelle liscia senza scaglie o artigli, apparentemente inerme eppure capace di tenere per molti secoli il globo sotto il proprio giogo.
E di sfruttare al massimo l’opportunità di una qualche alleanza con razze di altri pianeti.
Mentre mi accingo a salire sulla Metrò, un piccoletto infagottato in un cappotto cencioso mi spinge di lato, stringendo al petto qualcosa come fosse un tesoro prezioso: un boccone faticosamente guadagnato per sé e per la sua famiglia, un portafoglio derubato a qualche riccone, o magari un ricordo di una persona cara. Mentre fugge, riesco a distinguere  la pelle bianco latte, troppo chiara per essere quella di un semplice umano.
“Aspetta!” vorrei gridare, ma la folla dietro di me spinge e protesta per l’improvvisa interruzione della fila, mentre la Metrò emette un fischio come a voler esortare i passeggeri a darsi una mossa. Tra le persone che attendono di salire vedo un paio di giovanotti rissosi, ubriachi quasi di certo; dallo sguardo che incrocio direi che avrebbero voglia di darmi una lezione, magari per aver fatto rischiar loro di perdere la Metrò, ma un particolare di me li fa desistere dal primo proposito: il giubbotto che porto, con tanto di gradi sulle spalle e sul petto, a sinistra. La divisa che mi qualifica come ufficiale dell’Aviazione Septoniana.
E come reduce.

 
Una volta dentro, cedo il posto ad un’anziana umana che barcolla vistosamente per via di alcuni pacchi stracolmi e l’aiuto educatamente a posarli a terra. Lei mi ringrazia, riconoscente, e io le rispondo con un timido sorriso, aggrappandomi ad una maniglia.
“Oh... ma lei è un soldato!...” cinguetta benevola la vecchietta, riconoscendo la divisa “Da dove viene?”. Non le rispondo, un groppo mi serra la gola impedendomi di parlare. In questo momento vorrei scendere e sparire tra la folla, ma le porte della Metrò si stanno chiudendo e non potrei uscire se non sfondandole; perciò mi limito a fissare la sbarra di metallo sopra di me, rimirandone assorto i riflessi.
“Lei non è un tipo molto loquace, giovanotto...” commenta l’anziana umana, e a quel punto mi scappa una risata roca dalla bocca: non sa che, con ogni probabilità, ho più dei suoi anni, anche se non li dimostro. Mi sistemo la sacca sulle spalle e giocherello con la maniglia appesa che mi impedisce di cadere al seguito di una fermata particolarmente brusca. Grazie al cielo la mia compagna di viaggio ha deciso di scendere proprio qui: si carica di pacchi e buste, rifiutando questa volta il mio aiuto, ma prima di allontanarsi mi prende una mano, stringendola appena e guardandomi negli occhi, senza che io possa impedirlo. “Buona fortuna, caro” mi dice, caracollando via con quella buffa andatura che, inizialmente, mi aveva strappato un sorriso.

 
Stringo convulsamente le dita a pugno, così forte che se avessi le unghie me le conficcherei nella pelle. Di colpo, tutto quello che mi circonda perde di significato; la folla intorno a me e il ronzio appena percettibile della Metrò mi avvolgono ma io non ne sono più consapevole. Mi lascio andare sul sedile, tenendomi il viso tra le mani tutt’a un tratto gelide, il buio nei miei occhi prima nero che torna rosso, come tante volte nei miei sogni. L’odore dei fumogeni ancora vivo in me, il rumore degli spari e il colore del sangue vivido e denso...
“Sveglia, amico. Diamine, non si riconoscono più i vecchi commilitoni?”.
Il buio e il senso di vuoto scompaiono, mentre una stretta affettuosa sulla spalla mi riporta alla realtà. Apro gli occhi, finendo per farmi accecare dai neon della Metrò. Sono steso scompostamente a terra e non ho idea di come ci sono finito. Tutt’intorno a me, visi a tratti curiosi e preoccupati, a me ignoti.
Tranne uno.
Riconoscerei ovunque quella barbetta sottile, così ben curata, e quegli occhi scuri.
“Robert” saluto, quasi apatico, schermandomi dalla luce con una mano.
“Don” è la risposta. A sentire quel nome ringhio di rabbia e sferro un colpo secco alla mano del mio ex commilitone, scostandola dal mio viso. I presenti sussultano, un bambino scoppia improvvisamente a piangere, mentre la madre si affretta a calmarlo, fissandomi con timore.
Ignorando tutti mi dirigo verso l’uscita, mentre un altro umano corre verso di me. “Si sente bene, signore? L’abbiamo vista perdere i sensi, sì è accasciato sul sedile, lì...”
“Tutto sotto controllo” replico senza nemmeno guardarlo, saltando giù su una delle tante piattaforme sospese che circondano Manhattan e che permettono a tutti di accedere ai piani più alti, dove si è quasi formata una seconda città. Sotto di me centinaia di auto sfrecciano sulle strade asfaltate, molte altre solcano i cieli a un passo dalla piattaforma.
Muovo qualche passo, barcollante, ma un violento capogiro mi prende alla sprovvista e mi sento improvvisamente svuotato, privo di forze; una stretta forte mi prende per le spalle, sostenendomi.
“Calmo” dice piano Robert      
“E tu non chiamarmi con quel nome...” replico stancamente “Mai più”. Il mio ex commilitone preferisce non replicare, ma allo stesso tempo sembra non volermi lasciare solo.
“Vieni, amico. Se non sbaglio, tua moglie non abita da queste parti”.

