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Autore: JackoSaint    23/04/2010    2 recensioni
Il Saint dello Scorpione non riesce proprio a darsi pace dopo la morte del suo angelo Camus... in questa fic rivivremo insieme a lui alcuni importanti eventi che hanno segnato la loro romanticissima storia. (Scritta da: Giorgia)
Genere: Romantico, Triste, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Aquarius Camus, Scorpion Milo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ricordi che fanno male

Ricordi che fanno male.

I Bronze alle Dodici Case hanno tolto la vita ad alcuni Cavalieri d’Oro, tra cui anche a Camus dell’Acquario. Milo dello Scorpione non riesce ad accettare la sua morte.

 

R

iusciva pure a specchiarsi nella lucidità del pavimento dell’undicesima casa: sembrava così linda, silenziosa, inconcepibilmente intima. Milo riusciva a sentire solo il suo respiro, lì dentro.

Sapeva cosa mancava a riempire quella casa così fredda: il suo cosmo.

Osservando quelle pareti, quelle colonne, quelle fontanelle, nella sua mente riaffiorarono ricordi che non ripescava più da molto tempo.

Chiuse gli occhi, ed ecco che magicamente gli sembrò di essere tornato indietro negli anni, precisamente di quindici anni: ciononostante, riusciva a percepire le stesse sensazioni che aveva provato…

 

- Aiolia!, Aiolia!, a me! – gridava il piccolo Milo, ma Aiolia non sembrava minimamente interessato a lanciargli la palla. – Aiolia!, Aiolia!, sono q!... – Non fece in tempo a finire la frase, perché inciampò e cadde rovinosamente a terra sporcandosi di terra gli abiti e le belle guance rossiccie.

Gli altri bambini si girarono.

Il nuovo arrivato (un certo Deathmask, un tipo assolutamente antipatico) iniziò a ridere a crepapelle, così fecero anche Shura ed Aiolia, mentre Saga, che era il più grande del gruppo, corse verso di lui per vedere come stava.

Il piccolo Milo si mise a sedere tutto sporco e sconsolato, tirò su col naso ed aspettò che Saga lo tirasse in piedi.

- Tutto a posto Milo? - .

- Certo – fu la risposta.

Si avvicinò anche Aiolia, con in mano il pallone. – Ah, sei inciampato da solo! Non sai camminare! – iniziò a dire, e Milo si sentì montare di rabbia. Cercò di non darlo a vedere, però, e si gettò addosso all’amico facendolo cadere a terra ed iniziando a mordicchiargli il collo ed a fargli il solletico: iniziò così una breve zuffa amichevole tra i bambini, che finì con l’arrivo del fratello di Aiolia.

- Fratellone! – strillò subito Aiolia, e gli si aggrappò alla vita.

Aiolos sembrava vagamente sconcertato dal gioco a cui stavano giocando i bambini. – Che stavate facendo? - .

- Giocando! Viene anche tu? - .

- No – Restò un momento zitto, poi riunì attorno a sé tutto il gruppetto di bambini. Ed ecco che poi, guardando amorevolemente tutti, trasse a sé un grazioso bambino che si nascondeva dietro le sue gambe. – Lui si chiama Camus – disse, - ed è venuto per diventare Cavaliere, come voi - .

Si vedeva che il piccolo Camus era molto timido: si mordicchiava il pollice sinistro e faticava a tener ferme le gambe, che tremavano.

- Da dove vieni? – chiese il piccolo Shura.

- Già, da dove vieni? – si aggiunse Aiolia.

- Eh? Eh? – disse anche Mur.

Camus non rispondeva: sembrava parallizzato. Tutta quella gente, quelle domande! Basta, voleva proprio andarsene in un posto tranquillo!

Fu Aiolos a rispondere per lui. – Ha origini francesi ma è cresciuto in Siberia. Ehi, piccolo, vuoi giocare con loro? - .

Camus negò istintivamente col capo e Milo gli si avvicinò con rapidità fulminea. Potete immaginare la reazione di Camus appena il bambino gli si aggrappò al collo, tutto scorco e sudato!

- Camus!, Camus!, io...! io sono!... - .

Camus prendendolo per i capelli lo allontanò con un forte strattone ed il povero Milo cadde di nuovo a terra.

Risate generali.

- Ehi Camus, piano, piano! – lo ammonì severamente Saga, ed il bambino si fece di nuovo piccolo piccolo. – Non ci si comporta così! Non!... - ...

 

Milo, nella silenziosità della casa, si lasciò sfuggire un piccolo risolino. Si risparmiò di ricordare la predica che aveva dovuto subire il povero Camus e la sua delusione quando aveva provato ad abbracciarlo. Insomma, sono cose che capitano, giusto?

