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Autore: Blackbutterfly1994    17/04/2010    1 recensioni
Se il mondo è cieco, e crolla nella pazzia più totale... chi pagherà le sue colpe?
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La follia del mondo

Questo è un testo che ho sottoposto al giudizio di una persona con cui sto svolgendo un progetto scolastico. Tuttavia, mi piaceva troppo per lasciarlo a languire nel pc, così ho deciso di pubblicarlo. Commentate, anche le critiche costruttive verranno accettate!

Buona lettura,

ed un ringraziamento speciale a S. Maretti, il quale ha gentilmente accettato di spendere un po’ del suo tempo per leggere questa storia!

 

La follia del mondo.

 

Il vuoto, sotto di me, pare quasi chiamarmi con voce sottile e cantilenante.

Tante volte, nella mia vita, ho scelto di non darle ascolto, di precludere dalla mia mente questa litania sensuale e ammaliante che mi martellava in continuazione, soprattutto nelle notti più silenziose, quelle in cui potevo avvertire distintamente l’arrancare del mio cuore; ma ora non trovo più il motivo di farlo. Perché scegliere di non sentire? Perché rinnegarsi una volta ancora?

Mi trovo su questa terrazza, il vento danza stancamente con i miei capelli, lambisce la mia pelle in una carezza che sa di dolore e sofferenza.

Il paesaggio davanti a me si stende regale e bellissimo, forse leggermente inquietante; tuttavia sono sempre stato convinto che il buio e il niente portassero in seno un fascino particolare, un’attrattiva speciale, una dolcezza di miele.

Rabbrividisco. Posso avvertire mani che corrono, viscide, sulle mie braccia, quasi spingendomi verso questo dirupo dall’aria così tristemente confortante.

I miei occhi, persi in un punto imprecisato del lontano orizzonte, vedono tutto e non osservano niente: sono gli occhi di un cieco. Sono gli occhi di un morto.

Perché se sei un fantasma, nessuno crede in te; perché se nessuno crede in te, nessuno ti vede. E se nessuno ti vede, tu non esisti.

Tante volte ho desiderato piangere: mai mi sono sciolto in un consolante pianto.

Tante volte ho desiderato urlare: mai un grido liberatorio è scivolato dalle mie labbra fredde.

Forse hanno ragione tutti loro. Forse sono davvero malato come dicono.

Piego impercettibilmente il capo: cosa c’è di perverso nell’amore? Quale Dio sprezzante decide qual è l’affetto più consono? Chi si arroga il diritto di discriminare il “giusto” dallo “sbagliato”?

Mi piacerebbe riuscire a formulare questi pensieri con la rabbia che, fino a qualche anno fa, mi contraddistingueva: significherebbe che sono vivo, che ho ancora la forza di reagire, di combattere. Ma queste riflessioni, le ultime, si manifestano come un debole sussurro ai limiti della mia coscienza troppo stanca per infiammarsi a causa di ideali che sento ormai lontani, remoti, estranei.

Nelle lunghe notti di solitudine ho pregato tanto quel Dio a cui ormai non credo più, l’ho implorato di portarmi via, l’ho supplicato di far rinsavire il mondo.

Nessuno è mai giunto. Nessun angelo, impietosito, mi ha salvato.

Solo il buio ha continuato ad essermi abituale compagno di vita, silenzioso spettatore del mio lento avvizzimento.

E adesso, adesso che tutto mi si sta chiudendo addosso, schiacciandomi col suo peso immane, tutto ciò che mi rimane sono i ricordi, forse i principali colpevoli di questa mia progressiva follia. Occupato a consumarmi nella dolcezza di un passato che non tornerà, ho perso il ritmo del tempo, ho mancato il treno del futuro.

Chiudo appena gli occhi e immediatamente visualizzo il tuo volto: non ho mai scordato i tuoi tratti, benché le nostre vite si siano incrociate per un tempo troppo breve, per un istante troppo fuggente, così effimero da impedirmi di coglierlo davvero. Anche il suono della tua voce mi riecheggia nelle orecchie, torturandomi in un modo così dolce che la mia anima sembra quasi addormentarsi, cullata da questo dolore così familiare.