 
Allungo una mano a toccare la parete divisoria nera che separa me e Robert dal tassista. Il nostro spazio è stato insonorizzato, come richiesto. “Togliti questo coso” comincia Robert afferrando il mio berretto e tirandolo via, rivelando la mia corta capigliatura scura, dai riflessi bluastri; glielo lascio fare, i postumi dello svenimento si fanno ancora sentire e mi costringono ad abbandonarmi contro il sedile. “Fu sarà anche mia moglie” esalo “Ma io non sono suo marito”
“Sei andato di matto, tenente? Allora cos’è l’anello che porti al dito?” domanda lui, indicando la fede di oro bianco che scintilla sull’indice della mia mano sinistra, alla maniera dei dogeniani. “È qualcosa di puramente simbolico” replico, amaro “Io non ci sono stato per quasi quindici anni; ho lasciato Fu dopo appena due mesi di matrimonio, incinta di nostra figlia, e da allora non le ho più viste. Ti sembra che abbia rispettato i miei doveri di marito e padre, Benson?”
“L’unica cosa che so è che, se avessi potuto, ti saresti risparmiato tutto questo”.
Scoppio a ridere; è una risata liberatoria, molto diversa da quella esalata nella Metrò, non più roca ma comunque amara. “Ho scelto io di partire, di stare lontano dalla donna che amavo e dalla nostra bambina ancora non nata! Ti rendi conto che non mi ha mai visto nemmeno in faccia? Che cosa sono io per lei, ora? Nient’altro che un’idea confusa e sbiadita, un ricordo costruito sui racconti di sua madre e su qualche fotografia. Non c’ero quando è venuta al mondo, quando ha imparato a camminare e nemmeno quando ha pronunciato la sua prima parola!”. Prendo a gridare prima che me ne renda conto, le parole che mi escono dalla bocca a fiotti, parole cariche di malinconia, rabbia e rimorso, le parole di un soldato le cui certezze sono andate in frantumi e che teme di confrontarsi con la realtà.
Robert ascolta pazientemente il mio sfogo, senza che un solo suono esca dalle sue labbra circondate dalla sottile peluria castana. Solo alla fine, quando mi vede ansimare sotto il peso delle mie stesse parole, si azzarda a posare una mano sul mio braccio. “I sensi di colpa ti fanno sentire meglio, tenente?. Se ho capito qualcosa di te, in questi sette anni trascorsi a combattere insieme, è che tieni molto più agli altri che a te stesso. Avresti potuto tenere tua moglie con te, come hanno fatto innumerevoli nostri commilitoni, e lasciare che tua figlia crescesse in mezzo alla guerra. Non l’hai fatto; hai sacrificato la tua felicità in cambio della salvezza della tua famiglia. Eri un soldato, non potevi fare altro”
“È stata questa infatti la mia colpa più grande” replico, poco convinto della prospettiva messami davanti dal mio ex compagno d’armi “Arruolarmi. Non dare ascolto a mio fratello. Andare incontro a ideali vani e ridicoli”
“Ti sembra così ridicolo cercare di salvare il tuo pianeta natale sull’orlo della distruzione?”.
Non ho la più la forza di urlare, ma quella di ribattere sì. “Allora spiegami tu a cosa sono serviti quasi venti anni di lotte: a liberare Dogen dalla tirannia? Te lo dico, invece: morti. Sangue e morti. È questa la guerra, Benson; né vincitori né vinti, da nessuna delle due parti. Solo vittime innocenti”.
Eccole, le immagini che mi spuntano nella mente a tradimento. Il cielo bruno rossastro per colpa delle bombe fumogene lanciate per aria, lo scintillio delle armi alla luce delle stelle quasi del tutto opache, e il sangue, il sangue che cola ovunque, che si raccoglie in grandi pozze per terra, dai cumuli di cadaveri che ingombrano il campo...
Sbatto gli occhi per cercare di liberarmi, ancora una volta, da tutto questo.  “Fu non ha sposato un soldato, ma un assassino” mormoro, ma Robert mi sente benissimo. “Piantala con questa lagna, signor tenente”
“E tu piantala di sbattermi in faccia i miei gradi e il mio ruolo”
“Come vuoi che ti chiami? Non conosco il tuo nome, se non quello di battaglia”.
Già. Nemmeno io sarei in grado di dire i nomi di tutti i soldati, superiori e sottoposti, con cui ho avuto a che fare in questi anni: nell’Aviazione e nell’Esercito Septoniano i nomi di battaglia si sostituiscono quasi subito a quelli veri. Per me è stata la stessa cosa: per tutti lì, anche per i civili, non ero Milo Laymana, ma Don. Semplicemente Don. Questo il nome che gridavano quando guidavo un’imboscata, quando gettavo le bombe su un deposito armi nemico e riconoscevano le insegne della mia navetta, questo il nome che alcune delle mie vittime pronunciavano prima di morire, quando non avevo il casco e potevano identificarmi.
“Se magari ti degnassi di dirmelo...”.
Mi riscuoto, a sentire le parole di Benson. “Tempo scaduto, capitano. Scendo qui” replico, quando il taxi si ferma all’indirizzo da me richiesto. Afferro il mio borsone e apro la portiera di scatto, respirando come se fino a quel momento fossi rimasto in apnea. “Ehi, campione, prima di andartene devi pagare!” sbotta seccato il tassista, vedendo che mi sto allontanando. Sbuffo, tornando indietro, ma Robert mi anticipa, tendendo una manciata di dollari a chi di dovere. “Offre la casa” mi dice con un sorriso amichevole “E fatti sentire, o ti verrò personalmente a cercare”. Lo guardo, dubbioso. “Sicuro di volermi rivedere?”
“Come no!” è la risposta, prima che la portiera si richiuda e il taxi sfrecci via, alla ricerca di altri clienti.
Nonostante sia radicato in me il proposito di dimenticare al più presto ciò che è successo su Dogen negli ultimi venti anni, mi sarà difficile fare lo stesso con il ricordo del capitano Robert Benson.

