Se
ne stavano in fondo alla stanza, mano nella mano, i fianchi appiccicati uno
all'altro, le dita nascoste dietro la linea che le loro gambe creavano, la
schiena incollata al muro, troppa paura per fare un passo, loro troppo piccoli
in mezzo a nazioni così grandi, tanto imponenti che la loro costituzione già
sottile al loro confronto scompariva, inghiottita dall’angoscia e dalla
pesantezza dell’atmosfera terribile. Romano non faceva che guardarsi attorno,
gli occhi schizzavano di qua e di là, tentando di capire qualcosa in mezzo a
quella frenesia multicolore, quell'unica, gigantesca voce formata da tanti
piccoli campanellini che suonavano tutti nello stesso istante. Era
nervosissimo, la mascella contratta e le palpebre strette strette
a controllare ogni cosa, come un falco; stringeva più forte le dita di
Feliciano con cadenza irregolare, a volte sembrava volesse modellarle come
creta, muovendo le sue dita con le proprie, a volte stringeva con una tale
potenza che il Nord Italia era costretto a gemere.
“Scusa.”,
gli diceva quell’altro, brusco, quando succedeva, e Feliciano scuoteva la
testa, con un sorriso appena accennato sulle labbra pallide, come a dire Fa lo stesso, non preoccuparti.
In
fondo lì c’era tutta la sua famiglia, e la prima regola non scritta era
sostenersi a vicenda, quando si aveva lo stesso sangue. Non si sarebbe
lamentato, non quel giorno almeno.
La
villa di Austria-san e Ungheria-san
era proprio bella come se la ricordava Feliciano. Anche Austria-san
e Ungheria-san stessi erano proprio belli come se li
ricordava. Lei gli era accanto e poteva vedere, nei suoi occhi addolorati, quanto
volesse stringerlo fortissimo, tranquillizzarlo; poteva scorgere da chilometri
di distanza l’amore con cui lo guardava, la sua voglia di proteggerlo e
avvolgerlo col proprio colore, in modo che nulla lo ferisse, o tentasse di
farlo. Austria-san era un uomo orgoglioso, non
avrebbe permesso a nessuno di vederlo fragile tra le braccia e sui seni di lei;
ma, guardandolo bene, di nascosto dietro la schiena, si potevano vedere stringere le
loro dita strette fino allo spasmo, il tremore palese dei loro cuori che
tentavano di uccidere alla nascita quando cercava di manifestarsi nel corpo.
Le
urla e le grida di quanti avrebbero deciso il loro futuro, quello suo e di suo
fratello, gli facevano male alle orecchie, per quanto alto era il volume della
loro voce. La loro rabbia serpeggiava tra le teste di tutti i presenti, si
infiltrava nei loro crani per distruggerli da dentro, tanto era il male che
provocavano.
"Non
possiamo lasciare la Francia da sola - non possiamo riammetterla - eppure è lo
Stato più colpito! - Ah, ma allora dobbiamo circondarla! – Che non le sia più
permesso di fare i suoi porci comodi! – Non possiamo permetterci di abbassare
la guardia, o tornerà tutto come prima. La nostra priorità deve essere
proteggere l’Europa."
"Francia-niichan...?"
Feliciano
alzò il capo, ma in mezzo a quel caos non riuscì a distinguere i capelli biondi
del fratellone. Riabbassò la testa, tornando a fissarsi i piedi. Aveva
immaginato di trovarlo in un qualche angolo della stanza, ferito ancora peggio,
con le labbra serrate perché non si sarebbe permesso di emettere un fiato, una
lamentela – le lacrime dovevano seccarsi immediatamente nei suoi occhi, non
potevano bagnargli le guance. La sconfitta, il dolore della perdita, le
speranze davvero riposte in un uomo solo che avrebbe dovuto dargli una nuova
vita.
Italia
muoveva le punte polverose delle scarpe ogni tanto, strisciandole sul pavimento
lustro con un rumore lieve che non faceva in tempo ad arrivare al suo orecchio
che veniva risucchiato dal caos.
