Disclaimer: i personaggi sono copyright
della sensei Amano (e incredibile ma vero, non
li ho ancora usati per del sano porno).
Prompt: Hurt/Confort!Fluff dell’iniziativa della community fiumidiparole WWF (Warning Week Fest).
Note: mi
ha succhiato sangue, ‘sta cosa. E non so nemmeno se alla fine è fluff o no ç_ç”
*si autoflagella con amore (?)*
Surely
Proud of you
Aveva sempre pensato che le chiacchiere che si
sentivano spesso per i corridoi fossero affidabili fino ad un certo punto: un
po’ perché per indole non era mai stato tipo da pettegolezzo, e un po’ perché
l’esperienza gli insegnava che quattro mura potevano nascondere grosse verità –
motivo per il quale si era davvero reso necessario cercare un’area della
residenza dei Vongola ad utilizzo privato del Decimo e dei suoi Guardiani –
così come delle grandi, enormi bugie nate chissà dove, perché e da chi.
Ne aveva davvero sentite di tutti i colori Yamamoto da
quando erano lì – ancora ricordava l’alto rischio di mortalità quando qualcuno
aveva messo in giro la chiacchiera secondo la quale “era davvero sospetto il fatto che Hibari-san avesse permesso al boss
dei Cavallone di entrare addirittura nel suo ufficio privato, notoriamente off
limits per chiunque”.
Ricordava ancora chiaramente la fatica che sia Tsuna
che Dino avevano fatto per impedire a Hibari di mordere più di qualcuno a morte
e di procurarsi del sano esercizio fisico giornaliero che avrebbe avuto per
oggetto il pestaggio a sangue – senza assicurarne la sopravvivenza – dei
diretti interessati o presunti tali.
Perché Hibari non si era dato troppa pena di chiedere
chi fosse stato, ma si era limitato a giudicare colpevole o complice chiunque
non rispondesse alla sua domanda su chi avesse avuto tanto fegato da dire una
cosa simile – senza rendersi conto che il balbettio che puntualmente era giunto
in risposta era stato per il terrore che il Guardiano della Nuvola esercitava
su ogni singolo membro minore dei Vongola, e non dall’essere o meno invischiati
nella faccenda.
Ma figurarsi se c’era stato modo di farglielo capire prima di arrivare a dieci feriti – non
gravi, per chissà quale grazia ricevuta.
Da allora, Yamamoto era stato ancora meno incline a
dar retta a quello che sentiva, salvo che le fonti fossero attendibili; nella
fattispecie, che si trattasse di qualcosa comunicato da Tsuna, dagli altri
Guardiani o da membri di “vecchia data” come Basil, o Lal’Mirch.
Tuttavia non aveva potuto negare di essersi quantomeno
allarmato nell’udire qualche bisbiglio sommesso quando ne aveva captato anche
le parole più o meno con una certa chiarezza.
Hai saputo?, aveva colto da alcuni sottoposti che non lo avevano
notato, sembra che il Guardiano della
Tempesta abbia alzato le mani su un subordinato.
Hayato non era una persona tranquilla, e anzi –
nonostante fosse sicuramente maturato dai tempi delle medie – continuava ad
avere un’indole sicuramente piuttosto impulsiva, ed una scarsa pazienza.
Ma da lì a picchiare senza motivo qualcuno, per di più
un alleato, ne passava: oltretutto, per quanta poca sopportazione l’altro
avesse per natura verso i nuovi arrivati non era così stupido da fare qualcosa
che potesse in qualche modo, anche solo in futuro e alla lontana, nuocere al
Decimo.
Per questo aveva dubitato seriamente di
quell’informazione indiretta, ipotizzando che fosse stata travisata viaggiando
di bocca in bocca; e aveva lasciato che la preoccupazione nel sentir chiamare
in causa Hayato scivolasse via almeno un po’, riproponendosi comunque di
chiedere chiarimenti a Tsuna dopo avergli fatto rapporto dell’ultima missione –
giusto per stare sicuri, si era detto.
Quando poi però persino l’amico aveva confermato
l’accaduto, Yamamoto non aveva potuto fare altro che fissare il boss
visibilmente sorpreso nell’apprendere che non si trattasse solo di voci di
corridoio come aveva supposto, ma della realtà dei fatti.
Tsuna, seduto dietro la scrivania, aveva assunto
un’aria pensierosa: «Speravo che tornassi presto dalla missione Yamamoto.»
aveva ammesso, osservando il Guardiano con aria preoccupata più che irritata
dall’accaduto o dalle voci che si erano già create in proposito.
