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Autore: Shichan    14/04/2010    5 recensioni
Hayato aveva lo stesso tono di un bambino che era stato deluso e ferito molti anni prima da una cameriera, una bugia durata troppo a lungo e una manciata di pettegolezzi che contenevano la verità.
[TYL!Characters][Rating giallo per accenni a tematiche potenzialmente pesanti]
Genere: Malinconico, Introspettivo, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Hayato Gokudera, Takeshi Yamamoto
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Aveva sempre pensato che le chiacchiere che si sentivano spesso per i corridoi fossero affidabili fino ad un certo punto: un po’ perché per indole non era mai stato tipo da pettegolezzo, e un po’ perché l’esperienza gli insegnava che quattro mura poteva

Disclaimer: i personaggi sono copyright della sensei Amano (e incredibile ma vero, non  li ho ancora usati per del sano porno).

Prompt: Hurt/Confort!Fluff dell’iniziativa della community fiumidiparole WWF (Warning Week Fest).

Note: mi ha succhiato sangue, ‘sta cosa. E non so nemmeno se alla fine è fluff o no ç_ç” *si autoflagella con amore (?)*

 

Surely

Proud of you

 

Aveva sempre pensato che le chiacchiere che si sentivano spesso per i corridoi fossero affidabili fino ad un certo punto: un po’ perché per indole non era mai stato tipo da pettegolezzo, e un po’ perché l’esperienza gli insegnava che quattro mura potevano nascondere grosse verità – motivo per il quale si era davvero reso necessario cercare un’area della residenza dei Vongola ad utilizzo privato del Decimo e dei suoi Guardiani – così come delle grandi, enormi bugie nate chissà dove, perché e da chi.

Ne aveva davvero sentite di tutti i colori Yamamoto da quando erano lì – ancora ricordava l’alto rischio di mortalità quando qualcuno aveva messo in giro la chiacchiera secondo la quale “era davvero sospetto il fatto che Hibari-san avesse permesso al boss dei Cavallone di entrare addirittura nel suo ufficio privato, notoriamente off limits per chiunque”.

Ricordava ancora chiaramente la fatica che sia Tsuna che Dino avevano fatto per impedire a Hibari di mordere più di qualcuno a morte e di procurarsi del sano esercizio fisico giornaliero che avrebbe avuto per oggetto il pestaggio a sangue – senza assicurarne la sopravvivenza – dei diretti interessati o presunti tali.

Perché Hibari non si era dato troppa pena di chiedere chi fosse stato, ma si era limitato a giudicare colpevole o complice chiunque non rispondesse alla sua domanda su chi avesse avuto tanto fegato da dire una cosa simile – senza rendersi conto che il balbettio che puntualmente era giunto in risposta era stato per il terrore che il Guardiano della Nuvola esercitava su ogni singolo membro minore dei Vongola, e non dall’essere o meno invischiati nella faccenda.

Ma figurarsi se c’era stato modo di farglielo capire prima di arrivare a dieci feriti – non gravi, per chissà quale grazia ricevuta.

Da allora, Yamamoto era stato ancora meno incline a dar retta a quello che sentiva, salvo che le fonti fossero attendibili; nella fattispecie, che si trattasse di qualcosa comunicato da Tsuna, dagli altri Guardiani o da membri di “vecchia data” come Basil, o Lal’Mirch.

Tuttavia non aveva potuto negare di essersi quantomeno allarmato nell’udire qualche bisbiglio sommesso quando ne aveva captato anche le parole più o meno con una certa chiarezza.

Hai saputo?, aveva colto da alcuni sottoposti che non lo avevano notato, sembra che il Guardiano della Tempesta abbia alzato le mani su un subordinato.

Hayato non era una persona tranquilla, e anzi – nonostante fosse sicuramente maturato dai tempi delle medie – continuava ad avere un’indole sicuramente piuttosto impulsiva, ed una scarsa pazienza.

Ma da lì a picchiare senza motivo qualcuno, per di più un alleato, ne passava: oltretutto, per quanta poca sopportazione l’altro avesse per natura verso i nuovi arrivati non era così stupido da fare qualcosa che potesse in qualche modo, anche solo in futuro e alla lontana, nuocere al Decimo.

Per questo aveva dubitato seriamente di quell’informazione indiretta, ipotizzando che fosse stata travisata viaggiando di bocca in bocca; e aveva lasciato che la preoccupazione nel sentir chiamare in causa Hayato scivolasse via almeno un po’, riproponendosi comunque di chiedere chiarimenti a Tsuna dopo avergli fatto rapporto dell’ultima missione – giusto per stare sicuri, si era detto.

