deciso di scrivere questa fic influenzata dalle storie che mia nonna mi
raccontava a proposito dello sbarco dei soldati americani in Sicilia. E
anche grazie alla fic "del poco, del niente e dell'illusione" di
renge_no_han, che tratta anche di questo tema. E grazie anche ad una
ragazza sul web, che ha detto "la coppia AlfredXLovino è
canonissima ma non se la caga nessuno". Ovunque tu sia, mi sei stata di
grande aiuto
“A
ginucchiune cugghiennu
cuttune, essennu cu’ tìa cuttune
cugghìa…”
Lovino
ripensava a quel detto popolare, quello scioglilingua che sua madre gli
ripeteva sempre nei momenti di tristezza e di noia per mettergli
allegria, per
stuzzicare la sua mente, impegnandolo così a non pensare
alla loro misera cena.
Qualcosa che non fossero cipolle, le bucce di patate o u
pani ri avantere inzuppato nel latte. Era buffo, si ritrovava
nella stessa situazione. In ginocchio, con la terra che gli sporcava
gli orli
degli sdruciti
pantaloncini e gli
pizzicava le ginocchia sbucciate, sudato, assieme ad Antonio, Nino, per tutti. Solo che, invece di
stare a raccogliere ispida bambagia, Lovino era intento a cercare la
biglia di
vetro che il suo migliore amico, non lui, ma Nino –quello
scemo- aveva perso.
<< Allora,
l’hai trovata? >> la voce irritata di Antonio
che se ne stava beatamente
seduto qualche metro più in là, gambe divaricate
in una posa bambinesca, a
giocherellare con la dura terra come se fosse soffice sabbia, lo fece
arrabbiare ancora di più. Già non bastava che
avessero dovuto giocare a biglie,
quel gioco da bambini, come aveva deciso lui, mentre lovino voleva
giocare alla
guerra, o ai pirati, no, non bastava a quello scemo. Doveva anche
andare a
riprendere la stupida biglia che quello scemo aveva lanciato troppo
lontano,
tra i cespugli e le erbacce che crescevano tra le umide crepe dei
marciapiedi. -Unni ci piscianu li cani!
– aveva
pensato storcendo il naso, disgustato. E per di più, come
ciliegina sulla
torta, Antonio si permetteva di criticarlo.
<<
Hola? Parlo con te!
>> disse
Antonio, smettendo per un attimo di
mettere in riga i sassolini come se fossero soldati. Lo faceva sempre,
era uno
dei suoi giochi preferiti dopo le biglie. Poi, una volta allineati
perfettamente l’uno di fianco all’altro, si
divertiva a colpirli con l’indice
come faceva con le biglie di vetro e a farli schizzare lontano.
Fucilava i suoi
soldatini.
Lovino
non gli rispose e infilò il braccio tra i cardi pungenti. Le
spine gli
graffiarono le mani e le dita << Ah! >>
gridò, e ritrasse il
braccio di scatto, fissando poi deluso il pollice tagliato di striscio
che
subito s’infilò in bocca. Succhiò per
lenire il dolore e sentì il sapore
dolciastro del sangue sulla lingua. Si ricordò di avere fame.
<<
Estúpido
>> rise
Antonio. Lovino, il pollice ancora in bocca,
guardò in cagnesco il suo amico. Ad Antonio Fernandez
Carriedo, madre trapanese
e padre di Saragossa, talvolta capitava d’inserire qualche
parolina in
spagnolo. Le sentiva uscire dalla bocca del padre quando gli capitava
d’imprecare ora per una martellata data su un dito, ora per
un casciune riuscito male. Le
osservava in quei
ghirigori a lui
sconosciuti ed incomprensibili sulla carta che suo padre chiamava
“lettere” e
che mandava ai parenti in Spagna o a qualcuno del paese, affidandole al
veloce
ragazzino di turno che prontamente le consegnava e poi riceveva, col
fiato
corto ed i piedi nudi sporchi e callosi, le poche lire in cambio. Molti
lo
prendevano in giro per la sua particolare inflessione, che non era mai
precisa
a quella degli altri. Un misto di castillano e siciliano influenzato dalle male parole che uscivano di bocca a suo
padre e alla lingua che
tutti, compresa la madre, parlavano in paese, che lo aveva spinto ad
avvicinarsi a Lovino. L’unico ragazzino che non si burlava di
lui. Silenzioso e
taciturno quanto irritabile e suscettibile, Lovino era pian piano
diventato il
suo migliore amico. Passavano giornate a gareggiare, destreggiandosi
tra gare
di corse e tornei di strummalo, interminabili
–e noiose- partite a biglie e a calcio con un pallone fatto
di vecchi stracci,
tuffi dal molo, giorni trascorsi a raccogliere olive arrampicandosi
sugli alberi
e giorni a girare per il paese con biciclette rumorose con le quali
riuscivano
a malapena a toccare terra appartenute ai loro nonni, ai loro padri e
fratelli
maggiori, ed infine a loro. Ricordava che al tramonto arrivavano fino
al molo a
contemplare il volo dei gabbiani, gli occhi che bruciavano al sole. Poi
si
toglievano le scarpe e facevano ciondolare i piedi
nell’acqua, tirando pietre,
facendo a gara a chi sapeva farla saltare sibilando sull’
acqua più volte o a
chi riusciva a farla arrivare il più lontano possibile.
Finivano sempre col
colpire le barche ormeggiate, e dovevano correre a casa per sfuggire
all’ira
del pescatore di turno, ridendo mentre lo sventurato gli lanciava
maledizioni
<<
Disgrazziati!
Monellacci! Ora vi fazzu virire jo… se
v’acchiappo… U sacciu cu è vostru patri!