“Hai
fame?”, gli domandò il fratello col sopracciglio alzato, con una nota di
rimprovero, come se fosse impossibile avere fame anche in quel momento. Però
era l’unico motivo che gli pareva plausibile per quel malumore improvviso e
ingiustificato di Feliciano, lui che aveva sempre quel sorriso idiota sul volto
in qualsiasi occasione, anche durante le battaglie più dure – era difficile
capire se fosse un suo dono o fosse semplicemente un imbecille.
“Sì,
un po’.”
Non
aveva mai detto bugie a Romano – non le aveva mai dette a nessuno, ad onor del
vero, erano inutili e pesanti, gli facevano male al cuore nel momento stesso in cui uscivano dalle sue labbra:
eppure in quel momento in particolare sentì il bisogno di farlo. Non voleva
farlo preoccupare, in fondo si trattava solamente di una bugia bianca. In
realtà neppure lui era ben consapevole del motivo per cui non riusciva ad
essere allegro e frenetico come al solito. La sconfitta, forse? La sicurezza
che, finito il Congresso, il suo destino sarebbe stato segnato da altri? –
questo quel che era riuscito a percepire dalle chiacchiere mescolate fra loro.
Le ferite che ancora bruciavano? Aveva i vestiti consunti, tanto quanto il
fratello del sud, un occhio bendato e le mani scorticate. Eppure non era niente
di tutto questo.
Un vuoto.
“Romano,
non ti sembra manchi qualcosa?”
“Eh?
Cosa stai dicendo? A me non manca nulla, quindi non manca nulla neppure a te.”
Il
Nord prese quella risposta come l’unica possibile. Annuì e riabbassò il viso.
Strinse le dita dell’altro più forte. Dammi
un po’ di calore, dammi un po’ del Sole di Napoli, gli chiedeva, e la sua
mano diventava più tiepida, a poco a poco.
Eppure
non era vera la risposta del fratello, ne era sempre più certo ogni secondo che
passava.
Sentiva
quel vuoto espandersi a macchia d’olio; la sua anima era un foglio di carta e
un fiammifero proprio in mezzo aveva cominciato a ferirlo, e prima che potesse
battere le palpebre era tutto andato a fuoco – e ora, null’altro che cenere.
Il
silenzio che c’era fra loro due era ancora più pesante e fastidioso di quell’urlare
e farneticare; il corpo di Romano era come percorso da elettricità e non
riusciva ad imporsi di rimanere fermo – i piedi che battevano, le labbra morse,
le palpebre che non facevano altro che sbattere a ripetizione, senza posa
“Feliciano,
per Dio, dì qualcosa.”, lo supplicò con tono marziale. Gli stava montando
un’angoscia in petto talmente grande da essere inconfessabile, soprattutto per
l’orgoglio che gli scorreva dentro come sangue.
“Eh?”,
gli domandò, con un viso ed un tono che irritò tantissimo Romano.
“Sei
proprio un idiota.”, gli fece spazientito, e sembrava dovesse andarsene: gli
lasciò la mano, però subito la riprese - non lo fece, non lo abbandonò, perché
anche per lui Feliciano era l’unica famiglia, e non poteva abbandonarlo
assolutamente. Forse si sarebbe pentito di essere rimasto, ma non sarebbe mai
stato peggio del macigno che avrebbe sentito nel lasciarlo lì, incredibilmente malinconico
e giù. Nel fondo del suo cuore non stava desiderando altro che tornare a
sentire quella sua risata stupida e quei suoi discorsi senza senso che, non lo
avrebbe mai ammesso, lo mettevano tanto di buonumore.
Feliciano
assorbì l’insulto come una spugna, senza rimbalzo.
I
suoi occhi giravano frenetici ovunque, con le orecchie tentava di acchiappare brandelli
di conversazioni, parole con cui cucirli assieme e comprendere qualcosa.
“Fratello,
tu riesci a capire qualcosa?”
“So
solo che siamo nella merda più completa.”
Romano
vide Antonio sorridergli con quel calore che era tipico di entrambi, ma lo fece
comunque rabbrividire nel profondo, perché la sua presenza in quel luogo non
era certo un dato rassicurante.
Ho paura, ma
fu un sussurro muto e impalpabile. Strinse ancora di più la mano di Feliciano,
e quello gli appoggiò il mento sulla spalla, come a cercare quel calore
agognato.
“Andrà
tutto bene. Finché siamo insieme, andrà tutto bene.”