Quando poi però persino l’amico aveva confermato l’accaduto, Yamamoto non aveva potuto fare altro che fissare il boss visibilmente sorpreso nell’apprendere che non si trattasse solo di voci di corridoio come aveva supposto, ma della realtà dei fatti.

Tsuna, seduto dietro la scrivania, aveva assunto un’aria pensierosa: «Speravo che tornassi presto dalla missione Yamamoto.» aveva ammesso, osservando il Guardiano con aria preoccupata più che irritata dall’accaduto o dalle voci che si erano già create in proposito.

«Ho provato a chiedere a Gokudera-kun cosa fosse successo per farlo arrabbiare tanto. Ma non ha voluto dirmelo.» aveva ripreso, per spiegargli meglio la situazione: «Si è solo scusato dicendo che non sarebbe successo più e ha detto che se non c’era altro che dovesse fare per me preferiva andare a casa.» aveva quindi concluso quel breve riassunto dell’accaduto.

Dopodiché aveva sospirato: «L’ho lasciato andare, perché non avevo un motivo preciso per tenerlo qui. Ma sono preoccupato. Non è proprio da lui reagire così male.» era stata l’aggiunta.

Era implicita una sorta di richiesta di aiuto nel capire cosa fosse successo, dunque Yamamoto lo aveva rassicurato con un sorriso, dicendogli che ci avrebbe pensato lui anche se non sarebbe potuto rientrare prima di sera – fosse stato per lui in realtà lo avrebbe anche fatto, ma aveva anche supposto che se Hayato avesse saputo che aveva trascurato il lavoro per il Decimo per lui non sarebbe di certo tornato di buon umore, anzi.

Riuscì a rincasare miracolosamente per un orario umano come le sette e mezza.

 

Aprire la porta dopo aver girato la chiave nella toppa e sentire la voce di Hayato imprecare malamente contro un oggetto inanimato e Uri contemporaneamente fece capire a Yamamoto che qualunque cosa avesse guastato l’umore dell’altro Guardiano, ancora non gli era passata.

Si avviò lungo il corridoio, raggiungendo in breve la cucina e ritrovandosi Uri che si strusciava contro la sua gamba prima che potesse oltrepassare la soglia.

Sorrise, vedendo che l’altro era ancora voltato e approfittandone per chinarsi verso il felino e rispondere a quella sorta di benvenuto con qualche grattino appena dietro l’orecchio; più che soddisfatto Uri si dileguò e, tornando in posizione eretta, Yamamoto avanzò entrando del tutto.

Qualcosa gli suggeriva che Uri ad un certo punto avesse deciso di farsi una passeggiata tra i piedi del suo padrone e che quello probabilmente aveva portato al precipitare – letteralmente, vista la generosa macchia di sugo sul pavimento – della loro presunta cena.

Sospirò appena, raggiungendo l’altro davanti al lavabo e cingendogli la vita con le braccia, il mento che si posava sulla spalla sinistra: «Sono tornato.» mormorò placido.

Al contrario di Hayato, la cui risposta più tenera fu un: «Me ne ero accorto, quel gatto si leva dalle palle solo quando ha di meglio da fare con te.»

No, proprio non gli era migliorato l’umore a quanto pareva.

Ridacchiò sommessamente: «Uri è come un bambino, vede che te la prendi e allora ti fa i dispetti.» gli fece notare, mentre lo osservava notando l’espressione accigliata e lo sguardo chiaro fisso sul sugo che si era salvato, mentre probabilmente decideva cosa farne.

«La prossima volta, quando lo prenderò a calci, vedrai che la pianterà di—» iniziò quell’improperio che Yamamoto decise arbitrariamente di interrompere, portando una mano sotto il mento dell’altro per guidarne il volto in sua direzione, posando le labbra su quelle del Guardiano.

Prolungò quel contatto casto solo qualche secondo, niente di più, allontanandosene poi quasi pigramente, senza la minima fretta – la foga delle prime volte, dovuta un po’ alla sorpresa e un po’ agli ormoni di adolescente aveva lasciato il posto alla gradita quotidianità del gesto.

Notò che Hayato aveva socchiuso gli occhi e lo sentì sbuffare mentre li riapriva, ritrovando sul suo viso un involontario accenno di broncio, dovuto con tutta probabilità al fatto di essere stato interrotto mentre parlava.