 

Ricordo ancora il giorno in cui ti ho conosciuto: era un’estate troppo calda anche per noi isolani, abituati a temperature che spesso superano i trenta gradi. Mi sembrava che la mia pelle si stesse sciogliendo in quel bacio di fuoco col Sole. Camminavo placidamente lungo strade che conoscevo come le mie tasche, per vie che mi avevano quasi svezzato, cullando i miei giochi di bambino e accarezzando la mia anima di tormentato adolescente.

La mia vita era così spensierata che ancora adesso mi chiedo se ciò che successe dopo non sia stato solo il prezzo da pagare per aver vissuto quello stralcio di vita troppo dolce. Non lo saprò mai.

Mentre riposavo sotto un uliveto che aveva tante volte raccolto i miei pianti angosciati, osservavo con tranquillità il paesaggio intorno a me: la stradina polverosa pareva sorridermi, gli alberi che mi circondavano mi abbracciavano con i loro rami in una stretta protettiva e familiare.

Improvvisamente sentii un rumore assordante provenire da un luogo imprecisato vicino a me. Allarmato, scattai in piedi, ancora più spaventato dal silenzio di morte succeduto al tonfo sordo. Chiamai a gran voce, ma nessuno mi rispose. Sempre più preoccupato, continuai ad aggirarmi nella campagna, fino a che, davanti a me, vidi la sagoma di una bicicletta. Mi avvicinai in fretta e notai, poco distante, un corpo incosciente. Sbarrai appena gli occhi quindi corsi a vedere se si trattava di qualcosa di grave. Ti presi il polso e, con mio enorme sollievo, constatai che batteva ancora regolarmente. Ti sollevai in braccio e tornai sui miei passi.

Quando la sagoma della mia casa si stagliò all’orizzonte, mi venne subito incontro mia madre, una prosperosa donna dalla carnagione olivastra e dei crespi riccioli neri.

- Sasà, ma che hai fatto? – fece, spaventata, non appena vide il mio carico.

- E’ caduto, mà, e ha sbattuto contro un ulivo vicino a me. E’ solo svenuto, sta bene –

Mia madre si avvicinò, guardando a occhi stretti il tuo nordico viso pallido – Non è di qua, questo. Non l’ho mai visto in paese. I forestieri portano guai, Sasà –

- E che dovevo fare? Lasciarlo là? – replicai, leggermente infastidito.

Lei scelse di non rispondermi, agitando una mano come a dirmi di lasciar perdere – Portalo di là e stendilo sul divano –

Eseguii, quindi attesi con calma che ti risvegliassi. Mentre il tuo respiro regolare riempiva il silenzio della stanza, ti osservai attentamente: effettivamente, non ci voleva molto a capire che non eri del posto. La tua pelle era troppo chiara per essere quella di qualcuno che ha costantemente vissuto sotto i raggi di un sole inclemente come il nostro.

Due ore dopo, quando riapristi gli occhi, ebbi un’ulteriore conferma della tua estraneità alla calda Sicilia: le iridi erano di un profondo verde chiarissimo, occhi che avevo avuto il piacere di rimirare un numero di volte che si poteva contare sulle dita di una mano.

Sbattesti velocemente le palpebre, confuso, quindi paresti mettermi a fuoco definitivamente. Ti rivolsi un caldo sorriso.

- Sta bene, signore? – chiesi, dandoti del Lei nonostante avessi constatato dovessi avere all’incirca la mia età.

- Ma dove sono? – farfugliasti con voce stentata.

- E’ a casa mia. Ha avuto un brutto incidente con la sua bicicletta – non potei fare a meno di ridere nonostante mi rendessi conto che forse non era il massimo dell’educazione, soprattutto viste le condizioni in cui versavi – Si è praticamente piantato in mezzo ad un ulivo. Menomale che l’ho sentita, altrimenti rischiava di morire asfissiato da questo caldo –

Anche tu sorridesti – Sono proprio un impiastro – ti fermasti un attimo, quindi mi tendesti la mano – Ma non darmi del Lei: io sono Gabriele. E tu? –

- Salvatore, ma chiamami pure Sasà –

 

E’ così che è iniziato tutto: con un banale incidente dovuto alla tua poca dimestichezza con la bicicletta. Più tardi mi rivelasti di trovarti in Sicilia per un soggiorno e io mi scoprii stranamente contento di sapere che saresti rimasto ancora per un po’.