 
155th Street, n. 24. L’indirizzo è questo, ne sono sicuro. Io e Fu comprammo l’appartamento al quinto piano poco prima del nostro matrimonio, e ricordo in modo particolare che non le piaceva il colore della tappezzeria lasciato dai precedenti coinquilini; così mi ero dovuto improvvisare imbianchino e ridipingere con cura tutte le stanze, tranne il bagno dove c’erano le mattonelle azzurre di maiolica. Mi scappa un sorriso nostalgico, e non mi curo di alcuni passanti che mi vedono imbambolato in mezzo alla strada, con un borsone stracolmo in precario equilibrio sulla spalla.
Mi passo una mano sul viso, prima di dirigermi verso i videocitofoni. Rimango di stucco, notando che i nomi di molti appartamenti sono cambiati, lasciando il posto a titoli che indicano gli studi di avvocati e medici. Passo a uno dei due appartamenti del quinto piano, ma con mio grande stupore il mio cognome non appare più sulla targhetta. Chiudo gli occhi un attimo per poi riaprirli, come se temessi un brutto sogno, che però è realtà: nemmeno sull’altro c’è scritto “Laymana”.
Non è possibile...che abbiano traslocato? No, non ci credo, Fu me lo avrebbe detto in una delle poche missive che ho ricevuto da lei nell’ultimo anno; ma non sempre la corrispondenza era attiva, lì su Dogen, e ben funzionante, né tantomeno i computer e i videotelefoni.
Mi guardo intorno, improvvisamente sperduto. L’ipotesi peggiore, che possa essere successo qualcosa di grave, mi attraversa la mente per un attimo prima che la ragione mi imponga di calmarmi. È inutile pensare a catastrofi, magari Fu e nostra figlia si sono trasferite e il loro messaggio non è arrivato.
“Chi cerca?”.
Una voce giovanile proveniente dalla mia destra mi fa sobbalzare. Mi volto, incontrando un viso blu poco più chiaro del mio e un paio di occhi verdi. “Lì ci sono solo dottori e avvocati; se non cerca uno di quelli, perde il suo tempo” continua il ragazzo, togliendosi il cappello e grattandosi la nuca; ha una fascia argentata che gli tiene a bada due folti ciuffi di capelli scuri. In lui riconosco qualcosa di familiare, ma non riesco a spiegarmi cosa, fino a quando lo sguardo non mi cade su una piccola voglia bianca a forma di stella che il giovane ha sulla guancia. Allora la memoria mi riporta alla mente un ricordo nitido e preciso: un piccolo dogeniano sui tre anni, che scalcia allegramente in braccio a suo padre facendolo ridere. So bene chi è quest’ultimo: Neo, mio fratello maggiore.
“Miles?” chiamo, riconoscendo in questo diciassettenne il mio secondo nipote. Vedendo il suo sguardo, capisco che ho indovinato. “Ci conosciamo?” domanda lui, squadrandomi da capo a piedi; difficile che si ricordi di me, era troppo piccolo quando sono partito; senza tener conto del fatto che ho i capelli molto più corti  e sono dimagrito.
“Be’, io sì” rispondo “Anche se mi arrivavi alla gamba l’ultima volta che ti ho visto”. Miles mi guarda più attentamente, avvicinandosi e toccandomi la divisa. Prima di fare tanto d’occhi. “Zio?” esclama “Accidenti, sei...sei...”. Prima di terminare la frase mi salta al collo, e tra lui e il borsone stracolmo finisco per rovinare a terra. Sarà anche cresciuto, ma è ancora il piccolo terremoto che ricordavo.
Riesco a scrollarmelo di dosso prima che mi strangoli con il suo abbraccio, ma sono felice di vederlo. Miles mi sorride. “Ti ho riconosciuto dalla giubba; ricordo che, quando me l’avevi fatta vedere, mi era piaciuta talmente tanto che volevo provarla a tutti i costi”. Annuisco. Sì, ricordo anch’io di aver posato la giacca sulle spalle del mio nipotino, che aveva iniziato a correre per casa con le maniche troppo lunghe che strisciavano per terra e sua madre, Ellie, che lo seguiva temendo che potesse farsi l’ennesimo bernoccolo.
Ellie...la moglie di mio fratello è venuta a mancare due anni dopo la mia partenza da New York. Da quel momento Neo si è rimboccato le maniche, crescendo da solo i suoi due ragazzi e mandando avanti la casa.
Miles si annoda meglio la fascia dietro la nuca, invitandomi con gli occhi a seguirlo. “Ci siamo trasferiti in questa strada quando la mamma se n’è andata” spiega tristemente, guidandomi lungo la via fino a quando non ci fermiamo a uno dei tanti portoni. Lo apre, servendosi della sua chiave elettronica, e mi invita ad entrare.