«Idiota.» fu infatti il rimprovero che arrivò, ma Yamamoto non se la prese. Aveva smesso di farlo da un sacco di tempo, e più precisamente da quando aveva capito “il meccanismo”, ossia che Hayato gli dava dell’idiota principalmente quando era preoccupato, imbarazzato o comunque per una personale dimostrazione d’amore o di affetto – bastava notare che, nonostante fossero ormai quasi come fratelli, continuava imperterrito a chiamare Lambo “scemucca” dopo anni.

«Cosa stavi cucinando?» chiese, sbirciando da sopra la sua spalla, senza cambiare posizione. Gokudera ne seguì lo sguardo fino alla pentola, di cui fortunatamente aveva salvato la maggior parte del contenuto: «Pasta.» replicò semplicemente, accennando a quella con acqua calda che in quel momento era sul fornello della macchina a gas.

Yamamoto annuì, sciogliendo l’abbraccio intorno alla vita dell’altro per poter essere libero di togliere la giacca; posò l’indumento alla meno peggio sullo sgabello, per poi arrotolare le maniche della camicia e pronunciare – in risposta all’occhiata interrogativa di Gokudera – un: «Ti do una mano.»

 

 

Takeshi aveva preferito non chiedergli nulla riguardo quanto era successo, almeno non durante la cena: avevano passato quel tempo con chiacchiere abbastanza futili, un po’ sul lavoro – ma Yamamoto aveva cercato di cambiare argomento con naturalezza il prima possibile – un po’ del più e del meno.

Dopo mangiato Hayato aveva insistito perché se ne andasse a fare un bagno e lo lasciasse ad occuparsi da solo della cucina – non per una gentilezza da brava mogliettina, quanto più perché “non c’era certo bisogno della balia per due piatti”.

Yamamoto lo aveva ritrovato in salotto a guardare il notiziario, Uri acciambellato sulle sue gambe che si godeva i grattini del padrone; Takeshi aveva preferito deviare direttamente in camera quando aveva colto uno “scusa” che con ogni probabilità il Guardiano della Tempesta aveva rivolto al felino, insieme al seguente “sono solo un po’ nervoso”, che aveva oltretutto confermato a Takeshi che a dispetto del tentativo dell’altro di dissimulare, le acque non si erano affatto calmate, ancora. Lo aveva visto comparire sulla soglia della loro stanza solo mezz’ora più tardi, la giacca già tolta che veniva sistemata sulla stampella e appesa ordinatamente: Takeshi ne aveva osservato i movimenti in silenzio, l’espressione seria, quasi cercasse di studiarlo per capire o almeno provare ad ipotizzare cosa potesse essere successo.

Quando l’altro si sedette sul materasso, portando la mancina a sganciare il cinturino dell’orologio per poi posarlo sul comodino, Yamamoto ruppe il silenzio: «Hayato, cos’è successo oggi al lavoro?» domandò pacato, lo sguardo fisso sulla schiena del compagno, potendo quasi giurare di averlo visto irrigidire le spalle a quella domanda.

«Non è successo nulla.» lo sentì rispondere, un po’ bruscamente, ricevendo la conferma – non che servisse davvero in realtà – dell’esatto contrario.

Non disse nulla sul momento, tacendo mentre l’altro indossava pantaloni di una tuta dimessa e una maglietta a maniche corte sulla stessa tonalità di grigio.

«Tsuna è preoccupato per te. Francamente anch’io.» esordì, tentando un approccio diverso: «Non sei la personificazione della pazienza e lo sappiamo, ma non hai mai alzato un dito contro dei sottoposti, specialmente perché alleati e parte della Famiglia. Suona più da Hibari che da te, Hayato.» fece presente, cercando di intiepidire un po’ la faccenda con l’ultima frase.

Con scarsi risultati, a giudicare dai movimenti un po’ frettolosi con cui l’altro si coricò vicino a lui su un fianco, dandogli le spalle, il braccio destro portato sotto la propria nuca: «Domani mi scuserò di nuovo col Decimo, allora.» risolse con tono stizzito e la palese intenzione di troncare lì il discorso.

Yamamoto sospirò piano, leggermente, dopodiché si accostò all’altro circondandogli la vita con un braccio quanto la posizione permetteva, e gli posò un bacio fra i capelli sussurrando un: «Buonanotte.»

 

Non era riuscito ad addormentarsi nemmeno per sbaglio, sistemato a quel modo: non che non fosse abituato alla vicinanza di Hayato mentre dormivano, tutt’altro – e infatti quando erano in missione entrambi e separati, Takeshi la differenza la accusava un po’.