«Ho provato a chiedere a Gokudera-kun cosa fosse
successo per farlo arrabbiare tanto. Ma non ha voluto dirmelo.» aveva ripreso,
per spiegargli meglio la situazione: «Si è solo scusato dicendo che non sarebbe
successo più e ha detto che se non c’era altro che dovesse fare per me
preferiva andare a casa.» aveva quindi concluso quel breve riassunto
dell’accaduto.
Dopodiché aveva sospirato: «L’ho lasciato andare,
perché non avevo un motivo preciso per tenerlo qui. Ma sono preoccupato. Non è
proprio da lui reagire così male.» era stata l’aggiunta.
Era implicita una sorta di richiesta di aiuto nel
capire cosa fosse successo, dunque Yamamoto lo aveva rassicurato con un
sorriso, dicendogli che ci avrebbe pensato lui anche se non sarebbe potuto
rientrare prima di sera – fosse stato per lui in realtà lo avrebbe anche fatto,
ma aveva anche supposto che se Hayato avesse saputo che aveva trascurato il
lavoro per il Decimo per lui non sarebbe di certo tornato di buon umore, anzi.
Riuscì a rincasare miracolosamente per un orario umano
come le sette e mezza.
Aprire la porta dopo aver girato la chiave nella toppa
e sentire la voce di Hayato imprecare malamente contro un oggetto inanimato e
Uri contemporaneamente fece capire a Yamamoto che qualunque cosa avesse
guastato l’umore dell’altro Guardiano, ancora non gli era passata.
Si avviò lungo il corridoio, raggiungendo in breve la
cucina e ritrovandosi Uri che si strusciava contro la sua gamba prima che
potesse oltrepassare la soglia.
Sorrise, vedendo che l’altro era ancora voltato e
approfittandone per chinarsi verso il felino e rispondere a quella sorta di
benvenuto con qualche grattino appena dietro l’orecchio; più che soddisfatto
Uri si dileguò e, tornando in posizione eretta, Yamamoto avanzò entrando del
tutto.
Qualcosa gli suggeriva che Uri ad un certo punto
avesse deciso di farsi una passeggiata tra i piedi del suo padrone e che quello
probabilmente aveva portato al precipitare – letteralmente, vista la generosa
macchia di sugo sul pavimento – della loro presunta cena.
Sospirò appena, raggiungendo l’altro davanti al lavabo
e cingendogli la vita con le braccia, il mento che si posava sulla spalla
sinistra: «Sono tornato.» mormorò placido.
Al contrario di Hayato, la cui risposta più tenera fu
un: «Me ne ero accorto, quel gatto si leva dalle palle solo quando ha di meglio
da fare con te.»
No, proprio non gli era migliorato l’umore a quanto
pareva.
Ridacchiò sommessamente: «Uri è come un bambino, vede
che te la prendi e allora ti fa i dispetti.» gli fece notare, mentre lo
osservava notando l’espressione accigliata e lo sguardo chiaro fisso sul sugo
che si era salvato, mentre probabilmente decideva cosa farne.
«La prossima volta, quando lo prenderò a calci, vedrai
che la pianterà di—» iniziò quell’improperio che Yamamoto decise
arbitrariamente di interrompere, portando una mano sotto il mento dell’altro
per guidarne il volto in sua direzione, posando le labbra su quelle del
Guardiano.
Prolungò quel contatto casto solo qualche secondo, niente
di più, allontanandosene poi quasi pigramente, senza la minima fretta – la foga
delle prime volte, dovuta un po’ alla sorpresa e un po’ agli ormoni di
adolescente aveva lasciato il posto alla gradita quotidianità del gesto.
Notò che Hayato aveva socchiuso gli occhi e lo sentì
sbuffare mentre li riapriva, ritrovando sul suo viso un involontario accenno di
broncio, dovuto con tutta probabilità al fatto di essere stato interrotto
mentre parlava.
«Idiota.» fu infatti il rimprovero che arrivò, ma
Yamamoto non se la prese. Aveva smesso di farlo da un sacco di tempo, e più
precisamente da quando aveva capito “il meccanismo”, ossia che Hayato gli dava
dell’idiota principalmente quando era preoccupato, imbarazzato o comunque per
una personale dimostrazione d’amore o di affetto – bastava notare che,
nonostante fossero ormai quasi come fratelli, continuava imperterrito a
chiamare Lambo “scemucca” dopo anni.
«Cosa stavi cucinando?» chiese, sbirciando da sopra la
sua spalla, senza cambiare posizione. Gokudera ne seguì lo sguardo fino alla
pentola, di cui fortunatamente aveva salvato la maggior parte del contenuto:
«Pasta.» replicò semplicemente, accennando a quella con acqua calda che in quel
momento era sul fornello della macchina a gas.