 
Mentre Miles avvia l’ascensore, la mia mente percorre lentamente ricordi passati, e il tempo sembra quasi rallentare per permettermi di sfogliarli con dolcezza, come le pagine degli album di fotografie che si usavano una volta, con fogli di vera carta e non file che scorrono veloci su un freddo schermo. Socchiudo gli occhi, mentre le immagini cominciano ad affiorare dietro le palpebre.
Mia sorella minore Joey fu la prima di cui decisi di prendermi cura; la vedevo così piccola e fragile, ed ero pronto a fare qualunque cose per farla stare bene. Dopo la sua morte, avvenuta a quattro anni dopo un’operazione di peritonite particolarmente complicata, riversai il mio affetto e la mia attenzione su Neo, nonostante lui avesse tre anni più di me. Per molto tempo ebbi paura di vederlo uscire di casa, anche per una piccola commissione, e restavo chiuso nella mia camera, con gli occhi serrati, fino a quando non sentivo lo scatto della porta che si apriva e la sua voce che invadeva l’atrio. Molte altre volte lo seguivo come un’ombra, anche di nascosto, senza farmi notare. Crescendo, il mio atteggiamento eccessivamente protettivo cambiò, ma non la voglia di comportarmi da fratello maggiore: prendermi cura della mia famiglia era la cosa che amavo di più al mondo, e volevo continuare a farlo.
Neo mi voleva bene, sebbene disapprovasse il mio atteggiarmi a mamma chioccia, e più di una volta mi prese in giro per questo. Io e lui dividemmo le nostre strade quasi subito, quando io scelsi di diventare un pilota e successivamente di entrare nell’Aviazione.
“Tuo padre è in casa?”. Interrompo per un attimo il filo dei ricordi, ponendo questa domanda a Miles
“Sì. Probabilmente in biblioteca; se avesse una fortuna la spenderebbe in libri antichi, con le pagine di carta che gli piacciono tanto”.
Sorrido. La lettura è sempre stata la più grande passione di Neo: ero io l’irrequieto della famiglia, che amava l’ebbrezza della velocità e provava veicoli sempre più potenti; quando entravo nella cabina di pilotaggio, sentivo la mia coscienza annullarsi, mentre la sequenza di manovre mi affiorava alla mente e mi spingeva a premere bottoni e levette, a collaudare il motore e a farlo rombare.
La guerra mi ha cambiato: se ora mi portassero davanti alla mia vecchia carlinga che ho guidato per 15 anni, dubito che avrei il coraggio di salirci sopra. Ho fatto tante cose con quella navetta. Troppe.

 
Proprio accanto all’appartamento vedo una porta con una targhetta olografica: è lo studio di avvocato di mio fratello, quello che ha sempre desiderato aprire fin da quando aveva terminato il liceo. Mentre fisso il nome sulla targhetta, Miles apre la porta di casa e infila dentro la testa. “Papà, un cliente. E sembra avere molta fretta”
“Se ha fretta l’ascensore è a due passi da lui. Fallo accomodare nel mio studio, io arrivo”.
La voce di mio fratello mi colpisce: non perché sia cambiata, no, ma forse risentirla dopo 15 anni può fare uno strano effetto. L’ultima volta che ci siamo incontrati, io e Neo abbiamo litigato: non voleva che partissi, mandava all’inferno il senso del dovere e tutte le altre idiozie, come le chiamava lui, che mi avevano inculcato nella testa. Fu la prima e unica volta che lo vidi davvero arrabbiato. Che farà, adesso, vedendomi seduto di fronte a lui? Mi abbraccerà? Mi prenderà a schiaffi?
“Vieni, su” mi esorta Miles, prendendomi per un braccio. La stanza dove mi fa accomodare è sobria e ben ammobiliata, con una bella scrivania in mogano tirata a lucido; probabilmente Neo l’avrà presa in un negozio di antiquariato, è difficile reperire cose del genere in normali negozi.
Quando Miles mi lascia solo, io non ho il coraggio di sedermi sulla poltroncina destinata ai clienti, e per il più stupido dei motivi: con la mia divisa sgualcita e spiegazzata, temo di sporcare. Così mi limito a restare in piedi, col borsone pesante sulle spalle, in attesa.
E sobbalzo, sentendo un passo cadenzato, molto diverso da quello di Miles, avvicinarsi. “Benedetto ragazzo, poteva anche accendere la luce qua dentro, no?” apre la porta e schiocca leggermente le dita vicino alla parete, e la stanza viene illuminata “Mi scusi per il...” si blocca di colpo, quando mi mette a fuoco.
Neo, fratellone...sei vestito con camicia e completo scuro, ti sei tagliato i baffi e porti gli occhiali, ma dietro le lenti ovali sei sempre lo stesso. Lo sguardo che mi posi addosso, come a voler guardare dietro il berretto e la sciarpa che mi infagotta il collo, dietro i gradi che mi pesano sulle spalle come la divisa, è il tuo, e non lo cambierei con nessun altro, sebbene ora mi appaia quasi ostile.
Mio fratello si toglie la giacca, superandomi e posandola sulla poltrona dietro la scrivania. Si toglie anche gli occhiali con un gesto stanco, poi mi guarda. “Levati quella cosa!” mi intima, gelido. Il suo tono mi colpisce, a tal punto che lascio andare di colpo il borsone, facendolo cadere con un tonfo sordo.
“Ti ho detto di levartela!”.
Neo si precipita verso di me e mi afferra per la giacca, aprendomela sul petto con forza. “Toglitela!” grida ancora, spingendo per farmi uscire le braccia dalle maniche, fino a quando la giubba non si affloscia pigramente. Neo mi prende il viso tra le mani, guardandomi fisso; indugia sui miei occhi, sui capelli corti lasciati in vista dal berretto caduto a terra, sulla piccola cicatrice che ho su una guancia.
“Non voglio vedermi davanti un capitano, tenente o qualunque cosa indichino quegli stupidi gradi!” esclama, strappandomi via dal collo le piastrine di riconoscimento e gettandole sulla scrivania. “Voglio mio fratello...”. Il tono si addolcisce, la voce divenuta d’un tratto più morbida. Ed è quello il colpo di grazia: le gambe non mi reggono più, e mi fanno cadere di colpo sulla poltroncina dietro di me. 
“Milo...” sento che mi chiama Neo, usando il mio vero nome “Sei tornato, Milo...” si china, circondandomi con le braccia forti, e il contatto con il corpo di mio fratello scioglie in parte il groppo che avevo fino a quel momento in gola.
“Sono io...sono qui...” esalo, la voce che mi esce spezzata mio malgrado; abbraccio a mia volta Neo, appoggiando la testa nell’incavo del suo collo, io, suo fratello minore.
“N-Neo...mi sei mancato, Neo...”
“Anche tu” è la risposta, quella che volevo sentire “Bentornato a casa, fratellino”.