Ormai girava da più di due ore in quella casa vuota e così magica. Il rumore dei tacchi, il fruscio del mantello... o, che stanza piena di ricordi quella: le pareti alte e spoglie lo avevano sempre fatto sentire piccolo ed insignificante: ma non era quello il punto saliente. Una miriade di pensieri lo raggiunse con estrema velocità. Si sedette quindi su quello stesso divano...

 

Il Cavaliere d’Oro dell’Acquario accompagnò i ragazzi alla successiva statua. Milo odiava visite d’istruzione di quel genere, quindi prese Camus per un braccio e lo accompagnò fuori dalla calca degli studenti. - Camus, sediamoci qui – Lo costrinse a sedersi su un piccolo divano, quasi spingendolo di fianco a lui.

- Milo, ma io voglio andare più vicino. Da qui non si riescono a cogliere gli aspetti salienti della statua - .

- Fa niente - .

Si guardarono un momento. Due ragazzi così diversi, dodici anni alle spalle.

- Come fa niente? A me interessa! – Camus fece per alzarsi ma Milo lo trattenne per un braccio e lo fece crollare sulle sue ginocchia.

Milo lo fulminò con i suoi occhi incredibilmente blu. - No, tu non vai da nessuna parte – gli disse.

Camus, allora, dopo aver studiato la situazione, si riaccomodò di fianco a lui ed accavallando le gambe riprese a prendere appunti.

Il Cavaliere dell’Acquario spiegava, i ragazzi ascoltavano, Milo invece lanciava occhiate ammiccanti e rapide a Camus: quello sguardo sempre serio, quella schiena sempre dritta, quegli occhi così freddi ed inespressivi. Insomma, più lo guardava e più si meravigliava del suo fascino. Allora, senza dare nell’occhio, si spostò leggermente fino ad appiccicarsi al suo fianco. Camus non si mosse.

Insomma, come fa a preferire quella stupida statua a me?, si chiedeva nervosamente Milo. No, non è possibile! Devo distrarlo! Si avventò allora a cingergli lentamente il bacino con il braccio destro, ma niente: l’unica reazione di Camus fu infatti quella di chiudere per alcuni secondi gli occhi. Poi riprese a scrivere.

Camus, Camus, perché mi ignori così crudelmente? Fece scorrere la mano, che già stava ad abbracciare il suo bacino, fino a stuzzicare la cintura. Niente. Provò ad insinuarsi con essa sotto la maglietta, sempre scendendo più in giù, più in giù... Finalmente Camus scattò, si bloccò con la schiena drittissima e poi si alzò velocemente in piedi, innervosito.

Nessuno aveva notato.

- Milo! – lo riprese a bassa voce, stizzito. – Fai il buono per un po’. Proprio non riesci a non toccarmi, vero? - .

- No. La tua pelle è morbidissima – fu la semplice risposta di Milo, - e mi piace vederti arrabbiato - .

Quell’ultima precisazione aveva inseverito di colpo Camus. Senza dir nulla poi, dopo averlo guardato un momento, se ne andò girando sui tacchi e raggiungendo il gruppo, che si apprestava ad accalcarsi intorno ad un’altra statua.

Milo non lo seguì. Insomma, come avrebbe potuto? Quella camminata, quei capelli... poteva sentire pure la scia di profumo che Camus si era lasciato dietro.

 

Già, era rimasto lì a contemplarlo mentre si allontanava: come si era sentito? In catene, completamente posseduto da quel sentimento che gli stava crescendo dentro. Più i giorni passavano, più esso lo imprigionava e non gli permetteva di esprimersi: era un peso maledettamente opprimente, insostenibile. Eppure Camus sembrava non capire ciò, oppure lo ignorava: era quello di sempre, ecco tutto.

Milo ricordava benissimo che il suo comportamento aveva iniziato a dargli sui nervi, proprio perché sembrava disinteressarsi a lui: aveva paura di perderlo e di non riuscire a raggiungerlo più, e questa era la pura e semplice verità. Volle diglielo, un giorno.

Milo non aveva dimenticato il primo bacio e il calore che Camus gli aveva infuso nel cuore. Allora, ancora seduto sul divano, incominciò a ripercorrere quei pensieri...

 

Avevano quattordici anni.

Milo era diventato un ragazzo alto e robusto ma soprattutto fiero e sicuro di sé; Camus anche, solo che il suo corpo era rimasto più snello e leggero di quello dell’amico. Era sempre nella sua stanza a studiare e quindi non passava tutto il giorno ad allenarsi.

Infatti Milo, appena tornato da un giro nel bosco, lo trovò appoggiato alla finestra spalancata con il naso ficcato in un pesante libro di biologia.

- Camus? – lo chiamò, e quello alzò lo sguardo fermo e freddo.

- Milo? - .

- Ma sei ancora a studiare? - .

- E che dovrei fare? - .

- Allenarti - .

- Ma mi sto allenando, non vedi? - .

Milo alzò piano gli occhi al soffitto: quella, infatti, era la solita risposta che gli dava.