Yamamoto annuì, sciogliendo l’abbraccio intorno alla
vita dell’altro per poter essere libero di togliere la giacca; posò l’indumento
alla meno peggio sullo sgabello, per poi arrotolare le maniche della camicia e
pronunciare – in risposta all’occhiata interrogativa di Gokudera – un: «Ti do
una mano.»
Takeshi aveva preferito non chiedergli nulla riguardo
quanto era successo, almeno non durante la cena: avevano passato quel tempo con
chiacchiere abbastanza futili, un po’ sul lavoro – ma Yamamoto aveva cercato di
cambiare argomento con naturalezza il prima possibile – un po’ del più e del
meno.
Dopo mangiato Hayato aveva insistito perché se ne
andasse a fare un bagno e lo lasciasse ad occuparsi da solo della cucina – non
per una gentilezza da brava mogliettina, quanto più perché “non c’era certo
bisogno della balia per due piatti”.
Yamamoto lo aveva ritrovato in salotto a guardare il
notiziario, Uri acciambellato sulle sue gambe che si godeva i grattini del
padrone; Takeshi aveva preferito deviare direttamente in camera quando aveva
colto uno “scusa” che con ogni probabilità il Guardiano della Tempesta aveva
rivolto al felino, insieme al seguente “sono solo un po’ nervoso”, che aveva
oltretutto confermato a Takeshi che a dispetto del tentativo dell’altro di
dissimulare, le acque non si erano affatto calmate, ancora. Lo aveva visto
comparire sulla soglia della loro stanza solo mezz’ora più tardi, la giacca già
tolta che veniva sistemata sulla stampella e appesa ordinatamente: Takeshi ne
aveva osservato i movimenti in silenzio, l’espressione seria, quasi cercasse di
studiarlo per capire o almeno provare ad ipotizzare cosa potesse essere
successo.
Quando l’altro si sedette sul materasso, portando la
mancina a sganciare il cinturino dell’orologio per poi posarlo sul comodino,
Yamamoto ruppe il silenzio: «Hayato, cos’è successo oggi al lavoro?» domandò
pacato, lo sguardo fisso sulla schiena del compagno, potendo quasi giurare di
averlo visto irrigidire le spalle a quella domanda.
«Non è successo nulla.» lo sentì rispondere, un po’
bruscamente, ricevendo la conferma – non che servisse davvero in realtà –
dell’esatto contrario.
Non disse nulla sul momento, tacendo mentre l’altro
indossava pantaloni di una tuta dimessa e una maglietta a maniche corte sulla
stessa tonalità di grigio.
«Tsuna è preoccupato per te. Francamente anch’io.»
esordì, tentando un approccio diverso: «Non sei la personificazione della
pazienza e lo sappiamo, ma non hai mai alzato un dito contro dei sottoposti,
specialmente perché alleati e parte della Famiglia. Suona più da Hibari che da
te, Hayato.» fece presente, cercando di intiepidire un po’ la faccenda con
l’ultima frase.
Con scarsi risultati, a giudicare dai movimenti un po’
frettolosi con cui l’altro si coricò vicino a lui su un fianco, dandogli le
spalle, il braccio destro portato sotto la propria nuca: «Domani mi scuserò di
nuovo col Decimo, allora.» risolse con tono stizzito e la palese intenzione di
troncare lì il discorso.
Yamamoto sospirò piano, leggermente, dopodiché si
accostò all’altro circondandogli la vita con un braccio quanto la posizione
permetteva, e gli posò un bacio fra i capelli sussurrando un: «Buonanotte.»
Non era riuscito ad addormentarsi nemmeno per sbaglio,
sistemato a quel modo: non che non fosse abituato alla vicinanza di Hayato
mentre dormivano, tutt’altro – e infatti quando erano in missione entrambi e
separati, Takeshi la differenza la accusava un po’.
Era solo che, anche senza vederlo, era chiaro che il
Guardiano della Tempesta non dormisse affatto: anche se non particolarmente
agitato, il suo respiro non era quello rilassato di una persona che dormiva.
Takeshi aveva voluto rispettare quella sua decisione di non parlare e non gli
aveva fatto altre domande; non perché non fosse preoccupato ovviamente, quanto
più per aspettare almeno il giorno dopo, sperando che si fosse un po’ calmato.
Ma non era certo un mistero che la natura tranquilla e
un po’ scanzonata di Yamamoto Takeshi vacillasse quando era intaccata dalla
preoccupazione per qualcosa o qualcuno, né era certo un segreto che il tutto
peggiorasse esponenzialmente quando c’era Hayato di mezzo.
