Light camminava.
Un passo dietro l’altro e l’asfalto sotto ai suoi piedi
cedeva, facendolo avanzare.
Non un sospiro a tradire il dolore lancinante al petto
e alla mano e all’addome.
Perché Light non
avrebbe mai ammesso che faceva male, male
da morire,
e che il suo sogno
più grande era svaporato come acqua.
Ammetterlo
equivaleva a dirsi sconfitto.
E
forse era davvero così. Forse aveva davvero
perso.
Continuava a camminare, trascinandosi per la strada a
peso morto.
E poi si rivide, come in un flash abbacinante, nel
cortile di una scuola di cui non rammentava il nome, a raccogliere un quaderno
da terra.
DeAtH
NoTe
Non aveva mai pensato che fosse stata una disgrazia
averlo preso, né che gli avesse portato guai.
Solo lui era in grado di fare una cosa simile, solo lui
poteva cambiare davvero il mondo.
Ma Dio di un Nuovo
Mondo non lo sarebbe stato mai.
Quel sogno era morto, e il suo corpo era troppo
infiacchito per risorgere dalle ceneri.
Tuttavia
Light non ci credeva. Lui non poteva morire. Lui era immortale.
Assurdo.
Le gambe cominciavano a dolere e l’addome si contraeva
sotto spasimi terrificanti, ma Light continuava imperterrito a camminare,
mentre ondate di ricordi sopiti spingevano la sua mente alla deriva.
Ricordava il sorriso
senza tempo di Ryuk.
Ricordava
il rumore delle pagine del Death Note.
Ricordava l’odore della pelle di Misa.
Ricordava la partita
a tennis.
Ricordava
Kira.
Ricordava Matsuda, suo padre, Aizawa e Mogi.
Ricordava Raye
Pember e Naomi Misora.
Ricordava
delle mele rosse.
E poi ricordava Elle e i suoi dolci.
Mello
e la cioccolata.
Near e i modellini.
Ricordava tutto, ogni singolo attimo passato a
respirare in quel mondo da lui creato, ogni singolo colore che ne imbrattava
gli angoli, come se fosse stato di vitale importanza memorizzarli tutti.
Eppure si chiedeva se alla fine avesse fatto qualcosa
di buono.
Se alla fine il suo operato fosse stato giusto.
Light se lo chiedeva, mentre si sdraiava su delle scale
troppo dure, per riposare.
“Ryuk…”.
“Eh?”.
“Non
mi è mai passato per la testa che per me sia stata una disgrazia raccogliere
quel quaderno”.
“A
me non frega niente se il quaderno ti ha reso felice o infelice. Ma di norma
pare che chi vive a contatto con un Dio della Morte abbia una vita miserabile”.
“Vorrà
dire che tu avrai l’occasione di assistere a qualcosa fuori dalla norma, caro
Ryuk”.
Ed era stata la pura verità. Ryuk aveva assistito a
qualcosa di impareggiabile.
Forse era a causa di ciò che indugiava a scrivere il
nome di Light sul proprio quaderno.
Forse era per i troppi ricordi, per la noia che
incombeva, ma la punta della sua penna rimaneva immobile, poggiata con grazia
su una pagina vuota del Death Note.
Scrivere il suo nome significava mettere la parola fine
alla sua storia.
Scrivere il suo nome significava interrompere lo
spasso.
Scrivere il suo nome significava perderlo.
Ma Ryuk aveva promesso [Quando morirai scriverò il tuo nome sul mio quaderno] e doveva
rispettare la parola data. Sospirò, chiuse per un attimo gli occhi, e tracciò
gli ideogrammi del suo nome.
夜神月
Light spalancò gli occhi dalla sorpresa: il suo cuore
aveva accelerato i battiti.
Eppure non aveva paura. Non ne aveva più.
Lui, il Dio di un nuovo mondo, stava morendo. Ma,
almeno, aveva regnato.
I battiti diminuirono, le forze cominciarono a volare
lontano e la stanchezza sembrava una coperta morbida in cui stringersi, ma in
un imperdibile attimo di tramonto, Light lo rivide.
In piedi, scalzo, lo guardava inespressivo. All’angolo
della bocca un poco di panna.
“Le
senti le campane, Light?”
Ora
sì, Ryuzaki.