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Autore: _Breath    08/05/2010    1 recensioni
[...]Quando guardavo il cielo, da piccola, vedevo solo uno sfondo nero senza forma e significato. Mi perdevo a guardare quello che le stelle disegnavano e potevo restare anche ore ed ora a fissare le loro figure. Amavo immaginare che a guardare quello stesso cielo ci fosse anche il mio futuro marito che, nella mia prematura adolescenza, mi avrebbe donato felicità e allegria. La luna, per me, era solo una palla bianca, spesso anche immaginata come di formaggio. Ora invece, seduta sulla stessa sedia di pelle del mio studio, nella stessa identica posizione di quando avevo i fatidici dieci anni, non faccio alto che avere un umore nero. Nero, appunto, come il cielo sopra la mia testa[...]
Genere: Romantico, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I’m With You  …

 

Quando guardavo il cielo, da piccola, vedevo solo uno sfondo nero senza forma e significato.
Mi perdevo a guardare quello che le stelle disegnavano e potevo restare anche ore ed ora a fissare le loro figure.
Amavo immaginare che a guardare quello stesso cielo ci fosse anche il mio futuro marito che, nella mia prematura adolescenza, mi avrebbe donato felicità e allegria.
La luna, per me, era solo una palla bianca, spesso anche immaginata come di formaggio.
Ora invece, seduta sulla stessa sedia di pelle del mio studio, nella stessa identica posizione di quando avevo i fatidici dieci anni, non faccio alto che avere un umore nero.
Nero, appunto, come il cielo sopra la mia testa.
Quando da piccola io amavo questo piccolo spazio di tempo che occupavo sempre prima di andare a dormire, ora, mi sembra tanto una tortura guardare il cielo con ardore.
Mi vengono anche le lacrime agli occhi e devo fare appello di tutta la mia forza di volontà per non versarle.
Potrei benissimo distogliere lo sguardo per evitarmi questa tremenda tortura che mi sta uccidendo piano piano; ma non voglio.
Più semplicemente non posso …
Guardare il cielo mi fa sentire stranamente a casa, unita, a quello che ho perso e che mi sento mancare.
Guardare quello stesso cielo nero che amavo fino a pochi anni fa mi fa sentire nuovamente piccola.
Poco conta che ora ho ventiquattro anni e che prima ne avevo  quattordici in meno, mi sento sempre piccola.
Piccola e indifesa, come se tutte le barriere mi stessero cedendo sotto il mio stesso sguardo color dello smeraldo.
Quello smeraldo che tu avevi sempre amato.
Mi avevi sempre narrato la tua storia, sempre, mi aveva detto che anche tu da piccolo avevi gli occhi di questo colore ma che li hai persi con il tempo.
Non ti spiegasti mai il perché, ma fino ai primi sei mesi della tua vita avevi le iridi verdi mentre poi sono diventate di un anonimo, a tuo parere, castano brillante.
Hai sempre odiato tuo padre per non avertele date di quel colore che sempre hai prediletto e ancora di più hai odiato te stesso per avertele fatte cambiare nei primi giorni della tua vita.
Amavi parlare e ciarlare di quanto ingiusta fosse stata la vita con te.
Oh, amore mio, tu non sapevi quanto la vita sarebbe stata scorretta  nei tuoi confronti.
Amavi stare seduto con le gambe su una sedia, la schiena contro il muro e le braccia conserte al petto mentre fumavi una tua deliziosa sigaretta.
Ma ancora di più amavi stare sdraiato con la testa sulle mie gambe mentre io, dolcemente, ti accarezzavo i crini castani chiari. Tesoro, solo quando mi prestavo a coccolarti come volevi smettevi di fumare quelle disgraziate sigarette che, io sempre te lo dicevo, ti avrebbero portato alla morte.
 << Giulio,- ti riprendevo  -quante volte te lo devo dire che non devi fumare? >>
Tu solitamente sbuffavi  e ti alzavi di scatto andando a sedere, sempre comodo, su quel letto che dolcemente t’ospitava <<  uffa, Nicolé però. Sei peggio di mia madre! >>
Quel modo buffo con il quale pronunciavi il mio nome, Nicoletta, e ancora di più quel tuo imbronciare le labbra infastidito mi ricordava di te tanto un bambino.