Perciò, nonostante avesse praticamente deciso di
interrompere il falso sonno dell’altro per indagare su quella benedetta lite
che sembrava esserci stata, dovette stupirsi quando sentì nel buio proprio la
voce di Hayato; segno, tra le altre cose, del fatto che anche l’altro doveva
essersi accorto che il proprio vicino non dormiva, esattamente com’era stato
per il moro.
«È una cosa… che un giapponese non può capire.» fu la
prima cosa che gli sentì mormorare piano, rimanendo piuttosto perplesso dalle
parole che Hayato aveva appena pronunciato.
«Voi avete fatto di tutto un’arte. La guerra, la
cucina, i fiori, lo sport, il tea… tutto. E tutto quello che lo è per voi forse
può essere discutibile, ma non lo condannate mai davvero. Persino la morte nel
tuo paese è stata un’arte.» chiarì – o almeno fu convinto di farlo, quando
invece per Takeshi c’era ancora più di qualcosa di molto criptico in quelle
parole senza apparente filo logico, né conclusione granché sensata.
Tuttavia non glielo fece notare, limitandosi a
stringere appena il mezzo abbraccio nel quale lo aveva stretto prima, quasi a
fargli presente che stava ascoltando.
In risposta – gli fece un po’ male in effetti – lo
sentì irrigidirsi anziché rilassarsi come accadeva di solito, quasi avvertisse
in lui una minaccia.
«Di quello che viene detto o pensato di me,
francamente non mi interessa nulla.» lo sentì riprendere senza alcuna
esortazione, lasciando che parlasse quando e quanto voleva: «Ne ho sentite così
tante quando me ne sono andato di casa, che sinceramente… era anche una
questione di orgoglio, lasciare che dicessero quello che volevano senza
sentirmi toccato.» continuò.
Per Takeshi in realtà non stava dicendo nulla di
nuovo: aveva imparato in tutti quegli anni a conoscere Gokudera Hayato senza
bisogno che quest’ultimo dicesse nulla, ma semplicemente osservando e
ascoltando. Era stato così sorprendente notare ormai quasi dieci anni prima
quanto l’altro comunicasse di sé senza nemmeno rendersene conto con parole
semplici e quotidiane o con la semplice gestualità, che per il Takeshi di
allora era stato come sentirsi dire: “c’è un avversario di baseball che sembra
imbattibile, perché non provi tu?”.
«Per un sacco di tempo ho pensato… che solo il Decimo
avesse una tale influenza su di me.» mormorò, il tono un misto di fastidio,
delusione e una buona dose di orgoglio mandato a farsi benedire, probabilmente
proprio in occasione di quella benedetta discussione al lavoro.
Di cui, tra le altre cose, Takeshi non era ancora
venuto a capo – e per quanto fosse ancora convinto nel voler lasciar parlare
Hayato liberamente, quel discorso non si capiva davvero dove andasse a parare.
«Tutto questo è… davvero ridicolo.» lo sentì quasi
sibilare, ma il motivo per cui se lo strinse maggiormente addosso,
avvicinandosi al suo orecchio per parlare senza bisogno di pronunciare le
parole in più di un semplice sussurro, non fu perché nel suo tono colse rabbia.
Al contrario: Hayato aveva lo stesso tono di un
bambino che era stato deluso e ferito molti anni prima da una cameriera, una
bugia durata troppo a lungo e una manciata di pettegolezzi che contenevano la
verità.
«Cosa hai sentito?» chiese, dando ormai per scontata
l’unica cosa che aveva capito dalle parole dell’altro, ossia che gli fosse
arrivato all’orecchio qualcosa che lo aveva scosso molto più di quanto lui
stesso si aspettasse – considerando poi che pensava davvero di essere
influenzabile solo dalle parole di Tsuna.
Lo sentì, con un certo sollievo, rilassarsi almeno un
po’.
«È solo che non credevo sapessero della mia famiglia.
Non so nemmeno come l’hanno saputo quei bastardi, e se scopro chi è il
responsabile per…»
«Hayato.» lo richiamò gentilmente Takeshi; il punto
non era chi avesse messo in giro una qualsivoglia voce, ma quale essa fosse per
aver portato uno come il braccio destro del Boss, che non veniva abbattuto
nemmeno dai nemici peggiori, a ridursi in quello stato.
Oltre alla sua reazione, di cui tra l’altro Yamamoto
non conosceva ancora perfettamente l’entità.