 
Sorseggio piano un infuso di erbe, lasciando che la tazza di ceramica mi riscaldi le mani fredde. È una ricetta custodita gelosamente da nostra madre e successivamente trasmessa a noi, assieme a molte altre, raccolte in un libriccino che Neo, dopo la mia partenza, ha conservato con cura in un cassetto della sua scrivania. “Ne vuoi ancora un po’?” mi domanda mio fratello alzando la teiera, ma riponendola subito quando vede il mio cenno di diniego.
Il mio sguardo vaga pigro per la stanza, soffermandosi dapprima sulle finestre, da cui posso vedere le luci della metropoli, poi sul piano di mogano della scrivania. Accanto al vassoio con il servizio da tè c’è una cornice argentata: la fotografia raffigura un dogeniano sui trent’anni, pelle blu scuro e occhi castani, che indossa fiero una divisa e si appoggia a una motocicletta di grossa cilindrata.
“Noah” mi anticipa Neo prima che possa domandarglielo “È stato promosso ispettore dell’ESU l’anno scorso”. L’ESU (Emergency Service Unit) è un’unità speciale del dipartimento di polizia di New York; ne ho fatto parte anch’io, per cinque anni, prima di entrare definitivamente nell’Aviazione di Septon.
Mio fratello maggiore sospira, dando un’occhiata all’immagine del suo primogenito. “Ti somiglia molto, per certi versi” commenta “Ha le stesse aspirazioni che avevi tu alla sua età”
“Allora mi auguro che non commetta i miei stessi errori” replico io, finendo l’infuso con un sorso e scottandomi la lingua. “Ti sei pentito della tua scelta, dunque” commenta Neo, rigirando per un po’ la tazza che ha in mano prima di riporla sul vassoio
“Ho qualche motivo per non farlo? Ho vinto la guerra, sono di nuovo a casa, ma a quale prezzo?”
“Ciascun soldato ha bene in mente cosa l’aspetta. Lo sapevi anche tu, quando hai deciso di partire, non dandomi ascolto”
“Lo so, Neo. Non farmelo ricordare” sospiro, dando un’occhiata all’orologio appeso alla parete. Le dieci di sera. “Non voglio disturbarti oltre. Vado a fare un giro” mi alzo in piedi, stiracchiandomi, ma prima che possa prendere il borsone e la giubba Neo mi blocca il braccio. “Dove vuoi andare a quest’ora? È tardi, dovresti dormire”.
Un sorriso amaro mi affiora sulle labbra. “Non posso più dormire, Neo...non dopo quello che è successo”
“Tu non me la racconti giusta, fratellino. Posso immaginare che sopravvivere a una guerra non è facile, ma il tuo comportamento è comunque...strano. A cosa ti riferisci? Deve essere accaduto qualcosa di molto grave, per farti stare così male”. Non rispondo, raccogliendo finalmente le mie cose e dirigendomi verso la porta. In questa stanza mi sento improvvisamente soffocare, ho solo voglia di uscire e di fare un po’ di chiarezza dentro di me. So anche il nuovo indirizzo di Fu e di mia figlia, abitano a pochi isolati da qui. Per cercare di distogliere Neo dai miei problemi, parlo appunto di loro. “Sono felice di sapere che mia moglie e la bambina stanno bene. Non vedo l’ora di vederle”
“Milo, lo avrai detto almeno quattro volte durante la conversazione. E Muya non è più una bambina, visto che ha compiuto da poco 14 anni”.
Sospiro, ripensando a ciò che ho appreso da Neo sulla mia famiglia: Fu è riuscita a tirare avanti grazie al suo lavoro e al denaro che riuscivo a mandarle dai vari campi in cui mi trovavo, ma sei anni fa l’America ha dovuto subire i colpi di una crisi economica che ha portato al rialzo dei prezzi; non riuscendo più a poter tenere un appartamento grande come quello che avevamo preso, e rifiutando l’aiuto più volte offerto da Neo, decise di vendere la nostra casa e di puntare su un appartamento più piccolo. Da tre anni, per fortuna, la situazione del Paese è migliorata e i prezzi sono ridiscesi. “Mi dispiace di non aver potuto far molto per loro; ho cercato di mandare quanto denaro potevo, ma a quanto sembra non è bastato...”
“Milo...” mi richiama mio fratello “Non cambiare discorso. Vorrei che mi dicessi cosa ti preme sul cuore; apriti con me, lo sai che possiamo parlare”.
Sto per infilarmi la giacca della divisa, ma adesso, guardandola meglio, serve solo a ricordarmi le mie colpe, e i miei errori; la passo a Neo, che la getta sulla poltroncina. “Seguimi, allora. Ho voglia di sgranchirmi le gambe”
“Ma sta per piovere!”
“Meglio. La pioggia mi aiuta a riflettere”.