Anche se avevi diciannove anni era come se in realtà tu ne avessi solamente nove!
Come un bambino di nove anni, infatti,amavi giocare a pallone e il tuo unico obbiettivo nella vita era quello di diventare il prossimo Beckham ( più per la popolarità che altro.)
Eri anche un giovane di bell’aspetto e questo lo sapevi e, di conseguenza, te ne vantavi.
Stavi tante ore davanti lo specchio a tormentare quei poveri capelli corti e castani che avevi per farli avere di una forma che tu desideravi.
<< Letta?- mi chiamavi – Letta, i miei capelli fanno i cattivi! Non vogliono obbedirmi!! >> chiuso nella porta del bagno ti lamentavi della tua stessa peluria con fare disperato e io, sempre, ne ridevo da dietro la corteccia che separava le due stanza in cui stavamo.
<< Ma dai, che stanno bene anche senza gel! >>
<< Ma che, scherzi? >> facevi sbucare la testa dalla porta rivelandoti  per la bellezza di un ragazzo semplice ma decisamente perfetto << devo essere al meglio per la mia piccola. >>
Quelle semplici parole, quel candido modo in cui mi chiamavi, mi faceva sempre arrossire … e tu lo sapevi.
 Conoscevi il disagio che mi metteva essere chiamata in quel modo e per questo usavi quell’appellativo sempre quando stavamo con i nostri amici.
 << Allora, piccola,cosa vuoi da bere? >> chiedevi con quella faccia da schiaffi che tanto adoravo.
I nostri amici cominciavano sempre a ridere alle mie spalle ma, cosa che non capii mai, non ridevano del mio soprannome quanto più della faccia che facevo ogni qual volta che me lo ripetevi.
Una volta-sorrido al ricordo- ti buttai anche la mia birra addosso in quanto mi deridesti la sera sbagliata al momento sbagliato.
Tornammo a casa entrambi nervosi: io per essere esplosa e tu per il fatto che la tua nuova maglia della Nike era stata rovinata.
Quando infatti mi accompagnasti sotto il portone di casa non mi abbracciasti e baciasti, solamente, mi salutasti con un classico “ciao” e senza nemmeno il tuo rituale “sognami e passerai una buona notte “ e il mio tirarti uno scappellotto ridendo.
Niente di tutto questo.
Ci limitammo a un sorriso tirato senza più parlare fin quando,la sera stessa, non mi chiamasti per sapere se avevi lasciato il cellulare a casa mia.
Stupida scusa che fece ridere entrambi in quanto il cellulare, lo sapevamo tutti e due,  lo avevi con te perché lo stavi usando in quel preciso momento.
Nessuno dei due, però, menzionò la cosa e finimmo per parlare tutta la notte come due sposini il giorno prima del fatidico giorno.
Entrambi innamorati, innamorati per caso.
Ci conoscemmo quando io avevo diciassette anni e tu diciotto.
Era un sabato sera, un afoso quanto strano sabato sera.
Il 10 Giugno per l’esattezza.
Ricordo ogni momento di quella serata come se fosse la stessa che sto vivendo, come se l’aria che respiro fosse la stessa di sette anni fa.
Purtroppo ,l’aria è cambiata e anche la situazione in cui essa veniva ispirata.
Ero andata in discoteca con Anna,la mia migliore amica, e nella calorosa notte di quel sabato sera avevo perso di vista quella mia amica tanto bella quanto sbadata.
Maledicendomi per essermi fatta convincere da lei a venire in quel locale tanto confusionario, alias discoteca, mi diressi verso il bancone per gli alcolici.
Persi un Maritini e, per la prima volta soddisfatta nella serata, me lo portai alle labbra.
Non che fossi un amante dell’alcol ma, per perdere tempo e far scorrere più velocemente quella serata che sembrava non passare mai, mi concessi anche quel piccolo svago.
Ero contro all’ubriacarmi ma ero poco disposta anche ad andare in discoteca … se avevo fatto trenta, tanto meno fare trentuno.
Ma proprio quando mi stavo gustando quel dolce quanto inadatto alcolico una ragazza troppo intenta a baciare con foga il proprio, spero per lei, ragazzo mi venne contro facendomi cadere tutto il Martini sulla maglia.