«Del fatto che sono un figlio illegittimo.» tagliò
corto Gokudera rivelando infine cosa lo avesse innervosito tanto; il moro, per
contro, dovette prendersi qualche istante per ragionare: indubbiamente il
discorso della sua famiglia e, nella fattispecie, dei suoi genitori era per
Hayato qualcosa di estremamente delicato. Inoltre, l’altro aveva sempre cercato
di evitare l’argomento quand’era stato possibile e se Yamamoto lo aveva saputo
prima di altri era stato solo per quel viaggio nel futuro che avevano fatto per
la questione di Byakuran.
Altrimenti, se Reborn non lo avesse raccontato a Tsuna
in sua presenza, chissà se e quando Hayato glielo avrebbe mai detto.
Poi, suppose di aver capito il problema, quel filo
logico che prima gli era sfuggito: Hayato era sempre stato un tipo abbastanza
riservato, almeno su cosa lo riguardava da vicino portando alla luce quanto
davvero provava – non era certo un mistero, no? Che il Guardiano della Tempesta
raramente fosse onesto con i propri sentimenti di fronte ad altri.
Sorrise leggermente, portando una mano a sfiorargli i
capelli in una carezza leggera: «Hayato, voltati un attimo.» lo pregò
gentilmente – non era il massimo parlare con lui senza poterlo guardare in
viso, specialmente considerando che l’altro comunicava ben più con l’espressione
che non con quanto diceva; con le parole sapeva mentire, con lo sguardo non ne
era mai stato davvero capace.
Lo sentì sbuffare, probabilmente in un rimprovero
silenzioso rivolto a se stesso per il suo essere diventato sempre meno abile a
contrastare richieste come quella quando qualcosa non andava per il verso
giusto, e aveva preso l’abitudine – pessima, a dire del suo orgoglio – di
affidarsi al Guardiano della Pioggia.
Non puntò lo sguardo in quello del moro, e Takeshi
d’altra parte non si era davvero aspettato che lo facesse; si limitò a guardare
un punto imprecisato della porzione di maglia che intravedeva davanti a sé,
rimanendo in silenzio e in attesa di qualcosa che sembrava aspettarsi.
E in breve quel qualcosa arrivò: «Io non credo che sia
stato detto con disprezzo, Hayato. Nonostante tutto, sei piuttosto apprezzato
dagli altri membri della Famiglia, se non sbaglio.» gli fece presente.
Hayato purtroppo tendeva a non rendersi conto del
rispetto che le persone imparavano a rivolgergli con naturalezza e che era
molto diverso da quello per Tsuna che ti ispirava una lealtà incondizionata, o
da quello di Hibari che all’inizio e per un certo periodo si basava
sostanzialmente su un rapporto di timorosa riverenza.
Il rispetto che circondava Hayato invece rimaneva un
po’ distante per il ruolo e la fama che il Guardiano della Tempesta aveva in
quanto tale, ma al tempo stesso era un tipo di stima disinteressata e
amichevole.
A prescindere dalle risposte stizzite che l’altro
poteva dare un po’ per il disagio, un po’ per la scarsa abitudine – dopotutto
era passato da un mondo in cui nessuno gli avrebbe mai affidato nulla e in cui
non avevano mai creduto in lui, ad uno nel quale era degno della massima
fiducia e considerato per la persona che era e per questo apprezzato.
«In Italia non ha lo stesso significato ti dico!»
sbottò l’altro, facendolo quasi sussultare visto che si era perso nelle proprie
considerazioni e non si era aspettato una risposta con quel tono.
Abbassando appena lo sguardo sul suo viso si ritrovò a
fissare gli occhi chiari con i propri: erano arrabbiati, anche se non con lui
direttamente, e amareggiati quasi.
«Un figlio illegittimo in Giappone sembra quasi un
ritorno al passato, no? Ma da noi, in Italia, le donne che partoriscono figli
così non sono intrattenitrici istruite per questo che hanno fatto della
seduzione un’arte. Non sono altro… altro che prostitute. Qui in Italia, se sei
un figlio illegittimo significa solo che tua madre è stata una delle tante
sgualdrine che tuo padre si è sbattuto quando sua moglie lo annoiava e che poi,
quando il figlio è venuto fuori dal nulla, lo ha preso perché costituiva un
erede e la madre è stata lasciata. Sai perché? Perché dopotutto non era certo
una moglie. Era solo un’amante.» si sfogò del tutto, senza tacere una sola
delle parole che gli attraversavano la mente in quell’istante.
Takeshi fu spiazzato, totalmente.
Hayato di sua madre non aveva mai parlato, proprio
come del suo stato di figlio illegittimo: ma a lui, al moro, non era mai
sembrato che il compagno odiasse particolarmente suo padre per come erano
andate le cose.
