0 = 1 - 2 + 3 - 4 + 5 - 6 + 7 -
8 + 9 - 9 + 8 - 7 + 6 - 5 + 4 - 3 + 2 - 1 = 0
«La polizia sarà qui a minuti e se lei non
sarà diventato ragionevole fino ad
allora, non ce la farà ad uscire fuori di qui
vivo».
Quel tipo era malato così come la sua snervante risata.
«Credi davvero che me
ne freghi? Non ho più niente da perdere: ho già
perso tutto a causa tua!»
Charlie si sentiva come se avesse ricevuto un forte pugno in faccia.
Non ci
aveva riflesso finora. Lui era responsabile per ciò che
stava succedendo lì
dentro? Sarebbe stata colpa sua se uno dei suoi studenti fosse morto? E ancora sarebbe stata colpa sua se lo
stesso Phelps se
fosse morto?
«Semplicemente non ha superato l’esame
perché non ha studiato a
sufficienza» lo contraddisse in un coraggioso tentativo di
allontanare da lui i
sensi di colpa.
«Certo, Eppes. È facile addossare la colpa agli
altri invece che a se stesso,
vero?»
Lo stesso vale per te volle rispondere Charlie, ma
questa volta non
disse nulla.
«Avrebbe potuto superare l’esame»
continuò con una paura tremenda: ma finché
Phelps stava parlando, il pericolo che sparasse attorno a lui era
più basso.
«Avrebbe semplicemente dovuto impegnarsi di
più».
«Impegnarmi di più, eh?»
sibilò Phelps. «Non hai idea, Eppes, di quanto mi
sia
impegnato! Ho sgobbato fino ad avere la schiena storta! Ho studiato
giorno e
notte! E avevo buoni voti! Credi che io abbia ricevuto un elogio dai
miei
genitori anche solo una volta, anche solo un solo ’ben
fatto’? Mai! Finché
stavo bene non se ne sono fregati di me! Solo quando non ce
l’ho più fatta
hanno guardato questi voti deludenti! E sai cosa hanno fatto quando
hanno
saputo che mi hai fatto ripetere l’esame? Niente! Non hanno
fatto più niente,
capisci? Giustamente non ero più figlio loro! Si sono
allontanati da me!»
Dopo queste parole, anche Phelps si allontanò da Charlie e
cominciò ad andare
avanti e indietro davanti alla cattedra del professore in elissi
angolari.
Charlie aggrottò la fronte. Elissi angolari? Questa forma
aveva sicuramente un
nome, vero? Oppure no? Non lo sapeva più. Si sentiva come se
avesse la febbre,
troppo tremulo e caldo per riflettere su qualsiasi cosa.
Charlie era diventato sempre di più piccolo contro il muro e
adesso sentì che
quella non era una buona posizione. La sua spalla ardeva come il fuoco
dell’inferno. Provò a guardare la ferita e si
accorse con terrore che la sua
maglietta era imbevuta di sangue. Dunque era per questo che si sentiva
così
tremulo e debole. Poi gli venne in mente un’altra cosa: gli
uomini avevano
bisogno di sangue; se non ne avevano a sufficienza nel corpo morivano.
E
nonostante tutto fosse talmente irreale e lontano, Charlie
riuscì a comprendere
una cosa: se l’aiuto non fosse venuto presto, si sarebbe
dissanguato.
Un botto. Ecco: la fine. Phelps aveva sparato. Charlie
trasalì, ma lasciò gli
occhi chiusi e tentò di sentire da dove veniva il dolore. Ma
non c’era dolore,
salvo quello alla spalla. Forse era stato un colpo alla testa,
rifletté. Quelli
sono considerati indolori. Era l’unica
possibilità. Voleva dire che era morto.
Ma se fosse così, poteva ancora pensare? Evidentemente
sì. Ma poteva anche
sentire? Così sembrava, perché Charlie era
assolutamente sicuro che i passi
furiosi di Phelps non si erano spenti.
Un botto. Di nuovo. In effetti, quante volte poteva ancora sparargli
alla
testa? Doveva veramente avere un aspetto disgustoso. I suoi studenti
sarebbero
probabil-
Dio! I suoi studenti!
Prima che avesse davvero la consapevolezza di ciò che stava
facendo, Charlie
sgranò gli occhi, perlustrando le file davanti a lui. No,
sembravano tutti
vivi, Phelps non aveva sparato a uno di loro, grazie a Dio!
Un attimo… se Charlie poteva vederli, allora il maniaco
probabilmente non aveva
sparato neanche a lui! Ma allora dove?