Era solo che, anche senza vederlo, era chiaro che il Guardiano della Tempesta non dormisse affatto: anche se non particolarmente agitato, il suo respiro non era quello rilassato di una persona che dormiva. Takeshi aveva voluto rispettare quella sua decisione di non parlare e non gli aveva fatto altre domande; non perché non fosse preoccupato ovviamente, quanto più per aspettare almeno il giorno dopo, sperando che si fosse un po’ calmato.

Ma non era certo un mistero che la natura tranquilla e un po’ scanzonata di Yamamoto Takeshi vacillasse quando era intaccata dalla preoccupazione per qualcosa o qualcuno, né era certo un segreto che il tutto peggiorasse esponenzialmente quando c’era Hayato di mezzo.

Perciò, nonostante avesse praticamente deciso di interrompere il falso sonno dell’altro per indagare su quella benedetta lite che sembrava esserci stata, dovette stupirsi quando sentì nel buio proprio la voce di Hayato; segno, tra le altre cose, del fatto che anche l’altro doveva essersi accorto che il proprio vicino non dormiva, esattamente com’era stato per il moro.

«È una cosa… che un giapponese non può capire.» fu la prima cosa che gli sentì mormorare piano, rimanendo piuttosto perplesso dalle parole che Hayato aveva appena pronunciato.

«Voi avete fatto di tutto un’arte. La guerra, la cucina, i fiori, lo sport, il tea… tutto. E tutto quello che lo è per voi forse può essere discutibile, ma non lo condannate mai davvero. Persino la morte nel tuo paese è stata un’arte.» chiarì – o almeno fu convinto di farlo, quando invece per Takeshi c’era ancora più di qualcosa di molto criptico in quelle parole senza apparente filo logico, né conclusione granché sensata.

Tuttavia non glielo fece notare, limitandosi a stringere appena il mezzo abbraccio nel quale lo aveva stretto prima, quasi a fargli presente che stava ascoltando.

In risposta – gli fece un po’ male in effetti – lo sentì irrigidirsi anziché rilassarsi come accadeva di solito, quasi avvertisse in lui una minaccia.

«Di quello che viene detto o pensato di me, francamente non mi interessa nulla.» lo sentì riprendere senza alcuna esortazione, lasciando che parlasse quando e quanto voleva: «Ne ho sentite così tante quando me ne sono andato di casa, che sinceramente… era anche una questione di orgoglio, lasciare che dicessero quello che volevano senza sentirmi toccato.» continuò.

Per Takeshi in realtà non stava dicendo nulla di nuovo: aveva imparato in tutti quegli anni a conoscere Gokudera Hayato senza bisogno che quest’ultimo dicesse nulla, ma semplicemente osservando e ascoltando. Era stato così sorprendente notare ormai quasi dieci anni prima quanto l’altro comunicasse di sé senza nemmeno rendersene conto con parole semplici e quotidiane o con la semplice gestualità, che per il Takeshi di allora era stato come sentirsi dire: “c’è un avversario di baseball che sembra imbattibile, perché non provi tu?”.

«Per un sacco di tempo ho pensato… che solo il Decimo avesse una tale influenza su di me.» mormorò, il tono un misto di fastidio, delusione e una buona dose di orgoglio mandato a farsi benedire, probabilmente proprio in occasione di quella benedetta discussione al lavoro.

Di cui, tra le altre cose, Takeshi non era ancora venuto a capo – e per quanto fosse ancora convinto nel voler lasciar parlare Hayato liberamente, quel discorso non si capiva davvero dove andasse a parare.

«Tutto questo è… davvero ridicolo.» lo sentì quasi sibilare, ma il motivo per cui se lo strinse maggiormente addosso, avvicinandosi al suo orecchio per parlare senza bisogno di pronunciare le parole in più di un semplice sussurro, non fu perché nel suo tono colse rabbia.

Al contrario: Hayato aveva lo stesso tono di un bambino che era stato deluso e ferito molti anni prima da una cameriera, una bugia durata troppo a lungo e una manciata di pettegolezzi che contenevano la verità.

«Cosa hai sentito?» chiese, dando ormai per scontata l’unica cosa che aveva capito dalle parole dell’altro, ossia che gli fosse arrivato all’orecchio qualcosa che lo aveva scosso molto più di quanto lui stesso si aspettasse – considerando poi che pensava davvero di essere influenzabile solo dalle parole di Tsuna.

Lo sentì, con un certo sollievo, rilassarsi almeno un po’.

«È solo che non credevo sapessero della mia famiglia. Non so nemmeno come l’hanno saputo quei bastardi, e se scopro chi è il responsabile per…»

«Hayato.» lo richiamò gentilmente Takeshi; il punto non era chi avesse messo in giro una qualsivoglia voce, ma quale essa fosse per aver portato uno come il braccio destro del Boss, che non veniva abbattuto nemmeno dai nemici peggiori, a ridursi in quello stato.