Forse non era stato in grado di capire perfettamente i
suoi sentimenti o forse, molto più semplicemente, non era in grado di
immaginare di poter odiare un padre perché con il suo aveva avuto un rapporto
tale che era piuttosto difficile mettersi nei panni di Hayato.
Dovette nuovamente tornare alla realtà quando sentì
l’italiano che – d’istinto o volutamente – stringeva la presa delle dita su un
lembo della sua maglia, quasi ad attirarne l’attenzione.
«So che è così che funziona. Ma mia madre, lei non
era… non era affatto come potrebbe sembrare. Non sono cresciuto con lei, ma lo
so. Lei non—»
«Shhht.» gli sussurrò Yamamoto, abbracciandolo del
tutto all’improvviso tanto da tirarselo addosso praticamente senza incontrare
alcuna resistenza, una mano insinuata fra i capelli dietro la nuca in un gesto
rassicurante, protettivo.
Rimase così per diversi istanti, mentre l’altro
prendeva coscienza di quel gesto e dapprima si divincolava rivolgendogli qualche
improperio contro, dopodiché si calmava, rimanendo infine fermo.
«…Takeshi?» lo sentì mormorare, il tono un poco
attutito dalla posizione in cui erano, ma nel quale si riconosceva comunque
abbastanza facilmente una nota interrogativa, tipica di quando Hayato era
spiazzato da qualcosa che non riusciva a comprendere nell’immediato.
Takeshi mosse appena la mano sulla nuca in carezze
lente e leggere: «Tu non mi hai mai parlato di lei.» mormorò piano, la voce
conciliante.
«Però una volta Reborn lo ha fatto. Ha parlato di lei
come una donna bellissima e gentile. Una persona buona, molto giovane quando si
è innamorata di un uomo che l’amava a sua volta.» proseguì: «Non ci ha
raccontato tutto, e sicuramente ci sono cose di lei che non avrei mai potuto
capire da quel poco che ho sentito da lui. Però… mentre parlava di tua madre
che veniva a trovarti quando eri bambino, che aveva la forza di sorriderti e di
essere felice quando poteva vederti senza dirti chi fosse e fingendosi qualcuno
che non era legato a te da nulla, l’ho pensato. Che tu somigliassi molto a tua
madre.» ammise, nel tono una sfumatura di bonario divertimento in quell’ultima
frase.
Hayato non alzò il viso, limitandosi a poggiare la
fronte contro il petto del moro: «Forse solo un po’ d’aspetto.» borbottò
inizialmente, un accenno di imbarazzo – Yamamoto aveva sempre avuto la capacità
intrinseca e inspiegabile di metterlo a disagio anche con le osservazioni più
semplici e banali.
Non parlarono per diverso tempo, nessuno dei due,
tanto che ad un certo punto anche Takeshi credette che l’altro si fosse
addormentato per il nervosismo accumulato durante il giorno.
Era destinato ad essere smentito, però.
«Quando ho scoperto chi era… ho pensato di essere
stato solo uno schifoso, bastardo egoista.» fu la frase con cui interruppe quel
silenzio creatosi dopo la mezza risposta data a Takeshi.
Mentre parlava di nuovo, poi, il moro si chiese come
fosse possibile che una sola persona fosse capace di addossarsi colpe simili da
bambino, e conviverci per anni giorno dopo giorno senza crollare.
Ma a pensarci bene, in un modo molto personale e forse
particolare o per lo più incomprensibile, Hayato era crollato tempo addietro:
nel momento in cui per dedicare la sua vita alla protezione del Decimo, aveva
dovuto concedere a se stesso un minimo di amore da parte propria.
Aveva dovuto concedersi di vivere, rinunciando alla
possibilità di combattere nella speranza che qualcuno presto o tardi lo
privasse di quella vita che a conti fatti, per Hayato non aveva mai significato
granché prima di diventare parte dei Vongola.
«Mi chiedevo come avessi fatto a non riconoscerla.»
riprese, il tono di scherno verso il se stesso di allora, e un po’ anche contro
quello di adesso: «Voglio dire, io somiglio a lei, lo hai detto anche tu prima,
no? Capelli chiari, occhi dello stesso colore. Anche ammesso che i lineamenti
siano di mio padre, e lo sono poco… come ho fatto a non accorgermene? Perché non ho capito che era mia madre?»
quasi sibilò, facendosi del male da solo ripetendoselo per l’ennesima volta –
perché si amava un po’ di più, ma di fare quello, di incolparsi non aveva mai
smesso.