 
Lascio pazientemente che l’acqua mi coli addosso; gli abiti che indosso (come tutti quelli in vendita) sono impermeabili, tranne il berretto che ormai è diventato qualcosa di gonfio e informe sulla mia testa. Sto aspettando che Neo esca dal negozio dove è entrato, ma non passa molto tempo prima che lo riveda in strada, sotto l’ombrello e con una busta di plastica in mano. “Tieni” mi dice, porgendomela e tirandomi sotto di lui per non farmi bagnare; nel sacchetto c’è una confezione con due sandwich al pollo freddo, ma fingo di non guardarli. “Non fare l’idiota, per poco non sei collassato nel mio studio; hai bisogno di mangiare, Milo, ti sei guardato allo specchio?”. No, fratellone, oppure sono così cieco da non essermi accorto di aver perso dieci chili in meno di due mesi...
“Milo, ti sarei grato se mi guardassi in faccia quando ti parlo” Neo mi spinge sotto un balcone, dove c’è anche una piccola panchina, e io mi ci siedo senza pensarci due volte; con la coda nell’occhio, vedo mio fratello sedersi accanto a me, cacciando i due sandwich dalla busta e mettendomeli sotto il naso. Il mio stomaco si ribella, non resisto più e alla fine rompo la confezione, portandomi uno dei panini alla bocca e staccandone grossi morsi. Neo non dice nulla, si limita ad appoggiarmi affettuosamente una mano sulla spalla e ad attendere pazientemente che termini di mangiare.
Alla fine ripongo la confezione vuota nel sacchetto, guardando il dogeniano accanto a me. Di comune accordo, abbiamo deciso di aspettare fino a domani per vedere Fu e mia figlia: primo, perché non ho nessuna voglia di svegliarle a quest’ora; secondo, perché ammetto di vergognarmi a farmi vedere in queste condizioni. Solo ora sento il bisogno di parlare, di aprirmi con qualcuno...e Neo è sempre stato pronto ad ascoltare ciò che avevo da dire.
“Tutto è cominciato due anni fa. Io e la mia squadriglia avevamo ricevuto l’incarico di sorvegliare una base Alchemis che orbitava intorno a Dogen”. Gli Alchemis erano l’unica razza aliena che appoggiava la dittatura su Dogen, ma era sufficientemente capace da creare una solida rete di resistenza intorno al pianeta; la missione che ci era stata affidata era piuttosto semplice, almeno così sembrava.
“I nostri congegni di mimetizzazione funzionavano bene, e per comunicare tra noi usavamo una rete protetta e non individuabile dagli apparecchi nemici...ma qualcosa andò storto non appena ci avvicinammo alla base”. Neo mi si è avvicinato, comincia a intuire quello che è accaduto.
“Virus informatici; così potenti da danneggiare il nostro sistema in meno di un minuto. Gli Alchemis se ne servivano per individuare nemici nel raggio di azione delle loro basi, sebbene fossero stati proibiti nell’uso militare. Una volta scoperti, ci risucchiarono all’interno tramite il raggio di due loro cannoni e ci attaccarono, costringendoci ad abbandonare le armi.
Inizialmente pensavo che avrebbero chiesto un riscatto, o magari l’abbandono delle loro basi su Dogen che proprio la settimana prima avevamo faticosamente conquistato. Illusi...me e i miei poveri compagni di squadra; ci separarono, loro in una cella e io, in qualità di comandante e di ufficiale di grado più alto, in un’altra...e dopo due giorni di prigionia, fecero uscire gas tossico dalle ventole dell’aria”.
“Dannati bastardi...” impreca sottovoce Neo, aumentando la stretta sulla mia spalla.
“Il mio respiratore era rotto, e non potevo trattenere il fiato in eterno. Il gas mi aveva già intorpidito e stava avendo del tutto la meglio su di me, quando la porta venne sfondata; Seth, il generale dell’Aviazione, e un manipolo di uomini guidati da lui intervenne giusto in tempo per salvarmi la vita”.

 
Attraverso la nebbiolina che mi aleggia davanti agli occhi, scorgo un paio di braccia robuste che mi caricano su una barella, poi lo sfrigolio di ruote mal oliate sotto di me. “Svelti, non abbiamo tempo da perdere!” sento gridare alla mia sinistra. Il viso di Robert entra nella mia visuale. “Don, siamo noi...va tutto bene, ti stiamo portando via...”. Sento la sua mano sulla spalla destra, ma a poco a poco perdo coscienza del mondo intorno a me.

