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Autore: Mikaeru    16/04/2010    6 recensioni
“Romano, non ti sembra manchi qualcosa?”
“Eh? Cosa stai dicendo? A me non manca nulla, quindi non manca nulla neppure a te.”
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nord Italia/Feliciano Vargas
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Se ne stavano in fondo alla stanza, mano nella mano, i fianchi appiccicati uno all'altro, le dita nascoste dietro la linea che le loro gambe creavano, la schiena incollata al muro, troppa paura per fare un passo, loro troppo piccoli in mezzo a nazioni così grandi, tanto imponenti che la loro costituzione già sottile al loro confronto scompariva, inghiottita dall’angoscia e dalla pesantezza dell’atmosfera terribile. Romano non faceva che guardarsi attorno, gli occhi schizzavano di qua e di là, tentando di capire qualcosa in mezzo a quella frenesia multicolore, quell'unica, gigantesca voce formata da tanti piccoli campanellini che suonavano tutti nello stesso istante. Era nervosissimo, la mascella contratta e le palpebre strette strette a controllare ogni cosa, come un falco; stringeva più forte le dita di Feliciano con cadenza irregolare, a volte sembrava volesse modellarle come creta, muovendo le sue dita con le proprie, a volte stringeva con una tale potenza che il Nord Italia era costretto a gemere.

“Scusa.”, gli diceva quell’altro, brusco, quando succedeva, e Feliciano scuoteva la testa, con un sorriso appena accennato sulle labbra pallide, come a dire Fa lo stesso, non preoccuparti.

In fondo lì c’era tutta la sua famiglia, e la prima regola non scritta era sostenersi a vicenda, quando si aveva lo stesso sangue. Non si sarebbe lamentato, non quel giorno almeno.

La villa di Austria-san e Ungheria-san era proprio bella come se la ricordava Feliciano. Anche Austria-san e Ungheria-san stessi erano proprio belli come se li ricordava. Lei gli era accanto e poteva vedere, nei suoi occhi addolorati, quanto volesse stringerlo fortissimo, tranquillizzarlo; poteva scorgere da chilometri di distanza l’amore con cui lo guardava, la sua voglia di proteggerlo e avvolgerlo col proprio colore, in modo che nulla lo ferisse, o tentasse di farlo. Austria-san era un uomo orgoglioso, non avrebbe permesso a nessuno di vederlo fragile tra le braccia e sui seni di lei; ma, guardandolo bene, di nascosto dietro la schiena, si potevano vedere stringere le loro dita strette fino allo spasmo, il tremore palese dei loro cuori che tentavano di uccidere alla nascita quando cercava di manifestarsi nel corpo.

Le urla e le grida di quanti avrebbero deciso il loro futuro, quello suo e di suo fratello, gli facevano male alle orecchie, per quanto alto era il volume della loro voce. La loro rabbia serpeggiava tra le teste di tutti i presenti, si infiltrava nei loro crani per distruggerli da dentro, tanto era il male che provocavano.

"Non possiamo lasciare la Francia da sola - non possiamo riammetterla - eppure è lo Stato più colpito! - Ah, ma allora dobbiamo circondarla! – Che non le sia più permesso di fare i suoi porci comodi! – Non possiamo permetterci di abbassare la guardia, o tornerà tutto come prima. La nostra priorità deve essere proteggere l’Europa."

"Francia-niichan...?"

Feliciano alzò il capo, ma in mezzo a quel caos non riuscì a distinguere i capelli biondi del fratellone. Riabbassò la testa, tornando a fissarsi i piedi. Aveva immaginato di trovarlo in un qualche angolo della stanza, ferito ancora peggio, con le labbra serrate perché non si sarebbe permesso di emettere un fiato, una lamentela – le lacrime dovevano seccarsi immediatamente nei suoi occhi, non potevano bagnargli le guance. La sconfitta, il dolore della perdita, le speranze davvero riposte in un uomo solo che avrebbe dovuto dargli una nuova vita.

Italia muoveva le punte polverose delle scarpe ogni tanto, strisciandole sul pavimento lustro con un rumore lieve che non faceva in tempo ad arrivare al suo orecchio che veniva risucchiato dal caos.