Yamamoto non seppe cosa dire sul momento, ma fu più
forte di lui indurire lo sguardo: non era rabbia, era più una sorta di
severità. Fece aderire la propria fronte a quella dell’altro, battendovi appena
contro sebbene non troppo forte, in maniera più simbolica che altro.
«Hayato, guardami.» gli impose, anche se il tono era
comunque morbido e non si era alzato di troppo.
Parlò nuovamente solo quando gli occhi chiari furono
ben visibili e fissi nei propri: «Smetti di distruggerti. Tua madre ti amava al
punto tale che piuttosto che non vederti si accontentava delle poche volte in
un anno in cui riusciva ad incontrarti. E tuo padre non le ha permesso di
vivere con te, ma le ha permesso di vederti qualche volta. Non dico che sia
stato il meglio del meglio, questo è chiaro. Ma… so com’è, quando si perde un
genitore. E proprio perché col mio vecchio ho sempre avuto un rapporto ottimo,
posso dirti una cosa: sono assolutamente sicuro che, se anche non sono stati i
genitori migliori del mondo, entrambi ti hanno amato dal profondo del cuore.»
assicurò, l’espressione che si era fatta seria e che era rimasta tale per tutto
il tempo in cui aveva parlato.
Hayato, da parte sua, si morse un labbro nervosamente.
Sapeva bene che la ferita per la perdita di una
persona amata nell’altro era molto più recente che in lui: anche se di base il
tipo di dolore era lo stesso, in Hayato c’era quella rassegnazione a non poter
essere in grado di vedere la persona che si è persa che si acquisiva solo dopo
anni, e comunque mai del tutto.
Mai senza il rimpianto di aver taciuto qualcosa, e di
averne detta qualcuna che non si pensava davvero.
Abbassò lo sguardo, borbottando qualcosa di indistinto
che Yamamoto non riuscì a cogliere affatto ma sul quale nemmeno indagò; Hayato
invece si ritrovò a incurvare appena le labbra in un sorriso leggero, ironico:
«Sembra proprio che quella frase dobbiate ripetermela una volta per uno, eh?»
buttò lì, senza dare spiegazioni.
A volte aveva persino l’aria di un gioco, tutto
quello, o di qualcosa di pianificato: ogni volta che lui arrivava ad un passo
dal toccare il fondo, arrivava qualcuno a pronunciare quelle parole guardandolo
con tutta la sincerità di cui era capace e a prescindere dal male che poteva
procurargli quella frase e i ricordi che essa portava con sé.
Prima sua sorella, ora persino Takeshi.
Ci mancava solamente che un giorno persino il Decimo
gliela rivolgesse e a quel punto davvero Hayato avrebbe potuto vantare l’en plein.
Takeshi non aveva risposto a quella sua
considerazione, ma si era semplicemente limitato a rilassare appena le spalle a
ripristinare quell’abbraccio che sembrava voler sempre e costantemente
proteggere il Guardiano della Tempesta, non solo in quell’occasione in cui
appariva particolarmente fragile – e poi il moro se ne era accorto: Hayato era
sempre stato fragile, non erano solo momenti.
C’era solo una sottile differenza tra quando non
riusciva ad ostentare una sicurezza che potesse fungere da divisione fra lui e
il mondo, e quando invece ci riusciva senza troppi problemi.
«A volte ho idea che sia un bene, che lei non possa
vedermi.» pronunciò così piano l’altro che per poco lo stesso Takeshi non
faticò a sentirlo nonostante la vicinanza fra loro; allentò appena l’abbraccio,
quanto bastava per poter abbassare il viso per guardarlo ancora una volta.
«Non che sia morta, ovviamente. Solo che non possa
vedermi. Lei… desiderava che diventassi un pianista forse.» ammise, il tono
basso e la frangia che rendeva un po’ difficile decifrare completamente la sua
espressione.
«Non hai più suonato?» chiese con cautela il moro, non
sapendo quale reazione potesse scatenare con quella domanda; ma Hayato si
limitò a scuotere appena la testa.
«Mai, da quando ho saputo chi era.» replicò quasi
secco, come se dovesse lui stesso appesantire ancora di più quell’unica
risposta sincera.
«Sicuramente sperava qualcosa di diverso che non fosse
un figlio nella mafia. Non avrebbe fatto che stare in ansia, e…» non lo disse,
ma sicuramente sarebbe stata messa in mezzo a qualcosa di molto più grande di
lei com’era stato per il padre del moro.