Fuori il tramonto infuocava i promontori ed il Mar Mediterraneo. Che spettacolo stupefacente!

- Usciamo a fare due passi? – chiese allora Milo all’amico. – Il tempo è perfetto - .

- Uhm – .

Silenzio: Camus aveva occhi solo per il libro.

- Camus? - .

- Che c’è? – scattò infastidito Camus. – Non vedi che sto studiando? - .

Milo iniziava proprio a non sopportarlo più: perché era così brusco con lui? Cercò di immagazzinare la rabbia che gli stava fondendo il cervello, e per non dare a vedere che si stava mettendo anche a piangere si voltò in modo che Camus non potesse vederlo in volto.

Quest’ultimo non sembrò incuriosito dalla sua reazione.

Ci furono alcuni secondi di silenzio.

Milo, infine, deciso a fare qualcosa per non prolungare quell’imbarazzante silenzio, si tolse la giacca e la buttò sul letto di Camus.

Camus non si mosse: anzi, continuò come se niente fosse a studiare.

Basta, Milo non si poteva più trattenere. Respirò a fondo, non cercò nemmeno di fare un punto della situazione e scattò da Camus chiudendogli il libro in faccia e gettandolo a terra. Poi, prima che Camus potesse ribattere, lo afferrò ai polsi con tanta ferocia che l’amico strinse i denti e trattenne un gemito di dolore.

- Camus! – gli disse, strizzando ad intervalli gli occhi blu lucidi di lacrime. – Tu! Tu non capisci! – E così, senza neanche pensare, lo strattonò tenendolo ancora più fermo al balconcino della finestra.

Camus strizzò forte gli occhi. - Milo... Milo, lasciami! – riuscì a dire, ma prima che si potesse liberare l’amico, che era di gran lunga più robusto di lui, lo buttò senza tanti complimenti sul letto raggiungendolo poi subito dopo: ora era sopra di lui, lo teneva ancora fortemente per i polsi ed amare lacrime gli bagnavano il viso tutto abbronzato.

Camus provò paura e si sentì in trappola. Cercò di nuovo di allontanarlo, ma la presa di Milo era potente e a nulla servivano i suoi sforzi.

- Milo, Milo, che!... - .

- Io!... – balbettava Milo. – Tutti questi anni, solo ora capisco!... capisco!... – Il groppo alla gola non gli permetteva di parlare, si sentiva soffocato: doveva dirglielo, non poteva tenerlo ancora dentro...

- Milo, mi fai male! Milo, stringi t...! – .

Milo, tra le lacrime e guidato solo dalla forza della disperazione, accostò il suo viso a quello dell’amico e lo baciò come meglio gli usciva in quel momento.

Tutto si zittì.

Camus sentì i muscoli distendersi, e Milo gli lasciò lentamente la presa ai polsi: stava ancora piangendo ed il suo petto sussultava. Ma non smetteva di baciarlo, sembrava praticamente incapacitato di scostarsi da quelle labbra così fredde e morbide.

Quando lo fece, sembrava ancora più triste ed aveva gli occhi rossi per il pianto: Camus non lo aveva mai visto in quello stato.

- Perché... – chiedeva Milo, - perché mi eviti, Camus? La tua freddezza... mi... mi fa male io... sei mio amico... – Le sue parole erano disarticolate e venivano pronunciate con tale amarezza che Camus iniziava a pentirsi d’aver fatto soffrire così tanto il suo amico. - ... più cresciamo... più... mi eviti... siamo amici... ti voglio bene, Camus! – Milo ora gli si era gettato al collo e piangeva disperatamente. E, per la prima volta in tutti quegli anni, Camus ricambiò a pieno l’abbraccio ricoprendolo di baci e di carezze per tranquillizzarlo: era così bella la sua presenza...

 

Si sentì prendere per le spalle, non sapeva quello che stava facendo ma quando aprì gli occhi scoprì che erano intrisi di lacrime e che stavano fissando il pavimento: lui stesso era inginocchiato a terra e non riusciva a tirarsi in piedi. E c’era qualcuno davanti a lui, piegato sulle ginocchia a tenergli saldamente la spalle.

- Milo, avanti – sentiva, e riconobbe la voce. Era la voce di un amico, di un amico che, anche se diversamente da Camus, mai lo aveva lasciato solo.

-  Mur... Mur, io... - .

- è tutto a posto, ora calmati – Mur lo abbracciò fraternamente massaggiandogli ripetutalmente la schiena e la spalle: sentiva come tremava, come i suoi ricordi si presentavano violentemente alla sua mente.

- Non... non ci riesco... io... perdonami... - .

- No, ce la fai – diceva Mur. Lo tirò in piedi, proprio come Saga aveva fatto in quel lontano pomeriggio d’agosto; e nessuno sa quanti minuti passarono prima che Milo si calmò e si decise a lasciare l’undicesima casa.

 

   
 
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