Oltre alla sua reazione, di cui tra l’altro Yamamoto non conosceva ancora perfettamente l’entità.

«Del fatto che sono un figlio illegittimo.» tagliò corto Gokudera rivelando infine cosa lo avesse innervosito tanto; il moro, per contro, dovette prendersi qualche istante per ragionare: indubbiamente il discorso della sua famiglia e, nella fattispecie, dei suoi genitori era per Hayato qualcosa di estremamente delicato. Inoltre, l’altro aveva sempre cercato di evitare l’argomento quand’era stato possibile e se Yamamoto lo aveva saputo prima di altri era stato solo per quel viaggio nel futuro che avevano fatto per la questione di Byakuran.

Altrimenti, se Reborn non lo avesse raccontato a Tsuna in sua presenza, chissà se e quando Hayato glielo avrebbe mai detto.

Poi, suppose di aver capito il problema, quel filo logico che prima gli era sfuggito: Hayato era sempre stato un tipo abbastanza riservato, almeno su cosa lo riguardava da vicino portando alla luce quanto davvero provava – non era certo un mistero, no? Che il Guardiano della Tempesta raramente fosse onesto con i propri sentimenti di fronte ad altri.

Sorrise leggermente, portando una mano a sfiorargli i capelli in una carezza leggera: «Hayato, voltati un attimo.» lo pregò gentilmente – non era il massimo parlare con lui senza poterlo guardare in viso, specialmente considerando che l’altro comunicava ben più con l’espressione che non con quanto diceva; con le parole sapeva mentire, con lo sguardo non ne era mai stato davvero capace.

Lo sentì sbuffare, probabilmente in un rimprovero silenzioso rivolto a se stesso per il suo essere diventato sempre meno abile a contrastare richieste come quella quando qualcosa non andava per il verso giusto, e aveva preso l’abitudine – pessima, a dire del suo orgoglio – di affidarsi al Guardiano della Pioggia.

Non puntò lo sguardo in quello del moro, e Takeshi d’altra parte non si era davvero aspettato che lo facesse; si limitò a guardare un punto imprecisato della porzione di maglia che intravedeva davanti a sé, rimanendo in silenzio e in attesa di qualcosa che sembrava aspettarsi.

E in breve quel qualcosa arrivò: «Io non credo che sia stato detto con disprezzo, Hayato. Nonostante tutto, sei piuttosto apprezzato dagli altri membri della Famiglia, se non sbaglio.» gli fece presente.

Hayato purtroppo tendeva a non rendersi conto del rispetto che le persone imparavano a rivolgergli con naturalezza e che era molto diverso da quello per Tsuna che ti ispirava una lealtà incondizionata, o da quello di Hibari che all’inizio e per un certo periodo si basava sostanzialmente su un rapporto di timorosa riverenza.

Il rispetto che circondava Hayato invece rimaneva un po’ distante per il ruolo e la fama che il Guardiano della Tempesta aveva in quanto tale, ma al tempo stesso era un tipo di stima disinteressata e amichevole.

A prescindere dalle risposte stizzite che l’altro poteva dare un po’ per il disagio, un po’ per la scarsa abitudine – dopotutto era passato da un mondo in cui nessuno gli avrebbe mai affidato nulla e in cui non avevano mai creduto in lui, ad uno nel quale era degno della massima fiducia e considerato per la persona che era e per questo apprezzato.

«In Italia non ha lo stesso significato ti dico!» sbottò l’altro, facendolo quasi sussultare visto che si era perso nelle proprie considerazioni e non si era aspettato una risposta con quel tono.

Abbassando appena lo sguardo sul suo viso si ritrovò a fissare gli occhi chiari con i propri: erano arrabbiati, anche se non con lui direttamente, e amareggiati quasi.

«Un figlio illegittimo in Giappone sembra quasi un ritorno al passato, no? Ma da noi, in Italia, le donne che partoriscono figli così non sono intrattenitrici istruite per questo che hanno fatto della seduzione un’arte. Non sono altro… altro che prostitute. Qui in Italia, se sei un figlio illegittimo significa solo che tua madre è stata una delle tante sgualdrine che tuo padre si è sbattuto quando sua moglie lo annoiava e che poi, quando il figlio è venuto fuori dal nulla, lo ha preso perché costituiva un erede e la madre è stata lasciata. Sai perché? Perché dopotutto non era certo una moglie. Era solo un’amante.» si sfogò del tutto, senza tacere una sola delle parole che gli attraversavano la mente in quell’istante.