Quella maglia tanto bella,  bianca e, ahimé,ora anche tremendamente trasparente.
Nervosa fino ai capelli mi diressi fuori dall’edificio nella speranza che l’aria fresca mi aiutasse a calmare i bollori di spirito.
Quando misi piede fuori dalla discoteca, nella fredda notte di una Torino ribelle, mi sentii invadere dal freddo e gentile vento che mi accarezzò il viso.
Fuori non ci stava nessuno a parte me, almeno così credevo in quanto non vidi che un ragazzo, dietro all’ombra di un albero alto e probabilmente secolare, stava fumando grazioso una sigaretta.
<< Ciao! >> una voce dolce mi fece sospirare di sorpresa << come mai qui fuori? >>
Ci misi del tempo per focalizzare l’attenzione su quel ragazzo dai capelli castani come gli occhi che, nella notte, brillavano di riflessi dorati.
<< Troppo casino per i miei gusti lì dentro, e tu? >>
Facendosi avanti, mostrandosi alla luce di un lampione, venne fuori il giovane ragazzo con il quale stavo conversando.
<< Volevo fumarmi una sigaretta >> disse solamente facendo spallucce << vuoi? >>
Guardai schifata il pacchetto che mi porse e scossi il capo << non fumo, grazie, e odio anche chi lo fa >>
Probabilmente la smorfia che feci lo fece ridere perché si sbellicò dalle risate << allora io e te andremo molto d’accordo >> disse facendo cadere la cicca a terra per poi calpestarla << Piacere, sono Giulio >>
Quella mano calda e invitante che mi aspettava mi fece sorridere e solo dopo pochi secondi mi decisi e la strinsi << Lo penso anche io. Comunque piacere Giulio, io sono Nicoletta. >>
Parlammo tutta la serata del più e del meno.
Molto gentilmente tu evitasti anche di fumare altre sigarette davanti a me ma non ti vietasti una birra che sorseggiasti lentamente.
Mi raccontasti che  avevi appena terminato il  quarto superiore di un istituto tecnico e che non vedevi l’ora che la scuola finisse per iniziare a lavorare.
Io invece mi limitai a dire poco di me, ovvero solo che frequentavo il Magistrale di un quarto liceo linguistico.
La serata, da quando m’imbattei in te, sembrò passare più velocemente.
Dopo quella notte però non ti vidi più per oltre tre mesi fin quando, il Settembre successivo che mi avrebbe fatto frequentare l’ultimo anno del liceo avendo fatto la primina, non sentii una ragazza parlare emozionata di quanto fosse bello,simpatico e gentile il cameriere che l’aveva servita la mattina stessa al bar di fronte scuola.
Incuriosita, più Anna che io dal pettegolezzo, andammo al famoso bar e rimasi gradevolmente sorpresa quando scoprii che il ragazzo ‘famoso, bello e gentile’ altri non eri se non tu.
Mi cascarono le braccia!
Non mi aspettavo, però, che anche tu mi avessi riconosciuto ma come sempre mi sorprendesti in quanto mi sorridesti venendomi incontro e salutandomi.
Sotto lo sguardo curioso di Anna anche io ricambiai il saluto iniziando una nuova, quanto semplice conversazione con te.
Un’altra conversazione che, quando terminò, portò nuovamente le nostre strade a dividersi.
Probabilmente il destino aveva scritto una nuova storia per noi perché ci portò ad incontrarci nuovamente due settimane dopo quando tu, non so perché o come, venisti a scuola mia con il tuo amabile e rumoroso scooter.
La terza conversazione, però, portò a qualcosa di nuovo perché si accese la scintilla di una vera e solida amicizia.
Da quella giornata mi venisti a prendere tutte le giornate sotto scuola accompagnandomi a casa con la tua moto e sempre, dico sempre, ero l’invidia delle mie compagne che dovevano prendere quella scomoda corriera di cui facevo a meno. Grazie a te.
Non mi spiegastiai perché ti facesti trovare la prima volta sotto scuola mia, e mai io te l’ho chiesto.
Mi piace vivere nel dubbio che tu già avevi capito di amarmi e che  il destino, volesse  farci incontrare ancora per renderci quello che fummo dopo: ovvero innamorati.