Il suo sguardo fissò Phelps e in un attimo qualcosa come
sollievo lo
attraverso, quando Phelps batté la sua arma sul tavolo
provocando un sordo
botto. Allora non aveva sparato nessun colpo.
Ma in un attimo tutto il sollievo si dissolse così veloce
come era venuto.
Phelps stava diventando aggressivo. Sembrava che non sapesse cosa fare.
Perché
non sparava semplicemente? Oppure aveva cambiato idea? Forse adesso
voleva
semplicemente lasciar morire dissanguato Charlie e non fare nulla agli
studenti
tranne regalargli un ricordo che avrebbero portato con loro per tutta
la vita?
Non è un assassino, non propriamente
congetturò la mente di Charlie. Se
lo si lascia in pace, se non diventa furioso, se l’aiuto
giunge in tempo, forse
abbiamo ancora una speranza.
Ma Phelps era furioso. E
anche se il caos nel
cervello di Charlie non diventò più chiaro con la
nebbia del dolore, era ovvio
che non si doveva lasciar diventare aggressivo un maniaco che aveva
un’arma.
«Non è il primo» disse Charlie e quando
Phelps si girò velocemente verso di lui
si accorse che doveva assolutamente precisare. «Che non ha
superato un esame,
intendo dire. Ci sono anche persone che ora occupano posizioni primarie
e che
godono di una buona reputazione che una volta hanno dovuto ripetere un
semestre».
Nella sua attuale situazione una piccola dilatazione della
verità di sicuro non
era troppo vizioso.
Phelps sembrava abbastanza sconvolto per uno che aveva
appena assalito
una università per causare un bagno di sangue.
«Non lo capisci, Eppes! Semplicemente non puoi capirlo! Pensi
che questo
sia solo una questione di ‘superato’ o
‘non superato’, vero? Tu non hai idea,
non ne hai la minima idea! La tua decisione di bocciarmi ha rovinato
tutta la
mia vita! Capisci?! Solamente perché tu hai deciso che io
non avevo superato,
la mia vita è andata a puttane!»
Charlie lo fissò, incapace di avere un pensiero chiaro e solamente
continuò ad ascoltare la lamentevole storia della vita di
Phelps.
«I miei genitori non mi hanno più mantenuto! Ho
dovuto andare avanti da solo, di
stenti! E poi? Ah sì: mi hanno sbattuto in prigione solo
perché ho voluto
tirare avanti. E quando sono stato in prigione, ad un tratto, anche la
mia ragazza
non voleva avere più niente a che fare con me! Sai come ci
si sente quando
semplicemente tutto viene improvvisamente infranto, lo sai? No! Tu non
ne hai
idea! La mia vita è andata distrutta ed è colpa
tua! E per questo la
pagherai!».
Charlie non sapeva più che cosa dire. Non sapeva neanche che
cosa lo avesse
colpito di più, se le parole di Phelps o la pallottola nella
sua spalla. Ma in
entrambi i casi, non ci fu bisogno di dire niente perché
l’attenzione di tutti
fu improvvisamente distratta.
«Qui parla l’FBI! Lei è circondato.
Lasci l’edificio con mani in alto!»
Il battito del cuore di Charlie era improvvisamente accelerato. Aveva
riconosciuto subito la voce malgrado la distorsione causata dal
megafono. Don!
Don era qui! Adesso tutto sarebbe andato bene, non c’era
alcun dubbio. Il suo
fratellone era venuto per intervenire in suo aiuto. Don, il grande
eroe.
Le speranze di Charlie esplosero come una bolla di sapone quando
sentì Phelps
brontolare: «Farò una cazzata, allora!».
Don ripeté la pretesa e Charlie ascoltò con
attenzione ogni parola. Non voleva
perdere una sola sillaba, poiché, ad ognuna di esse, fluiva
nuova fiducia
nell’aula. Don era qui, la salvezza era qui, erano
così vicino…
Con il manico della postola, Phelps frantumò una finestra e
urlò fuori,
acquattato sotto la finestra, tanto che anche le tante persone due
piano sotto
di loro, nel campus, potevano facilmente sentirlo.
«Potete scordarvelo! Non verro fuori! E neanche gli
ostaggi!»
Per un secondo, ci fu un silenzio teso.
«Abbiamo appostato tiratori scelti. Appena sparerà
un primo colpo, saremo
pronti ad assalire l’edificio. Non uscirà fuori di
lì».
«Anche un solo colpo può uccidere qualcuno! Un altro, dovrei dire, forse!»
urlò Phelps e lanciò uno sguardo pieno
di odio a Charlie che rabbrividì.