Takeshi fu spiazzato, totalmente.

Hayato di sua madre non aveva mai parlato, proprio come del suo stato di figlio illegittimo: ma a lui, al moro, non era mai sembrato che il compagno odiasse particolarmente suo padre per come erano andate le cose.

Forse non era stato in grado di capire perfettamente i suoi sentimenti o forse, molto più semplicemente, non era in grado di immaginare di poter odiare un padre perché con il suo aveva avuto un rapporto tale che era piuttosto difficile mettersi nei panni di Hayato.

Dovette nuovamente tornare alla realtà quando sentì l’italiano che – d’istinto o volutamente – stringeva la presa delle dita su un lembo della sua maglia, quasi ad attirarne l’attenzione.

«So che è così che funziona. Ma mia madre, lei non era… non era affatto come potrebbe sembrare. Non sono cresciuto con lei, ma lo so. Lei non—»

«Shhht.» gli sussurrò Yamamoto, abbracciandolo del tutto all’improvviso tanto da tirarselo addosso praticamente senza incontrare alcuna resistenza, una mano insinuata fra i capelli dietro la nuca in un gesto rassicurante, protettivo.

Rimase così per diversi istanti, mentre l’altro prendeva coscienza di quel gesto e dapprima si divincolava rivolgendogli qualche improperio contro, dopodiché si calmava, rimanendo infine fermo.

«…Takeshi?» lo sentì mormorare, il tono un poco attutito dalla posizione in cui erano, ma nel quale si riconosceva comunque abbastanza facilmente una nota interrogativa, tipica di quando Hayato era spiazzato da qualcosa che non riusciva a comprendere nell’immediato.

Takeshi mosse appena la mano sulla nuca in carezze lente e leggere: «Tu non mi hai mai parlato di lei.» mormorò piano, la voce conciliante.

«Però una volta Reborn lo ha fatto. Ha parlato di lei come una donna bellissima e gentile. Una persona buona, molto giovane quando si è innamorata di un uomo che l’amava a sua volta.» proseguì: «Non ci ha raccontato tutto, e sicuramente ci sono cose di lei che non avrei mai potuto capire da quel poco che ho sentito da lui. Però… mentre parlava di tua madre che veniva a trovarti quando eri bambino, che aveva la forza di sorriderti e di essere felice quando poteva vederti senza dirti chi fosse e fingendosi qualcuno che non era legato a te da nulla, l’ho pensato. Che tu somigliassi molto a tua madre.» ammise, nel tono una sfumatura di bonario divertimento in quell’ultima frase.

Hayato non alzò il viso, limitandosi a poggiare la fronte contro il petto del moro: «Forse solo un po’ d’aspetto.» borbottò inizialmente, un accenno di imbarazzo – Yamamoto aveva sempre avuto la capacità intrinseca e inspiegabile di metterlo a disagio anche con le osservazioni più semplici e banali.

Non parlarono per diverso tempo, nessuno dei due, tanto che ad un certo punto anche Takeshi credette che l’altro si fosse addormentato per il nervosismo accumulato durante il giorno.

Era destinato ad essere smentito, però.

«Quando ho scoperto chi era… ho pensato di essere stato solo uno schifoso, bastardo egoista.» fu la frase con cui interruppe quel silenzio creatosi dopo la mezza risposta data a Takeshi.

Mentre parlava di nuovo, poi, il moro si chiese come fosse possibile che una sola persona fosse capace di addossarsi colpe simili da bambino, e conviverci per anni giorno dopo giorno senza crollare.

Ma a pensarci bene, in un modo molto personale e forse particolare o per lo più incomprensibile, Hayato era crollato tempo addietro: nel momento in cui per dedicare la sua vita alla protezione del Decimo, aveva dovuto concedere a se stesso un minimo di amore da parte propria.

Aveva dovuto concedersi di vivere, rinunciando alla possibilità di combattere nella speranza che qualcuno presto o tardi lo privasse di quella vita che a conti fatti, per Hayato non aveva mai significato granché prima di diventare parte dei Vongola.

«Mi chiedevo come avessi fatto a non riconoscerla.» riprese, il tono di scherno verso il se stesso di allora, e un po’ anche contro quello di adesso: «Voglio dire, io somiglio a lei, lo hai detto anche tu prima, no? Capelli chiari, occhi dello stesso colore. Anche ammesso che i lineamenti siano di mio padre, e lo sono poco… come ho fatto a non accorgermene? Perché non ho capito che era mia madre?» quasi sibilò, facendosi del male da solo ripetendoselo per l’ennesima volta – perché si amava un po’ di più, ma di fare quello, di incolparsi non aveva mai smesso.