>> ma nessuno terminava mai la frase, le minacce non si
avveravano.
Lovino ed Antonio si rifugiavano nelle loro case, dietro le gonne delle
loro
madri. Dietro ai loro volti innocenti da bambini di dodici anni, dietro
ai
sorrisi furbi e compiaciuti di averla fatta franca ancora una volta. Ed
i
giorni passavano, tra risa, nascondino, acchiapparello,
un due tre stella, conte e file di sassolini e biglie di
vetro.
<<
Va fa’ ‘nto
culo!>> ringhiò Lovino in risposta
all’insulto scherzoso dell’amico.
Antonio non smise di ridere, ma lasciò perdere il gioco con
i sassolini e si
unì alla ricerca.
<<
Dai t’aiuto io…
>> si offrì così inginocchiandosi
tra i cespugli. Lovino lo guardava, il
dito ancora in bocca, con aria di sfida.
<<
Tanto non la trovi>>
Non la trovi,disse, il pollice tra le labbra
che gli rendeva difficoltoso e buffo parlare.
<<
Tu statti a guardare, estúpido >> detto
questo Si stese a pancia in giù sulla terra sporcandosi la
camicia, cucita da
sua madre, sarta provetta. S’infilò tra le
erbacce, tastando alla cieca,
stringendo i denti ogniqualvolta le spine lo ferivano, suscitando il
divertimento di Lovino, che lo stava a guardare convinto che non
sarebbe riuscito
nel suo intento. Se non ci era riuscito lui, anche Nino doveva
miseramente
fallire. L’avrebbe odiato. Antonio intanto si spingeva sempre
di più tra
l’erba, e s’insozzava sempre di più i
vestiti. Alla fine, con un gemito di
fatica, uscì dai cespugli, la camicia imbrattata di
terriccio ma un sorriso di
trionfo stampato sul volto. La mano destra era stretta a pungo.
<<
Non ce l’hai! Non è vero!>>
gridò Lovino
arrabbiato.
<<
Tu lo dici
>> ribattè calmo Antonio. <<
Scemo>> aggiunse subito dopo, scoppiando
a ridere.
Lovino
gli si lanciò contro, buttandolo a terra, diretto al
pugno che Antonio teneva serrato. Cercava invano di graffiargli le
dita, di
costringerlo ad aprirle per dimostrare che aveva ragione. Si sedetta a
cavalcioni sul suo petto, tentando di afferrargli il polso, ma Antonio
rideva,
scalciava e strepitava, e teneva la sua stupida mano in cui forse era
racchiusa
la sua stupida biglia di vetro ben a distanza da lui, alzato sulla
testa. Ruzzolarono
fino al cancello aperto del piccolo orto del padre di Antonio,
azzuffandosi
avvinghiati tra i pomodori freschi. Antonio si rialzava, facendo
rotolare giù
Lovino, Lovino gli premeva le mani sul petto
e lo faceva sprofondare nella terra bagnata, Antonio
opponeva
resistenza, aiutandosi con la mano libera. Lovino riuscì ad
acchiappare il
braccio dell’amico, stava per schiudere quelle dita con la
forza, quando…
<<
Disgrazziati!
Chi stati facennu? Matri mia, Signuri meo…
>> una donna si stava
sbracciando sull’uscio della porta, imprecando contro i due
ragazzini, che la
guardavano in silenzio, Lovino con il braccio dell’amico
ancora stretto tra le
unghie, Antonio con la mano libera sollevata a mezz’aria. La
donna corse subito
nell’orto, le mani tra i capelli. Subito i bambini si
alzarono da terra,
incespicando tra di loro, timorosi di ricevere come sempre qualche ben
assestata sculacciata. La donna, una volta arrivata, si
limitò a dare a
ciascuno dei due qualche scappellotto, rassettando i loro vestiti alla
meno
peggio, pulendoli dal terriccio attaccato con energiche pacche,
provocando così
macchie ostinate che non sarebbero sparite facilmente. Tirò
i bambini per un
orecchio.
<<
E lassami!
Lassami! >>
grugnì Lovino.
<<
Sueltame!
Sueltame! >> piagnucolò Antonio.
La
vecchia li fece sedere in un angolo e rientrò in casa,
lasciando i piccoli a massaggiarsi le orecchie dolenti, con una
raccomandazione:
<<
Si vi muviti
ri ccà a prossima vota l’aricchi vi li staccu, u
capiste? >>
Antonio
e Lovino per un po’ non spiccicarono parola. Il
silenzio era interrotto solo dal loro respiro irregolare, sfiniti per
la lotta.
Finchè Antonio non si girò a guardare Lovino e
gli strappò un sorriso, che
subito dopo si trasformò in una sonora risata. Rise anche
Antonio, ma mentre
sghignazzavano, un grido di donna lacerò l’aria,
seguito da un penetrante
pianto di neonato.
<< Nascìu!
Nascìu! >> gridava una
voce orgogliosa da uomo, la voce di un padre. Antonio e Lovino curiosi
si
diressero sotto la finestra della casa da cui provenivano le urla di
giubilo
della gente.
Vi trovarono riversato tutto il vicinato.
*In
ginocchio raccogliendo cotone, stando con te raccoglievo cotone. (La
musicalità è più nel dialetto)
*Dove
ci pisciano i cani (questo era facile)
*Casciune
significa, cassa, cassettone.
*Lo
strummalo è la trottola
*Disgraziati!
Monellacci! Ora vi faccio vedere io… se vi
acchiappo… Lo so chi è vostro padre!
*Disgraziati!
Che state facendo? Mamma mia, Dio mio…
*Se vi muovete di qua la prossima volta le orecchie ve le stacco, capito?
*è nato!
è nato!