Dal primo bacio che mi desti, ovvero il primo Sabato che uscimmo insieme, all’ultimo che ci scambiammo io mi sono sempre sentita coperta e  completa.
Da quella giornata ne seguirono tante, sempre fantastiche e magiche, sempre, con nuove rivelazioni.
Venni a sapere di te che avevi una sorellina più piccola che adoravi, Stella, e che lei aveva solo quattro anni.
Scoprii che il tuo tesoro più grande era l’ amicizia  e che non avresti mai tradito un amico.
Soffristi tanto, perciò, quando il tuo migliore amico Flavio morì in seguito ad una malattia che se lo portò via senza nemmeno avvisare.
Improvvisamente morì, la sera stessa in cui me lo presentasti come tua ufficiale ragazza.
Sembrava in salute quella sera, ma in realtà stava già tanto male per il tumore al pancreas che però ti nascondeva.
Mi dicevi che era sempre stato un bravo attore e che,per questo, era considerato la promessa del cinema nella vostra scuola.
Come sempre non deluse le tue aspettative recitando il suo copione fino alla fine e ingannandoci tutti.
Piangesti tra le mie braccia tutta la notte, soffrendo e gemendo quando ti veniva in mente il viso biondo del tuo amico.
Quando poi a tarda notte mi crollasti tra le braccia, rimasi a cullare il tuo sonno e a vegliare le tue paure.
Restai a guardarti e a bearmi di te fino al sorgere del sole!
Restammo sempre uniti  fino a quando tu compisti i fatidici venti anni e io ero realmente stregata e innamorata di te da non accorgermi che oramai tu saresti dovuto cambiare.
Per mia fortuna, invece, restasti sempre quel Giulio che mi aveva offerto la sigaretta a diciotto anni e che, in onore del suo piatto preferito mi chiamava Letta.
<< Nicoletta la cotoletta. Mi piace! >> dicesti una volta quando, invitato a pranzo a casa mia da mia madre, trovasti cucinato per te le cotolette fatta da me con le mie stesse mani.
Quel soprannome me lo sono portato per molti anni e quando sento qualcuno dire appunto quel cibo in particolare mi sorge sempre un sorriso spontaneo.
Furono i migliori quattro anni della mia vita, quelli passati con te, sempre con sorrisi e parole dolci.
Una sera mi rivelasti che, se mai avresti avuto un figlio, lo avresti voluto chiamare Flavio in onore di quel fratello morto al tuo fianco.
Come sempre mi dimostrasti quanto serio e ammirevole tu fosti.
Ogni mattina t’alzavi e portavi i fiori a quella tomba chiara del cimitero in cui Flavio era stato deposto.
Sempre tulipani, dicevi, tulipani perché erano gli stessi fiori che ti portò lui quando da piccolo ti operasti alle tonsille.
<< Flavio mi disse che i Tulipani sono il fiore dell’amicizia e,anche se so che non è vero, per noi hanno sempre celato quel falso significato. >>spiegasti un giorno in cui ti chiesi il motivo di tale fiore.
Non feci più domande e ti osservai coricare ogni giorno un fiore, ogni fiore una lacrima e ogni lacrima un sentimento.
Ti guardai farti martire della vita eterna del tuo amico, sorreggendo quella tomba nella pioggia e coprendola dal sole come se nascondesse un bambino particolarmente delicato.
 Ti amai del riflesso con cui tu amasti quella lapide che per te significava il bene più prezioso: l’amicizia!
Mi sorpresi, spesso, a desiderare che mi amasti anche solo un decimo dell’affetto che donavi a quella tomba.
Per questo rimasi dolcemente sorpresa quando, il giorno del mio diciottesimo anno, sotto il pallore della luna, mi guardasti negli occhi sussurrandomi l’agognato “ti amo” che aspettavo.
E io, non potei che ricambiare con un bacio carico di emozione, affetto, dolcezza  e … amore.
Passarono così altri due anni, i più dolci che potessi desiderare.
Quando per il mio ventesimo anno d’età comprasti una casa in cui insieme abitare per frequentare l’università nella stessa città, scoppiai letteralmente a piangere tra le tue braccia.