“Hai fame?”, gli domandò il fratello col sopracciglio alzato, con una nota di rimprovero, come se fosse impossibile avere fame anche in quel momento. Però era l’unico motivo che gli pareva plausibile per quel malumore improvviso e ingiustificato di Feliciano, lui che aveva sempre quel sorriso idiota sul volto in qualsiasi occasione, anche durante le battaglie più dure – era difficile capire se fosse un suo dono o fosse semplicemente un imbecille.

“Sì, un po’.”

Non aveva mai detto bugie a Romano – non le aveva mai dette a nessuno, ad onor del vero, erano inutili e pesanti, gli facevano male al cuore nel momento  stesso in cui uscivano dalle sue labbra: eppure in quel momento in particolare sentì il bisogno di farlo. Non voleva farlo preoccupare, in fondo si trattava solamente di una bugia bianca. In realtà neppure lui era ben consapevole del motivo per cui non riusciva ad essere allegro e frenetico come al solito. La sconfitta, forse? La sicurezza che, finito il Congresso, il suo destino sarebbe stato segnato da altri? – questo quel che era riuscito a percepire dalle chiacchiere mescolate fra loro. Le ferite che ancora bruciavano? Aveva i vestiti consunti, tanto quanto il fratello del sud, un occhio bendato e le mani scorticate. Eppure non era niente di tutto questo.

Un vuoto.

“Romano, non ti sembra manchi qualcosa?”

“Eh? Cosa stai dicendo? A me non manca nulla, quindi non manca nulla neppure a te.”

Il Nord prese quella risposta come l’unica possibile. Annuì e riabbassò il viso. Strinse le dita dell’altro più forte. Dammi un po’ di calore, dammi un po’ del Sole di Napoli, gli chiedeva, e la sua mano diventava più tiepida, a poco a poco.

Eppure non era vera la risposta del fratello, ne era sempre più certo ogni secondo che passava.

Sentiva quel vuoto espandersi a macchia d’olio; la sua anima era un foglio di carta e un fiammifero proprio in mezzo aveva cominciato a ferirlo, e prima che potesse battere le palpebre era tutto andato a fuoco – e ora, null’altro che cenere.

Il silenzio che c’era fra loro due era ancora più pesante e fastidioso di quell’urlare e farneticare; il corpo di Romano era come percorso da elettricità e non riusciva ad imporsi di rimanere fermo – i piedi che battevano, le labbra morse, le palpebre che non facevano altro che sbattere a ripetizione, senza posa

“Feliciano, per Dio, dì qualcosa.”, lo supplicò con tono marziale. Gli stava montando un’angoscia in petto talmente grande da essere inconfessabile, soprattutto per l’orgoglio che gli scorreva dentro come sangue.

“Eh?”, gli domandò, con un viso ed un tono che irritò tantissimo Romano.

“Sei proprio un idiota.”, gli fece spazientito, e sembrava dovesse andarsene: gli lasciò la mano, però subito la riprese - non lo fece, non lo abbandonò, perché anche per lui Feliciano era l’unica famiglia, e non poteva abbandonarlo assolutamente. Forse si sarebbe pentito di essere rimasto, ma non sarebbe mai stato peggio del macigno che avrebbe sentito nel lasciarlo lì, incredibilmente malinconico e giù. Nel fondo del suo cuore non stava desiderando altro che tornare a sentire quella sua risata stupida e quei suoi discorsi senza senso che, non lo avrebbe mai ammesso, lo mettevano tanto di buonumore.

Feliciano assorbì l’insulto come una spugna, senza rimbalzo.

I suoi occhi giravano frenetici ovunque, con le orecchie tentava di acchiappare brandelli di conversazioni, parole con cui cucirli assieme e comprendere qualcosa.

“Fratello, tu riesci a capire qualcosa?”

“So solo che siamo nella merda più completa.”

Romano vide Antonio sorridergli con quel calore che era tipico di entrambi, ma lo fece comunque rabbrividire nel profondo, perché la sua presenza in quel luogo non era certo un dato rassicurante.

Ho paura, ma fu un sussurro muto e impalpabile. Strinse ancora di più la mano di Feliciano, e quello gli appoggiò il mento sulla spalla, come a cercare quel calore agognato.

“Andrà tutto bene. Finché siamo insieme, andrà tutto bene.”