Yamamoto non seppe cosa dire sul momento, ma fu più forte di lui indurire lo sguardo: non era rabbia, era più una sorta di severità. Fece aderire la propria fronte a quella dell’altro, battendovi appena contro sebbene non troppo forte, in maniera più simbolica che altro.

«Hayato, guardami.» gli impose, anche se il tono era comunque morbido e non si era alzato di troppo.

Parlò nuovamente solo quando gli occhi chiari furono ben visibili e fissi nei propri: «Smetti di distruggerti. Tua madre ti amava al punto tale che piuttosto che non vederti si accontentava delle poche volte in un anno in cui riusciva ad incontrarti. E tuo padre non le ha permesso di vivere con te, ma le ha permesso di vederti qualche volta. Non dico che sia stato il meglio del meglio, questo è chiaro. Ma… so com’è, quando si perde un genitore. E proprio perché col mio vecchio ho sempre avuto un rapporto ottimo, posso dirti una cosa: sono assolutamente sicuro che, se anche non sono stati i genitori migliori del mondo, entrambi ti hanno amato dal profondo del cuore.» assicurò, l’espressione che si era fatta seria e che era rimasta tale per tutto il tempo in cui aveva parlato.

Hayato, da parte sua, si morse un labbro nervosamente.

Sapeva bene che la ferita per la perdita di una persona amata nell’altro era molto più recente che in lui: anche se di base il tipo di dolore era lo stesso, in Hayato c’era quella rassegnazione a non poter essere in grado di vedere la persona che si è persa che si acquisiva solo dopo anni, e comunque mai del tutto.

Mai senza il rimpianto di aver taciuto qualcosa, e di averne detta qualcuna che non si pensava davvero.

Abbassò lo sguardo, borbottando qualcosa di indistinto che Yamamoto non riuscì a cogliere affatto ma sul quale nemmeno indagò; Hayato invece si ritrovò a incurvare appena le labbra in un sorriso leggero, ironico: «Sembra proprio che quella frase dobbiate ripetermela una volta per uno, eh?» buttò lì, senza dare spiegazioni.

A volte aveva persino l’aria di un gioco, tutto quello, o di qualcosa di pianificato: ogni volta che lui arrivava ad un passo dal toccare il fondo, arrivava qualcuno a pronunciare quelle parole guardandolo con tutta la sincerità di cui era capace e a prescindere dal male che poteva procurargli quella frase e i ricordi che essa portava con sé.

Prima sua sorella, ora persino Takeshi.

Ci mancava solamente che un giorno persino il Decimo gliela rivolgesse e a quel punto davvero Hayato avrebbe potuto vantare l’en plein.

Takeshi non aveva risposto a quella sua considerazione, ma si era semplicemente limitato a rilassare appena le spalle a ripristinare quell’abbraccio che sembrava voler sempre e costantemente proteggere il Guardiano della Tempesta, non solo in quell’occasione in cui appariva particolarmente fragile – e poi il moro se ne era accorto: Hayato era sempre stato fragile, non erano solo momenti.

C’era solo una sottile differenza tra quando non riusciva ad ostentare una sicurezza che potesse fungere da divisione fra lui e il mondo, e quando invece ci riusciva senza troppi problemi.

«A volte ho idea che sia un bene, che lei non possa vedermi.» pronunciò così piano l’altro che per poco lo stesso Takeshi non faticò a sentirlo nonostante la vicinanza fra loro; allentò appena l’abbraccio, quanto bastava per poter abbassare il viso per guardarlo ancora una volta.

«Non che sia morta, ovviamente. Solo che non possa vedermi. Lei… desiderava che diventassi un pianista forse.» ammise, il tono basso e la frangia che rendeva un po’ difficile decifrare completamente la sua espressione.

«Non hai più suonato?» chiese con cautela il moro, non sapendo quale reazione potesse scatenare con quella domanda; ma Hayato si limitò a scuotere appena la testa.

«Mai, da quando ho saputo chi era.» replicò quasi secco, come se dovesse lui stesso appesantire ancora di più quell’unica risposta sincera.

«Sicuramente sperava qualcosa di diverso che non fosse un figlio nella mafia. Non avrebbe fatto che stare in ansia, e…» non lo disse, ma sicuramente sarebbe stata messa in mezzo a qualcosa di molto più grande di lei com’era stato per il padre del moro.