Sua madre era gentile e sicuramente lo aveva amato
profondamente proprio come sia Takeshi che sua sorella gli avevano detto, ma
Hayato aveva preso coscienza di qualcosa che lui stesso aveva trasformato in
una certezza, almeno per lui.
Sua madre difficilmente avrebbe potuto essere fiera di
com’era diventato.
Per quello nonostante il dolore, nonostante avesse
pregato molte volte per la possibilità di passare più tempo con lei, quando
aveva saputo chi era davvero Hayato aveva egoisticamente pensato almeno in una
parte della propria mente che era stato meglio così.
Forse, almeno per lei…
«…e sicuramente avrebbe voluto conoscere chi ti aveva
messo in questa situazione pericolosa, e di certo avrebbe avuto del
risentimento all’inizio. E poi, vedendo quanto suo figlio cambiava per
proteggere le persone che diventavano importanti per lui, vedendone la lealtà
rivolta a quelli che erano diventati compagni, avrebbe sorriso e ci avrebbe
accolti tutti come in una grande famiglia, un po’ come la mamma di Tsuna.»
concluse Takeshi per lui, avvicinandosi al viso dell’altro per sfiorargli la
fronte con le labbra.
«Tua madre sarebbe stata fiera di te. È una delle cose
di cui sono certo fin da quando Reborn ha parlato di lei con me e Tsuna.»
aggiunse, sorridendogli con dolcezza.
Hayato si imbronciò, il rossore che probabilmente era
visibilissimo – maledisse mentalmente entrambi le luci delle abat-jour sui
comodini, lasciate accese – fissandolo a quella uscita.
«L’ho sempre detto che sei un idiota.» se ne uscì in
un borbottio, come se dopo discorsi di quel genere fosse la risposta più ovvia
da dare. Takeshi si limitò a ridacchiare, scompigliandogli appena i capelli
tornando ad insinuarvi le dita.
Chinò appena il viso, poggiando le labbra su quelle
dell’altro sostandovi più di qualche secondo ma mantenendo casto il contatto;
si allontanò lentamente, quasi a voler prolungare più possibile quella
vicinanza, socchiudendo poi gli occhi e cercando quelli dell’altro.
La mano non si era spostata dalla sua testa,
continuando a sfiorare i capelli con carezze leggere che potessero rilassarlo,
ora che parlando forse si sentiva almeno un poco più calmo.
«Non devi preoccuparti.» gli sussurrò infine
all’orecchio: «Non hai deluso nessuno, Hayato.» assicurò.
Lo vide chiudere gli occhi, facendo schioccare le
labbra con quel suo classico modo di fare tipico di quando era in imbarazzo, ma
felice – Takeshi aveva impiegato un po’ a capire cosa significasse quel suo
apparentemente anonimo “tsk”, trovandolo anche piuttosto carino quando
finalmente ci era arrivato e ne aveva avuto la conferma.
«Piuttosto, il sottoposto che hai picchiato in che
condizioni è?» domandò, una richiesta legittima a quel punto – temendo anche
che non ci fosse andato proprio leggero a dirla tutta.
Hayato lo guardò senza capire per qualche secondo:
«Non ho picchiato innanzitutto, ho soltanto minacciato di piantarla prendendo
quel cretino per il bavero. E comunque, non ho mai detto che era per questo. Il
commento “figlio illegittimo” l’ho sentito stamattina da altri.» disse,
lasciando seguire a quelle parole una fase di stallo vera e propria che fu
interrotta poi da una seconda domanda da parte di Yamamoto.
«Ma allora che è successo?» chiese sorpreso,
ricordandogli un po’ lo Yamamoto delle medie – quello che si stupiva di fin
troppe cose per risultare sopportabile spiegargliele tutte una per una con
parole abbastanza semplici perché persino
lui capisse.
Hayato impiegò esattamente una manciata di secondi per
sgranare gli occhi, arrossire di nuovo, voltarsi sull’altro fianco e dargli le
spalle in sequenza: «Dormi, idiota.» fu l’unico borbottio burbero che gli
concesse – scatenando la curiosità del moro, il che non era mai un bene.
Infatti Takeshi gli si fece di nuovo vicino,
sporgendosi su di lui con un sorrisetto divertito, andando a sfiorargli un po’
scherzosamente un po’ per provocazione il collo con le labbra.
«Piantala!»
«Eddai Hayato!» lo rimbeccò Takeshi, senza ottenere
risultati visto il seguente: «Ho detto dormi!» che gli rivolse l’italiano.
Tsk.
Figurarsi se andava a dirgli di aver rischiato di
alzare una sana rissa come ai vecchi tempi per aver casualmente captato qualche apprezzamento poco velato sul Guardiano
della Pioggia.