Era quasi straordinario come Feliciano riuscisse a dimenticare litigi e incomprensioni in quella sua ingenuità così… rassicurante.

Il silenzio all’improvviso, ed era così pesante che schiacciava loro le ossa – le potevano sentire scricchiolare, un tonfo rumoroso come una cascata.

Il sorriso di Spagna si illuminò sopra al volto del Sud Italia: glielo tirò su, con due dita sotto il mento. “Ven con migo, Romano.”, gli soffiò sugli occhi con un ghigno di sfida, un sorriso odioso. Gli disse, con le iridi illuminate, sei mio e non te ne andrai per secoli.

Le palpebre dell’italiano si spalancarono, la sua pelle divenne pallida, un cencio bianco. Era la fine  di una gloria illusoria e dalla patina dorata, la fine della libertà.

“No!”, gli urlò, ma lo spagnolo lo prese per un braccio, poi direttamente sulla spalla, come un sacco di patate. Ignorò le proteste, i pugni sulla schiena, le urla, ed uscì dalla villa in fretta e furia, come per impedire che quelle forze straordinarie che riuscivano a tenere a bada Romano svanissero da un momento all’altro.

Feliciano era rimasto da solo. Una disperazione completa, morbosa, soffocante lo penetrò a pieno, lo fece suo in un frammento di secondo. Sentì gli occhi pizzicare improvvisamente, ma si voltò verso il muro per evitare che gli altri lo vedessero – punta di orgoglio uscita chissà che, ma era come se non volesse che quel vuoto (una persona? Era Austria-san, o Ungheria-san? No, erano lì, non potevano essere loro perché, per quanto li avesse visti, la fiamma continuava a mangiarselo, imperterrita) lo vedesse piangere. Era come se non volesse fare brutta figura davanti a lui – anzi, no, era sicuro di averne fatte di peggiori; non voleva farlo preoccupare, forse era questo che non voleva. Tirò su col naso, strizzò gli occhi tre volte, poi tornò a guardare tra la folla.

Sentì i passi di qualcuno dirigersi verso di lui, la voce calma e fermissima di Roderich parlargli (Roderich che ora finalmente riusciva a vederlo come ragazzo, nonostante il viso dolce e ancora un po’ infantile, Roderich che trovava che fosse cresciuto bene e che immaginava sarebbe stato ancora bello averlo per casa): “Tu resti qua, Italia.”

Feliciano annuì debolmente, sorrise, cercando di non dimostrarsi troppo triste: sarebbe stato maleducato ed offensivo nei confronti di Ungheria-san e Austria-san, che nuovamente lo ospitavano.

Elizaveta lo salutò con dolcezza, gli prese una mano fra la sua, ne carezzò il dorso col pollice. “Sei contento, Ita-chan?”

Sì…”, rispose guardandola.

Ma ancora quel vuoto nel petto. Si strinse la maglia al livello del cuore; Ungheria lo guardò preoccupata. “Che succede, Ita-chan?”

Nulla… anzi, cioè, non lo so…”, rispose Italia, mentre non riusciva a fare a meno di guardarsi attorno.

Chi gli mancava?

Romano? Francia-niichan? Chi? Chi?

“Il Sacro Romano Impero è morto, dobbiamo decidere come smerciare i suoi brandelli.”

Capelli biondi. Bacio. “Ti amo fin dal nono secolo”. Il vento. Le lacrime, un saluto, l’eternità promessa.

Giuramenti infranti come mille specchi nel deserto.

Un tonfo violentò il silenzio assieme all’urlo acuto di Elizaveta.

Ita-chan?! Ita-chan, rispondimi!!”

 

Noticine ine ine: salveh! XD ordunque, la fic, credo si sia capito, è ambientata durante il Congresso di Vienna, 1804, durante il quale si decide un po’ del destino europeo; l’Italia va, al nord, agli Austriaci (non all’impero Austro-Ungarico, che si formerà nel 1867, ma ho adattato per Hetaliane ragioni XD) e al sud ai Borboni, sovrani spagnoli :3 il titolo significa “Buco nero”, in latino.

Ne approfitto per ringraziare tutti gli amati lettori/recensori/seguitori, vi amo tutti *w*<3

  
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