Sua madre era gentile e sicuramente lo aveva amato profondamente proprio come sia Takeshi che sua sorella gli avevano detto, ma Hayato aveva preso coscienza di qualcosa che lui stesso aveva trasformato in una certezza, almeno per lui.

Sua madre difficilmente avrebbe potuto essere fiera di com’era diventato.

Per quello nonostante il dolore, nonostante avesse pregato molte volte per la possibilità di passare più tempo con lei, quando aveva saputo chi era davvero Hayato aveva egoisticamente pensato almeno in una parte della propria mente che era stato meglio così.

Forse, almeno per lei…

«…e sicuramente avrebbe voluto conoscere chi ti aveva messo in questa situazione pericolosa, e di certo avrebbe avuto del risentimento all’inizio. E poi, vedendo quanto suo figlio cambiava per proteggere le persone che diventavano importanti per lui, vedendone la lealtà rivolta a quelli che erano diventati compagni, avrebbe sorriso e ci avrebbe accolti tutti come in una grande famiglia, un po’ come la mamma di Tsuna.» concluse Takeshi per lui, avvicinandosi al viso dell’altro per sfiorargli la fronte con le labbra.

«Tua madre sarebbe stata fiera di te. È una delle cose di cui sono certo fin da quando Reborn ha parlato di lei con me e Tsuna.» aggiunse, sorridendogli con dolcezza.

Hayato si imbronciò, il rossore che probabilmente era visibilissimo – maledisse mentalmente entrambi le luci delle abat-jour sui comodini, lasciate accese – fissandolo a quella uscita.

«L’ho sempre detto che sei un idiota.» se ne uscì in un borbottio, come se dopo discorsi di quel genere fosse la risposta più ovvia da dare. Takeshi si limitò a ridacchiare, scompigliandogli appena i capelli tornando ad insinuarvi le dita.

Chinò appena il viso, poggiando le labbra su quelle dell’altro sostandovi più di qualche secondo ma mantenendo casto il contatto; si allontanò lentamente, quasi a voler prolungare più possibile quella vicinanza, socchiudendo poi gli occhi e cercando quelli dell’altro.

La mano non si era spostata dalla sua testa, continuando a sfiorare i capelli con carezze leggere che potessero rilassarlo, ora che parlando forse si sentiva almeno un poco più calmo.

«Non devi preoccuparti.» gli sussurrò infine all’orecchio: «Non hai deluso nessuno, Hayato.» assicurò.

Lo vide chiudere gli occhi, facendo schioccare le labbra con quel suo classico modo di fare tipico di quando era in imbarazzo, ma felice – Takeshi aveva impiegato un po’ a capire cosa significasse quel suo apparentemente anonimo “tsk”, trovandolo anche piuttosto carino quando finalmente ci era arrivato e ne aveva avuto la conferma.

«Piuttosto, il sottoposto che hai picchiato in che condizioni è?» domandò, una richiesta legittima a quel punto – temendo anche che non ci fosse andato proprio leggero a dirla tutta.

Hayato lo guardò senza capire per qualche secondo: «Non ho picchiato innanzitutto, ho soltanto minacciato di piantarla prendendo quel cretino per il bavero. E comunque, non ho mai detto che era per questo. Il commento “figlio illegittimo” l’ho sentito stamattina da altri.» disse, lasciando seguire a quelle parole una fase di stallo vera e propria che fu interrotta poi da una seconda domanda da parte di Yamamoto.

«Ma allora che è successo?» chiese sorpreso, ricordandogli un po’ lo Yamamoto delle medie – quello che si stupiva di fin troppe cose per risultare sopportabile spiegargliele tutte una per una con parole abbastanza semplici perché persino lui capisse.

Hayato impiegò esattamente una manciata di secondi per sgranare gli occhi, arrossire di nuovo, voltarsi sull’altro fianco e dargli le spalle in sequenza: «Dormi, idiota.» fu l’unico borbottio burbero che gli concesse – scatenando la curiosità del moro, il che non era mai un bene.

Infatti Takeshi gli si fece di nuovo vicino, sporgendosi su di lui con un sorrisetto divertito, andando a sfiorargli un po’ scherzosamente un po’ per provocazione il collo con le labbra.

«Piantala!»

«Eddai Hayato!» lo rimbeccò Takeshi, senza ottenere risultati visto il seguente: «Ho detto dormi!» che gli rivolse l’italiano.

Tsk.

Figurarsi se andava a dirgli di aver rischiato di alzare una sana rissa come ai vecchi tempi per aver casualmente captato qualche apprezzamento poco velato sul Guardiano della Pioggia.

   
 
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