Era
quasi straordinario come Feliciano riuscisse a dimenticare litigi e
incomprensioni in quella sua ingenuità così…
rassicurante.
Il
silenzio all’improvviso, ed era così pesante che schiacciava loro le ossa – le potevano
sentire scricchiolare, un tonfo rumoroso come una cascata.
Il
sorriso di Spagna si illuminò sopra al volto del Sud Italia: glielo tirò su,
con due dita sotto il mento. “Ven con migo, Romano.”, gli soffiò sugli occhi con un ghigno di
sfida, un sorriso odioso. Gli disse, con le iridi illuminate, sei mio e non te ne andrai per secoli.
Le
palpebre dell’italiano si spalancarono, la sua pelle divenne pallida, un cencio
bianco. Era la fine di una gloria
illusoria e dalla patina dorata, la fine della libertà.
“No!”,
gli urlò, ma lo spagnolo lo prese per un braccio, poi direttamente sulla
spalla, come un sacco di patate. Ignorò le proteste, i pugni sulla schiena, le
urla, ed uscì dalla villa in fretta e furia, come per impedire che quelle forze
straordinarie che riuscivano a tenere a bada Romano svanissero da un momento
all’altro.
Feliciano
era rimasto da solo. Una disperazione completa, morbosa, soffocante lo penetrò
a pieno, lo fece suo in un frammento di secondo. Sentì gli occhi pizzicare
improvvisamente, ma si voltò verso il muro per evitare che gli altri lo
vedessero – punta di orgoglio uscita chissà che, ma era come se non volesse che
quel vuoto (una persona? Era Austria-san, o Ungheria-san? No,
erano lì, non potevano essere loro perché, per quanto li avesse visti, la
fiamma continuava a mangiarselo, imperterrita) lo vedesse piangere. Era come se
non volesse fare brutta figura davanti a lui – anzi, no, era sicuro di averne
fatte di peggiori; non voleva farlo preoccupare, forse era questo che non
voleva. Tirò su col naso, strizzò gli occhi tre volte, poi tornò a guardare tra
la folla.
Sentì
i passi di qualcuno dirigersi verso di lui, la voce calma e fermissima di Roderich parlargli (Roderich che
ora finalmente riusciva a vederlo come ragazzo, nonostante il viso dolce e
ancora un po’ infantile, Roderich che trovava che
fosse cresciuto bene e che immaginava sarebbe stato ancora bello averlo per
casa): “Tu resti qua, Italia.”
Feliciano
annuì debolmente, sorrise, cercando di non dimostrarsi troppo triste: sarebbe
stato maleducato ed offensivo nei confronti di Ungheria-san
e Austria-san, che nuovamente lo ospitavano.
Elizaveta lo
salutò con dolcezza, gli prese una mano fra la sua, ne carezzò il dorso col
pollice. “Sei contento, Ita-chan?”
“Sì…”, rispose guardandola.
Ma
ancora quel vuoto nel petto. Si strinse la maglia al livello del cuore;
Ungheria lo guardò preoccupata. “Che succede, Ita-chan?”
“Nulla… anzi, cioè, non lo so…”,
rispose Italia, mentre non riusciva a fare a meno di guardarsi attorno.
Chi
gli mancava?
Romano?
Francia-niichan? Chi? Chi?
“Il
Sacro Romano Impero è morto, dobbiamo decidere come smerciare i suoi brandelli.”
Capelli biondi. Bacio. “Ti amo fin dal
nono secolo”. Il vento. Le lacrime, un saluto, l’eternità promessa.
Giuramenti infranti come mille specchi
nel deserto.
Un
tonfo violentò il silenzio assieme all’urlo acuto di Elizaveta.
“Ita-chan?! Ita-chan, rispondimi!!”
Noticine ine ine: salveh! XD ordunque, la fic, credo si sia
capito, è ambientata durante il Congresso di Vienna, 1804, durante il quale si
decide un po’ del destino europeo; l’Italia va, al nord, agli Austriaci (non
all’impero Austro-Ungarico, che si formerà nel 1867, ma ho adattato per Hetaliane ragioni XD) e al sud ai Borboni,
sovrani spagnoli :3 il titolo significa “Buco nero”, in latino.
Ne
approfitto per ringraziare tutti gli amati lettori/recensori/seguitori, vi amo tutti *w*<3