Poco m’importò che così rovinai un'altra delle tue numerose e preziose magliette, nemmeno dello sbuffo scocciato che facesti quando l’ennesima felpa Nike buttasti nel cestino per il mascara colato: io ti abbracciai con tutta la gioia che non riuscivo a dire a parole.
Il nido di quell’amore che mi donasti fu di quanto più magico potessi aspettarmi: solo quattro stanze ma uniche per me quanto la Casa Bianca del presidente degli Stati Uniti.
Un altro anno volò via, un altro irraggiungibile anno.
Ricordo ogni notte passata a cullarmi tra le tue braccia,ogni soffio di vento contro i vetri e anche ogni nota intonata della tua voce per darmi il buon mattino.
Tutto, rimembro tutto.
Eri solito andarmi a prendere la colazione al bar la Domenica mattina per farmi trovare caldi croissant per deliziarmi il palato.
Era  da un anno che lo facevi, e sempre ti era andata bene … fino a quel tremendo 11 Settembre.
11 Settembre, esatto, il giorno della caduta delle Torri Gemelle, l’anniversario di tante morti. Giorno ricordato nella mente di ogni abitante del mondo, giorno impresso a fuoco nel mio cuore. Come ogni Domenica al risveglio trovai un biglietto della tua bella calligrafia che diceva:


Torno presto con la dolcezza che ti meriti.
T’amo, Giulio!

Sorrisi baciando il pezzo di carta e mettendomelo nella tasca del pigiama per poi scendere in cucina a preparare il caffè, anche se sapevo tu me lo avresti portato.
Per ingannare il tempo accesi la radio e feci scorrere i canali per decidere cosa sentire : musica anni ’80 e telegiornali deprimenti.
Optai per la classica stazione che ascoltavo da bambina.
La mia vita cambiò tutta in un solo battito di occhio o, più comunemente chiamata, nel semplice rintoccò d’orologio.
Un ora prima attendevo il tuo ritorno dal bar sotto casa nostra, un ora dopo piangevo disperata sul divano di casa mia mentre un poliziotto cercava di calmare quei singhiozzi che mi nascevano in petto.
Eri morto. Investito da una macchina mentre attraversavi la strada. Per prendere dei cornetti, per deliziarmi di una colazione al Bar. Eri Morto. Per me, a causa delle mie stupide voglie domenicali.
Il tuo corpo, mi disse il poliziotto, era stato colpito con forza facendoti fare un volo di parecchi metri per poi atterrare nel crudo marciapiede di fronte la banca.
Non mi rimase niente di te,se non bei ricordi e tanta, tanta voglia di dimenticare.
Capivo il dolore che provasti per la scomparsa di Flavio, ma a differenza tua nessuno era pronto a sorreggere le mie lacrime.
A parte quella casa regalatami da te stesso, di te, mi restava solo il biglietto che conservo ancora nella tasca del pigiama( non ho mai avuto la forza di toglierlo) e un furia dai capelli castani.
Si chiama Flavio, come volevi ho accontentato il tuo desiderio dandogli il nome del tuo migliore amico.
Ho dovuto combattere contro me stessa per non dargli il tuo di nome, ma ho resistito per te e perché sapevo che era quello che volevi.
Mi basta sapere che è tuo figlio e a darmene conferma e anche il sorriso e la tremenda voglia di scherzare.
Ti somiglia, forse più del lecito.
Come te, anche lui da piccolo aveva gli occhi di un verde brillante solo a che a differenza le sue iridi sono restate del medesimo colore nel tempo.
Non sono, però, verdi come le mie ma sono di una strana sfumatura a me ignota per questo, quando le guardo, penso a te e sorridendo sfioro il viso del mio piccolo bambino.
Ora Flavio ha tre anni e l’unica cosa che mi permette di ricordare con gioia l’ 11 Settembre è proprio lui perché quella notte, quella Domenica notte, io concepii questa creatura che Dio mi ha dato di te.
Mi piace pensare che mio figlio sia il mio angelo in quanto, se non sono diventata pazza, lo devo solo a lui e all’amore che mi ci lega.
<< Mamma? >> la voce dolce, infantile e tenera di Flavio mi riscuote dai pensieri e veloce mi asciugo una lacrima << dove è il mio papà? >>
Non è la prima volta che me lo chiede e sempre, io, non so cosa rispondergli.