Da lì, secondo gli altri, tutto è precipitato.

Da lì, secondo noi, tutto è cominciato.

Te lo ricordi il nostro primo bacio? Io perfettamente.

Eravamo entrambi spaventati, perché sono gli anni ’50 e anche solo la parola “omosessualità” fa terribilmente paura.

Quante volte abbiamo respinto i nostri sentimenti, convinti che fosse tutto un gigantesco errore? Quante volte abbiamo provato a non cercarci più, impauriti da qualcosa che non riuscivamo a comprendere esattamente?

Lo sento ancora dentro, il terrore di essere diversi; avverto sulla pelle gli sguardi indagatori che ci lanciavano; custodisco dentro il cuore il tremito delle tue mani la notte in cui il nostro amore è scoppiato, violento e improvviso, stanco di sottostare a restrizioni sociali che ci facevano morire lentamente, ma che non riuscivamo a lasciarci alle spalle.

E ricordo anche le tue urla disperate quando ti hanno strappato via da me, le tue lacrime mentre ti picchiavano a sangue, il tonfo che sanciva la fine.

La mia anima evoca fin troppo perfettamente l’angoscia enorme e il disperato senso di impotenza che mi hanno sommerso nel vederli massacrarti senza riuscire a difenderti, la viscosità del tuo sangue sotto le dita quando mi hanno infine lasciato, sputandomi addosso offese impronunciabili mentre le loro labbra si tendevano in risate soddisfatte.

Strizzo gli occhi: non voglio ricordare, ma la mia mente si è ormai spalancata e so che non posso fare più nulla per fermarla, non adesso che il meccanismo si è avviato.

E dopotutto, trovo giusto rimembrare ogni cosa, un attimo prima della fine.

Quando sono venuti a prendermi per rinchiudermi in questo manicomio, in cui vivo da dieci anni ormai, mi hanno trovato accasciato su di te, gli occhi vacui, le labbra esangui. Non ho opposto alcuna resistenza, ero troppo sconvolto, troppo distrutto per poter fare qualcosa.

Da quando sono qui, il mondo lì fuori è diventato un riflesso sfocato: non sono nemmeno più certo che esista davvero, un universo al di là di queste mura.

E’ qui dentro che sono davvero impazzito. Lentamente ma inesorabilmente, un pezzo del mio cuore si sgretola ogni giorno.

La luce che passa attraverso le finestre piccole e sporche della mia stanza è pallida, fredda, niente a che vedere con quella delle estati dei miei ricordi.

Non me lo ricordo neanche più, il tocco del sole sulla pelle: anche adesso il cielo è grigio, plumbeo. Non avrò redenzione fino alla fine: questo pare urlarmi.

Un solo respiro stentato passa tra le mie labbra.

Mi sembra una cosa straordinaria anche solo riuscire a pensare dopo tutto questo tempo, questi anni in cui mi sembra di essere stato in apnea, costretto sotto metri cubi di acqua gelata che mi hanno paralizzato il cuore e l’anima.

Faticosamente, mi arrampico sulla ringhiera arrugginita e cigolante; non so come ho fatto a sfuggire alle guardie che controllano sempre questa piccola terrazza sullo strapiombo, ma nemmeno questo distratto pensiero riesce più ad accendere la mia coscienza, violata troppe volte da gente troppo rude.

Guardo per un ultima volta il dirupo che si allarga, confortante, sotto di me.

Non ti dirò di aspettarmi. Non credo ci rincontreremo mai; non credo nemmeno che tu possa sentirmi, mentre ti dedico questi miei ultimi pensieri.

Sono convinto che ogni persona, quando muore, semplicemente scompaia, ritorni polvere.

Non è con la speranza di ritrovarti che adesso sto saltando nel vuoto.

Abbraccio di slancio la Morte con il desiderio di perdermi in quella stessa via in cui mi sei scivolato dalle dita.

 

   
 
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