 
“Mi risvegliai all’ospedale, tre giorni dopo. Erano riusciti a mantenere costante il funzionamento dei miei organi vitali”. Deglutisco, alzandomi e allungando la testa fino a che la pioggia la lambisce con le sue gocce “I miei superiori aspettarono che mi fossi ripreso un po’, prima di comunicarmi che la mia squadriglia non esisteva più; Undin, l’unico septoniano del gruppo, era riuscito a sopravvivere grazie al respiratore; gli altri non ce l’avevano fatta”.
Esco completamente allo scoperto, alzando il viso al cielo e lasciando che l’acqua mi bagni in abbondanza il viso. Neo mi raggiunge, senza nemmeno curarsi di aprire l’ombrello. “Milo, so già quello che pensi, ma ti sbagli...”
“Io non penso nulla...se non al fatto che tutti loro non meritavano di morire come ratti in gabbia, senza nemmeno avere la possibilità di difendersi!” sbotto, girandomi di scatto e prendendo per le spalle mio fratello.
“Lo sai quanti anni aveva Gary, il più giovane? Ventitré! Gli altri due umani, Josh e Angelo, ventisette! Xinjan, per la sua razza, era nient’altro che un ragazzo...” abbasso la testa “...come gli altri” poso la fronte sul petto di Neo “E la cosa che mi brucia maggiormente...è di non essere stato con loro”. 
Mio fratello mi abbraccia piano, prima di portarmi nuovamente all’asciutto e di togliermi dalla testa il berretto fradicio; i capelli colano acqua che mi riga la nuca e mi finisce sotto il colletto, in rivoletti gelidi che mi fanno rabbrividire. Continuo a parlare. “Nonostante tutto, decisi di continuare a combattere. Per loro, per altri che erano morti...ero consapevole di avere dei doveri, in qualità di ufficiale e soldato” chiudo gli occhi “Ma tutto questo mi è bastato. Non tornerò più su Dogen, e non metterò più piede su una navetta”.
Neo mi fa girare, un braccio stretto attorno alle mie spalle. “Torniamo a casa” mi dice. Vuole che dorma, che riposi, ma non sono sicuro di poterlo fare; anche dopo essere rimasto sveglio fino al limite, anche dopo che gli occhi non possono più restare aperti, le immagini che per anni mi sono danzate davanti agli occhi ritornano. Tutte insieme.
A ricordarmi ciò che è stato.

 

 La palazzina dove la mia famiglia si è trasferita ha soltanto tre piani, ma mi piace. Oggigiorno, anche in una metropoli come New York, non è più così difficile trovare piccoli sotto quartieri con condomini che non vanno oltre i dieci piani; i grattacieli sono utilizzati soprattutto per gli uffici e i grossi studi legali. Non posso che rallegrarmene.
Neo mi precede nelle scale: l’appartamento è al primo piano, quindi era inutile scomodare l’ascensore, anche perché una vecchietta appena tornata dal supermercato ne ha certo più diritto di noi. “Oh...ma è lei!” sento esclamare. Mi volto...e riconosco l’anziana signora che ho aiutato nella Metrò Aerea. Sul suo volto solcato dalle rughe, ma gradevole e affabile, si dispiega un sorriso. “Abita qui? Ma allora siamo vicini! Io abito al secondo piano, e lei?”
“Al...al primo” balbetto, mentre Neo continua a camminare. La signora congiunge le mani, sorridendo. “Bene, così potrò conoscerla meglio! Si è appena trasferito, vero? Se non sbaglio un appartamento era in affitto”
“Be’, ecco...”
“Al primo piano, dice? Quindi accanto a Fu e alla sua cara figliola. Ora mi perdoni, ma ho tutta questa roba da portare a casa, se vuole scusarmi...” entra nell’ascensore, non prima di avermi affettuosamente salutato.
Neo si affaccia dalle scale, esortandomi a muovermi.