Questa volta, il silenzio durò più a lungo. La
tensione di Charlie crebbe
esponenzialmente. Dovevano dire qualcosa fra poco…! Se non
avessero detto
nulla, quel tipo sarebbe andato completamente in tilt…
Don! Dove sei?
Finalmente, dal megafono una voce risalì a loro.
«Non possiamo aiutarla se non sappiamo che cosa vuole. Mi
chiamo Megan Reeves.
Come si chiama lei?»
Charlie non poté nascondere la delusione. Megan era qui.
Questo era un bene, di
sicuro era un bene. Lei era psicologa, era pratica di queste cose.
Charlie
poteva essere felice che lei fosse lì.
Ma dove era Don?
«Cos’è questo? A che gioco state
giocando?» l’urlare di Phelps tenne
l’attenzione di nuovo su lui. «Facciamo il gioco
dello sbirro buono e di quello
cattivo?!»
«Ci dica il suo nome. Poi potremmo parlare di tutto
ciò che vuole».
Per qualche attimo ci fu di nuovo quello stesso silenzio teso.
«Matt» rispose poi Phelps a bruciapelo
«Matt Phelps».
«Okay, Matt. Vuole parlare con qualcuno? Forse con i suoi
genitori? Amici?»
«Quelli possono starsene dove sono!»
gridò Phelps e la sua voce si accavallò.
«D’accordo, Matt. Non deve vederli se non vuole. Ha
tutto sotto controllo.»
«Come no!»
«Stia calmo, Matt».
«NON MI DICA COSA DEVO FARE!»
E prima che Charlie riuscisse a capire cosa stava succedendo, Phelps lo
aveva già
trascinato verso lui e tirato ai piedi suoi. Charlie pensò
che la sua spalla
stesse per esplodere; tanto forte era il dolore. Realizzava appena che
Phelps
lo stava tenendo davanti a lui come uno scudo, il braccio sinistro
sopra la
spalla ferita, attorno alla sua gola.
Solo dopo che ebbero attraversato la sala dalla lavagna alle finestra,
Charlie
realizzò che cosa intendeva fare il suo avversario.
Pensò di nuovo a Don e
tentò di fare un viso impassibile. Non ci riuscì.
Paura nuda trasparì da esso.
Sentì il metallo freddo dell’arma alla sua tempia
e pregò.
Charlie lasciò scivolare lo sguardo sul campus sotto di lui
attraverso il mare
di punti neri davanti ai suoi occhi e il suo stomaco fece un salto
indietro:
Don era qui.
Mentre Charlie teneva lo sguardo su di lui, distinse dalla grande
distanza che
suo fratello era bianco come un lenzuolo. Aveva granato gli occhi e
aveva la
bocca aperta a metà mentre lo fissava come per dirgli parole
rassicuranti.
Tieni duro, fratellino. Sarò da te in un attimo.
Verremo a tirarti fuori.
Tutto andrà bene.
Nessuna parola veniva scambiata, ma il messaggio
arrivò ugualmente.
«Allora, potete vedere? Non potete farmi niente!
Niente!»
Era folle. Non c’era un dubbio.
«Non ha senso tutto questo!» urlò Megan
con voce aspra. Questa volta aveva
rinunciato al megafono senza sapere se consapevolmente o
inconsapevolmente.
«Abbassi la sua arma! Appena lei sparerà si
sarà giocato anche la sua vita!»
«E cosa farai se ti dico che non m’importa della
mia vita?!»
«Gliene importa, invece. A tutti importa della propria vita,
anche se lei tenta
di convincermi del contrario».
Phelps tacque. Charlie sentiva il suo respiro sulla sua nuca.
L’ultima volta
che aveva sentito un respiro così vicino era stato quello di
Amita. Poteva
vederla. Teneva le mani davanti alla faccia, fissando i due uomini con
occhi
granati.
Ti amo tentò di dirle con il suo sguardo.
Lo sai? Ti amo!
Non sapeva dove doveva guardare. Ogni sguardo poteva essere
l’ultimo. Come se
ce ne fosse ancora bisogno, la mitraglietta attirò
la sua attenzione più di prima: tremolò. Come
anche il braccio di Phelps.
«E perché dovrei fregarmene?»
gridò quello e in un attimo la pesante arma era
sparita della sua tempia ed ora veniva schiacciata contro suo fianco.
«La mia
vita non vale un cazzo! Perché dovrei farmi problemi se
finalmente finisce?»
«Perché c’è sempre qualcosa
per la quale vale la vita! Lei…»
Megan non poté dire di più. In quel momento un
colpo lacerò l’aria, a cui quasi
nello stesso attimo ne seguì un altro.