-È morto-
Così,
netto, deciso, senza fronzoli. Glielo comunicano d’un
fiato, senza tergiversare troppo, lo sguardo basso e addolorato che non
riesce
proprio ad alzarsi al suo viso e sopportare la vista del suo dolore.
Glielo
dicono quasi di sorpresa, anche se aveva presagito che qualcosa non
andava, e
le lacerano l’anima, dentro quel corpo di fata.
È morto, è morto, è morto, è morto per quello in cui
credeva, è morto per la sua lotta, è morto soprattutto per lei. Come
tanti,
troppi uomini, giovani dal fisico minuto e sogni immensi, padri,
vecchi, figli,
come tanti altri che sono morti per lei.
Irlanda del Nord non riesce nemmeno a parlare. C’è un groppo
che le chiude lo stomaco, c’è un nodo fitto che le blocca il respiro e
le
pizzicano gli occhi, e in quel secondo desidera soltanto morire, morire
e
basta. Smettere di provare tutta quella sofferenza, smettere di
sentirsi
ripetere quelle due parole, smettere di sentirsi lacerata dentro,
piangendo
assieme alle migliaia di anime che popolano la sua terra. Irlanda del
Nord non
lo vorrebbe, tutto quel dolore, e non sa neanche più a chi vuol dare
retta.
Tace, Erin, e annuisce, stringendo forte le labbra per non
piangere, e cerca di respirare, di mandare giù anche quella ferita, di
ignorare
le costole che bruciano – di nuovo, di nuovo – e di lottare con se
stessa, per
essere forte ancora una volta. Sapeva perfettamente che sarebbe
capitato,
questa volta. Un carcerato non inizia uno sciopero della fame senza
saperlo,
uno Stato non lo accetta senza rendersi conto di quel che costa un
simile sacrificio;
aveva implorato il Sinn Féin di farli desistere, aveva scongiurato i
dirigenti
che non era necessario, che avrebbe potuto resistere ancora, che non
dovevano,
no, non dovevano, che pensassero alle loro famiglie e non a lei. Quei
poveri
diavoli, pallidi in volto, le avevano spiegato cosa facevano gli
Inglesi, nelle
loro carceri. Le avevano detto quanto fosse fondamentale ritornare ad
avere lo
status di prigionieri politici, e che per quanto loro stessi fossero in
disaccordo su questa strategia quegli uomini coraggiosi non avrebbero
sentito
ragioni.
Erin lo sapeva bene, che non avrebbe funzionato. Lei non era
America, lei non era India, lei non era neanche Niall, che se ne stava
a
guardare al di là del confine coi suoi occhi pieni di sofferenza e
prometteva
di venirla a prendere senza poi fare un passo. Lo sapeva che non
sarebbe
successo, perché lei era Irlanda del Nord, l’indisciplinata, la
ribelle, la
terrorista, l’ingrata Irlanda del Nord, e Arthur le avrebbe per sempre
tenuto
il muso e il cuore in pugno. Poteva piangere, Erin, poteva strillare,
poteva
fare qualunque cosa, ma Arthur non avrebbe mai ceduto, sempre ubbidendo
ai suoi
boss e sempre convinto che presto o tardi avrebbe capito. Ma l’unica
cosa che
Erin comprendeva era che la sua gente era divisa e s’ammazzava a
vicenda, giù
nelle barricate di Belfast, e che Derry le faceva male, di nuovo, di
nuovo, e
quella cicatrice bianca le faceva venire il voltastomaco.
E ora Bobby era morto, era morto a metà dello sciopero, e
presto gli altri l’avrebbero seguito, e quei poveri diavoli del suo
partito
fantasma avevano rischiato di prendersi una pallottola in testa per
essere
corsi da lei di nascosto a comunicarglielo.
Il cuore sanguina, nel suo petto straziato da troppi scontri
e troppe repressioni, e non riesce nemmeno a pensare, la testa che le
pulsa
delle grida di dolore dei tanti morti, delle donne private dei loro
cari, degli
insulti e degli spari. Gli spari sulla folle inerme, quelle cariche
della polizia,
Derry che brucia sempre di più, sempre di più.
E Irlanda del Nord capisce che non può più subire tutto
quello senza reagire, Irlanda del Nord capisce che è il momento di fare
una
scelta. La stessa scelta che fece America, la stessa scelta che fece
India, la
stessa scelta che fece Niall di là del confine, la scelta che le costa
più di
tutto, scegliere tra protestanti o cattolici, tra unionisti o
repubblicani, tra
il continuare ad essere succube dell’amore per Arthur o essere
finalmente
libera, con delle leggi giuste, un’economia sana e senza più dover
portare
bende sul corpo martoriato.
-Gerry... ti prego. Ti prego, portami dal Consiglio dell’Esercito.
Portami dall’IRA-
Anche coi fucili e con le bombe, il suo giorno verrà.
* Il nostro giorno
verrà – Bobby Sands
Il 5 maggio 1981
morì dopo sessantasei giorni di sciopero della fame a Long Kesh Bobby
Sands, primo membro del partito nordirlandese repubblicano
Sinn féin (allora
illegale) nonchè della PIRA (Provisional Irish Republican Army) ad
essere stato
eletto al parlamento di Westminster. Tale sciopero era stato dettato
dalla
necessità dei prigionieri repubblicani di riavere lo status politico,
tolto dal
governo nel
Siccome dal 5 maggio
è passato poco tempo, ed è da quando ho iniziato a documentarmi che
queste date
mi assillano, ho voluto fare un piccolo tributo a una piccola nazione
che
soffre da troppo tempo, senza che molti di noi se ne rendano conto.
Questa è
Irlanda del Nord, quella più “vera” che sicuramente non potrebbe
comparire in
un universo come quello di hetalia.
La cicatrice di cui
parla, Derry – o come direbbero gli inglesi, Londonderry- rappresenta
la
giornata in cui un reparto di paracadutisti inglesi aprì il fuoco su
una folla
di manifestanti disarmata, provocando 14 morti e parecchi feriti. Sono
sicura che
la conoscete anche voi: il Bloody
Sunday. Sì, qui prevale la sua parte
indipendente. Magari scriverò qualcos’altro dove risulti più unionista,
non so.
Nota sull’IRA (o
PIRA,
come sarebbe più corretta chiamarla, anche se è assai più nota con
l’acronimo
originale): è un’organizzazione di stampo militare, lo saprete, e
rappresenta
la parte armata della resistenza dei repubblicani; il Consiglio
dell’Esercito è
l’organismo vertice dell’organizzazione, che decide le strategie da
seguire.
Ultima nota: Niall è il nome che ho scelto per l'Eire (vedere "Divorce").
Per tutti coloro che,
in fondo, si sentono un po’ Chuck
Besos
wolvie