 
È mio fratello a suonare alla porta, e sempre lui ad attendere che vengano ad aprire. Io sono semi nascosto dietro l’ascensore, ho paura che Fu o la bambina si prendano un colpo se compaio così all’improvviso.
“Ciao, zio” sento dire, e di colpo le gambe mi diventano molli, costringendomi a scivolare a terra. Mi sporgo appena, vedendo una figuretta alta e snella sulla soglia della porta; altro che bambina, mia figlia è cresciuta ed è diventata una signorina, ormai. E io mi sono perso tutto di lei...
“Ciao, Muya. Entriamo in casa, devo parlare con tua madre”
“Non c’è, è uscita per...”
“Bene, allora parliamo noi due. Ti dispiace?” vedo Neo spingere mia figlia dentro casa, ma lasciando la porta aperta per permettere a me di entrare. “Zio, che fai, la porta...” 
“Non ti preoccupare della porta, c’è Miles dietro di me che deve entrare. Su, andiamo”.
Solo quando li vedo scomparire entrambi alla vista, mi azzardo a uscire dal mio nascondiglio e a varcare la soglia del piccolo appartamento. Intravedo, nei colori e in alcuni pezzi di mobilio, la sobrietà e il gusto di mia moglie; ma qualcosa, in bella mostra in una stanzetta alla mia sinistra, attira immediatamente la mia attenzione.
Un pianoforte. Bellissimo, laccato in nero, con un piccolo schermo dove scorrono le note delle canzoni da suonare. Sia io che Fu sappiamo suonarlo, anzi è stata proprio la musica ad avvicinarci. Allungo la mano, mettendo allo scoperto i tasti bianchi e neri, sfiorandoli e cercando di riportare alla mente sensazioni e ricordi passati. Più che un ricordo, dentro di me si accavallano note, che poi lentamente si dispiegano e tornano in ordine, formando una melodia.
Sorrido. A Fu sono sempre piaciuti i vecchi compositori italiani; una canzone di uno di questi le era rimasta nel cuore in modo particolare, e poiché la riproducevo niente male non faceva che farmela suonare. Di continuo. Me la chiese anche il giorno del nostro matrimonio, e rimase seduta accanto a me, radiosa nel suo abito bianco, per tutta la durata della canzone.
Mi siedo, incurante di ciò che sta succedendo tra Neo e mia figlia, e le dita vanno naturalmente a posarsi sui tasti giusti. Esito un attimo, prima di premerli e lasciare che il loro suono limpido invada la stanza; la mano sinistra è impegnata con un accordo, mentre la destra scorre veloce sulla tastiera per riprodurre la melodia principale.
Ormai non guardo nemmeno più le note che scorrono rapide sul piccolo schermo, dove la canzone è stata memorizzata; alzo il viso al soffitto, poi chiudo gli occhi e mi lascio guidare esclusivamente dalla musica che sto suonando. Durante questi sei minuti di musica, la mia coscienza si annulla nuovamente, le pareti della stanza sembrano come allargarsi intorno a me, e per un folle attimo sono convento di essere sospeso in cielo, in mezzo alle nuvole.

“Mamma...volevo sentirlo suonare...”.
Apro di scatto gli occhi, chiudendo di colpo il pianoforte e tornando alla realtà. Altro che nuvole, sono in una stanza semibuia con uno strumento musicale davanti a me. E alle mie spalle, oltre a Muya appoggiata a mio fratello, vedo una donna.
Il tempo è trascorso anche per Fu, inesorabile; vedo due rughe sottili sulla fronte, altre agli angoli della bocca, e i capelli blu come la mia pelle hanno perso parte della loro lucentezza. Ma i piccoli difetti non possono adombrare comunque la limpidezza dello sguardo azzurro cupo, e la dolcezza dei lineamenti regolari anche se non perfetti.
“Mamma...” chiama nuovamente Muya, senza comunque distogliere lo sguardo da me. In lei rivedo sua madre quando era solo una ragazzina e rincorreva i suoi fratelli nel parco di Edhros, città dogeniana che ha dato i natali a noi due; ma il rimescolamento dei geni le ha permesso di avere anche qualcosa di me: riconosco i miei occhi scuri, il profilo del mio viso, anche la serietà dello sguardo. Fu si volta, prende la figlia per le spalle e la lascia venire di fronte a me, in modo che possa guardarmi meglio. Le tendo una mano, che lei prende timidamente prima di abbandonarsi contro di me, un braccio stretto attorno al mio torace. Le lacrime minacciano di uscire ma riesco a trattenerle, e con le labbra bacio la fronte tiepida di Muya. Solo gli dei sanno quante volte avrei voluto farlo...
“La mamma. Devi restare solo con la mamma” mi dice, scostandosi dolcemente da me
“Muya...”
“Abbiamo tempo, papà. Tanto” mi anticipa, voltandosi e seguendo Neo che è rimasto in corridoio senza intervenire. Una volta soli, Fu chiude la porta. “Non dire nulla” dice, avvicinandosi e percorrendo con le mani la superficie del mio petto, coperta dalla maglia; senza pensarci due volte me la sfilo, restando a torso nudo di fronte a lei e lasciando che il suo sguardo indugi sulle cicatrici che le battaglie da me combattute mi hanno procurato. “Hai mantenuto la promessa che mi hai fatto prima di lasciare casa nostra” mormora, quasi pensierosa “Sei tornato” si appoggia con la testa alla base del mio collo.
E io cedo.
Completamente.
Il groppo in gola che spinge da due giorni scompare, e le lacrime escono alternate da singhiozzi spezzati. Ripenso alla mia prima missione per conto dell’Aviazione, alla battaglia più cruenta combattuta fuori dall’atmosfera di Dogen, alla perdita dei miei compagni di squadriglia...e poi a Neo e alla sua rabbia per non averlo ascoltato, a Fu, incinta al secondo mese di nostra figlia, che mi abbraccia e mi fa giurare che sarei tornato. Tutte immagini che mi attraversano veloci la mente, come un film, interrotte solo da mia moglie che mi spinge piano contro il muro, chiudendomi la bocca con un bacio.
Lo accetto docilmente, prima di rispondere con eguale trasporto, le lacrime che continuano a scendere imperterrite lungo le mie guance; Fu si stacca un attimo da me, asciugandole piano con il dorso della mano, prima di avvolgermi nel suo abbraccio. Solo ora la morbidezza del suo corpo e il suo tepore si fanno più acuti, e la certezza di averla qui, per non abbandonarla più, soppianta tutto il resto.
Non potrò dimenticare quello che ho passato, mai. Ma sono sicuro che gli incubi che tante volte hanno tormentato il mio sonno non si presenteranno, questa notte. Non con Fu, pronta a restarmi al fianco come moglie e compagna di vita.

   
 
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