Non me la sento di dirgli che suo padre è nel cielo, morto nella stessa giornata in cui lui è stato programmato.
E allora chiudo gli occhi e mi siedo al suo fianco << è partito, amore mio >>
<< Tornerà ? >>
<< No >>
Il silenzio è l’unica cosa udibile, oltre al suo cuoricino rotto.
<< Mi dispiace, tesoro, ma non può tornare  >>
Vedo i suoi occhi spegnersi come se già comprendesse quello che la vita può nascondere << Ok >> dice solo giocando distratto con una Lego.
<< Cosa vuoi per cena? >> gli chiedo per allentare la tensione.
D’un tratto Flavio s’anima e si dimena tra le mie braccia << Cotoletta! Io voglio  Cotoletta! >> la sua voce è infantile ma capisco cosa vuole nascondere tutto quell’entusiasmo e per questo non posso fare a meno di sorridere tra le lacrime.
<< Mamma, perché piangi ? Fatta la bua? >> il suo viso è preoccupato e dolce e, per un momento, mi ricorda quello tuo, Giulio  caro, quando mi raccontasti di te e del tuo amico Flavio.
Vi assomigliate, mi ripeto, forse anche più del lecito.
<< No, tesoro, la mamma sta bene. >>
<< Ticura? >>
<< Si, sicura >>
Flavio si fa raggiante per poi, a passo spedito, raggiungere la cucina urlando a gran voce una canzoncina con il motivo di una “cotoletta”.
Sorrido e mi alzo da terra pulendomi i pantaloni per poi raggiungerlo ma, quando sto per entrare nella piccola cucina che un tempo fu nostra, mi volto e mi guardo indietro.
Il cielo è nero, buio, strano per delle sette del pomeriggio ma non mi sorprende perché oramai siamo a Dicembre.
Fa freddo, le giornate si sono fatte più corte e scure, ma va bene così perché è il ciclo della vita.
Senza pensarci mi affaccio alla finestra facendomi baciare dalla fresca aria gelida, come feci quella sera in cui ti incontrai fuori la discoteca.
Belli i ricordi, belli che mi permettono di renderti vivo al mio fianco.
Poi però, vinta da quale miraggio e forza di volontà , alzo lo sguardo e osservo il cielo con più attenzione.
Ecco, nel piccolo spicchio della sera posso vedere una piccola mezza luna illuminare la città e come quando ero piccola mi perdo a fissarla.
Mi hai raccontato, Giulio, che anche tu da piccolo  guardavi la luna nelle notti solitarie specialmente nelle notti di Dicembre quando il Natale si faceva più vicino.
E allora, pensando a te, io guardo la luna.
La guardo perché mi piace pensare che tu, anche se morto, stai facendo la stessa cosa.
La guardo perché non voglio rompere la tradizione e smettere di credere che,a guardare quello stesso cielo, ci sta anche il mio grande amore.
La guardo solamente perché fissando il nero della notte mi sento vicino a te, e se chiudo gli occhi posso ancora sentire la tua voce al mio fianco.
Dalla cucina sento la voce di Flavio chiamarmi per la cena ma per ora la ignoro dedicandomi solamente a te.
Dedicandomi alla bellezza di sentire una tua carezza sul mio viso quando il vento me lo sfiora e pensando che,  se tu fosti stato qui con me, mi avresti abbracciato da dietro con quel adorabile quanto fastidioso odore di tabacco che spesso avevi mentre nella destra, in un bicchiere di cristallo, giaceva il tuo alcolico.
<< Allora piccola, >> mi pare di sentire << tu cosa vuoi da bere? >>

Storia stupida nata da una bella canzone di Avri Lavigne cdi cui la storia porta anche il titolo.
Tutta la storia è stata scritta senza progetti iniziali: all'inizio avevo in mente solo una ragazza triste e alla fine mi sono ritrovata con questa dolce quanto tragica storia d'amore.
Spero che sia piaciuta e vi prego, recensite che ci tengo =)
I personaggi sono di mia proprietà, fatti o avvenimenti realmente esistenti non sono stati scritti con scopi di lucro.
Manu     ...                

  
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