Weakness
(Dolce
debolezza)
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Riza aveva sempre visto la vita come una battaglia senza fine né possibilità di
conquista.
Più che altro una sorta di guerra neutra o fredda in cui i vinti non
conoscevano morte o dolore, ma solo la sconfitta e per i vincitori non c’era
alloro o altro che non fosse la vittoria.
Vittoria e sconfitta in fondo rappresentavano semplicemente due parole e come
ogni parola erano vuote, prive di alcuna emozione o sensazione.
Erano composte solo da lettere, nulla di più né di meno e come tali dovevano
essere considerate.
Si tendeva sempre a dare a questa o quella tal cosa un’impressione e ciò
portava a provare un particolare sentimento qualora fosse stata risentita.
A suo avviso un comportamento del genere era del tutto sbagliato, un approccio
sconsiderato che precludeva un punto di vista obiettivo e imparziale e lei più
di chiunque altro poteva vantarsi grazie a questo ragionamento di possederne
uno ineccepibile e privo di difetti, o quasi.
La perfezione non esisteva, così come la giustizia lo sapeva bene mentre
osservava i loro alter ego spadroneggiare ovunque, approfittando della loro
assenza.
Tuttavia, mirando ad un livello inferiore all’una, ma comunque superiore
all’altra, ne aveva raggiunto uno di mezzo che le permettesse di essere
alquanto soddisfatta del risultato.
Perché la sua imperfezione era molto più perfetta di quella di tanti altri
e paragonata al suo ideale le sembrava un buon traguardo. Nella sua corsa
ovviamente l’inizio e la fine erano ben lungi dall’esser visibili, eppure per
una volta poteva arrogarsi il diritto di socchiudere quegli occhi così
strabilianti e perdersi nei ricordi di quante miglia avesse percorso dacché si
era messa in marcia.
Ciò che tanto l’aveva resa famosa nell’esercito, oltre il comportamento
esemplare e degno di ogni merito e lode, erano per l’appunto quegli occhi d’oro
imbrunito che le erano valsi l’appellativo di Hawkeye, trasformando il proprio
nome in segno onorifico di rispetto e timore reverenziale.
Doveva ammettere che essere una cecchina comportasse di tanto in tanto qualche
piacevole diversivo al dovere di eseguire ogni ordine e comando impostole dai
suoi diretti superiori.
Era grazie a quell’aspetto autoritario e inflessibile dopotutto se era
riuscita nell’impresa di addestrare al lavoro molti dei suoi compagni d’armi e
anche reso qualche scansafatiche più alacre nello svolgere i propri incarichi e
meno lavativo di quanto fosse stato in precedenza.
Si era spesso chiesta come fosse possibile un tale livello di pigrizia
galoppante, ma la risposta a quell’incauta domanda l’aveva portata alla
conclusione che non fosse nulla che una pistola caricata e pronta a sparare non
potesse risolvere e così era stato a ben vedere. Ciò di cui ognuno aveva
bisogno era il pugno di ferro di una persona decisa e se lei era stata tanto
fortunata dall’essere provvista di buonsenso, ciò non stava a significare che
anche altri ne fossero stati graziati. Era suo preciso compito provvedere perciò
a quella mancanza e sopperirle, un fardello che si era autoimposta in un
momento di particolare crudeltà nei propri riguardi, ma che di buon grado
affrontava giorno per giorno.
Impegnata com’era a mantenere alto quel livello di efficienza, non si era quasi
accorta che la propria rigidità solenne fosse diventata meno protocollare, in
qualche modo più informale.
Reprimere i sentimenti era qualcosa che le riusciva assai bene e piuttosto
facilmente, nasconderli altrettanto semplice, conviverci difficoltoso e più
complicato, ma non impossibile e ora, proprio grazie a quegli stessi sentimenti
poteva riconoscere in tutta onestà che la sua imperfezione fosse più grande di
quel che avesse ritenuto in precedenza.
Era un soldato, un tenente, ma anche una donna e oltre ad assi nella manica e
appesi ai lati della cintura, nascondeva scheletri nell’armadio, labili
reminiscenze di un passato bruciato di cui ancora portava le cicatrici esposte
sulla schiena.
La sua debolezza, nonché sua più grande forza, aveva un nome e questo, oltre a
denigrarla per la sua stessa natura, metteva in ginocchio le sue convinzioni
riguardo l’affiancare impressioni ad oggetti o persone.
La tara peccatrice era una parola formata da tre lettere e da altrettanti
elementi –occhi scuri, sorriso affascinante, calore- che ne rendevano la colpa
più grave e al contempo elastica, in modo tale che accettarne l’anomala e
incomoda presenza non richiedesse più sforzi del dovuto.
Quella difettosa irregolarità costituiva l’unica breccia nel muro di forza di
cui si era ammantata, una mina vagante al suo controllo e come ogni ordigno
esplosivo di quel tipo, il pericolo che avrebbe provocato una sua remota
eventualità di esplosione, non avrebbe colpito solo lei, ma chiunque si fosse
trovato nel suo raggio di azione di 27 metri.
Tutto ciò in cui credeva, era il mero desiderio di realizzare il sogno di
qualcuno, proteggerlo e rimanergli accanto, fedele alleata di quella gara
contro il tempo.
Roy Mustang era il suo Colonnello, l’uomo a cui aveva giurato lealtà – e
amore-, che aveva promesso di seguire ed era con dedizione e ligia scrupolosità
che svolgeva quella mansione, manteneva la parola data.
Ed era con sincera gratitudine –e amore- che lui accettava il suo impegno.
Era quella comune scalata ad unirli e a loro stava bene così.
Riza aveva compreso che un nome potesse diventare il peggiore nemico in quella
battaglia che era la vita e che le lettere non potessero essere in alcun modo
cave contenendo l’essenza di ciò che evocavano e tanti, tanti altri piccoli
fattori inesprimibili.
La perfezione non esisteva, ma oltre la tristezza c’era qualcosa di
infinitamente bello anche nell’imperfezione, in un paio di occhi privati del
colore ad esempio, che richiedeva l’appoggio di un’altra metà imperfetta per
diventare completa.
"Soltanto una vita vissuta per gli altri è una vita che vale la pena vivere."
Einstein Albert
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Ok, credo di essere decisamente in vena questi giorni di nonsense (nel
senso che non hanno senso –quanto senso eh?- per me, escono da sole e poi non
so cosa dire al riguardo ^^) o qualcosa che le richiamino.
Ho scritto di getto queste 924 parole e non so bene come classificarle,
ma non è nulla di nuovo, in effetti io non so mai cosa dire riguardo quel che
scrivo XD. E’ normale trovare più difficile fare delle note decenti piuttosto
che tutto il resto o devo pensare di essere un caso isolato e disperarmene?
Non è nulla di che, me ne rendo ben conto, l’unica cosa che posso dire per dare
un significato a quanto sopra letto è che penso lei si sia sempre sforzata di
dare il massimo, essere in un qualche modo contorto (solo nella mia testa temo
-.-) “perfetta” in vista dell’obiettivo che voleva raggiungere, del desiderio
di essere utile e non un peso, spero davvero di aver fatto comprendere il mio
pensiero.. Come al solito la speranza che questa mia vi sia piaciuta e
soprattutto di non aver stravolto lo splendido personaggio di Riza che amo con
tutto il cuore –in effetti li amo tutti allo stesso modo, ma questo è un
dettaglio trascurabile..-.
Un saluto a tutti <3