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Autore: E u r eka    12/05/2010    1 recensioni
Riza aveva sempre visto la vita come una battaglia senza fine né possibilità di conquista. Più che altro una sorta di guerra neutra o fredda in cui i vinti non conoscevano morte o dolore, ma solo la sconfitta e per i vincitori non c’era alloro o altro che non fosse la vittoria. Vittoria e sconfitta in fondo rappresentavano semplicemente due parole e come ogni parola erano vuote, prive di alcuna emozione o sensazione. Erano composte solo da lettere, nulla di più né di meno e come tali dovevano essere considerate.
[Lievissimo spoiler]
Genere: Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Riza Hawkeye
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Weak

Weakness

(Dolce debolezza)

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Riza aveva sempre visto la vita come una battaglia senza fine né possibilità di conquista.
Più che altro una sorta di guerra neutra o fredda in cui i vinti non conoscevano morte o dolore, ma solo la sconfitta e per i vincitori non c’era alloro o altro che non fosse la vittoria.
Vittoria e sconfitta in fondo rappresentavano semplicemente due parole e come ogni parola erano vuote, prive di alcuna emozione o sensazione. 
Erano composte solo da lettere, nulla di più né di meno e come tali dovevano essere considerate. 
Si tendeva sempre a dare a questa o quella tal cosa un’impressione e ciò portava a provare un particolare sentimento qualora fosse stata risentita.
A suo avviso un comportamento del genere era del tutto sbagliato, un approccio sconsiderato che precludeva un punto di vista obiettivo e imparziale e lei più di chiunque altro poteva vantarsi grazie a questo ragionamento di possederne uno ineccepibile e privo di difetti, o quasi.
La perfezione  non esisteva, così come la giustizia lo sapeva bene mentre osservava i loro alter ego spadroneggiare ovunque, approfittando della loro assenza.
Tuttavia, mirando ad un livello inferiore all’una, ma comunque superiore all’altra, ne aveva raggiunto uno di mezzo che le permettesse di essere alquanto soddisfatta del risultato.
Perché la sua imperfezione era molto più perfetta di quella di tanti altri e paragonata al suo ideale le sembrava un buon traguardo. Nella sua corsa ovviamente l’inizio e la fine erano ben lungi dall’esser visibili, eppure per una volta poteva arrogarsi il diritto di socchiudere quegli occhi così strabilianti e perdersi nei ricordi di quante miglia avesse percorso dacché si era messa in marcia.
Ciò che tanto l’aveva resa famosa nell’esercito, oltre il comportamento esemplare e degno di ogni merito e lode, erano per l’appunto quegli occhi d’oro imbrunito che le erano valsi l’appellativo di Hawkeye, trasformando il proprio nome in segno onorifico di rispetto e timore reverenziale.
Doveva ammettere che essere una cecchina comportasse di tanto in tanto qualche piacevole diversivo al dovere di eseguire ogni ordine e comando impostole dai suoi diretti superiori.
Era grazie a quell’aspetto autoritario e inflessibile dopotutto se era riuscita nell’impresa di addestrare al lavoro molti dei suoi compagni d’armi e anche reso qualche scansafatiche più alacre nello svolgere i propri incarichi e meno lavativo di quanto fosse stato in precedenza.
Si era spesso chiesta come fosse possibile un tale livello di pigrizia galoppante, ma la risposta a quell’incauta domanda l’aveva portata alla conclusione che non fosse nulla che una pistola caricata e pronta a sparare non potesse risolvere e così era stato a ben vedere. Ciò di cui ognuno aveva bisogno era il pugno di ferro di una persona decisa e se lei era stata tanto fortunata dall’essere provvista di buonsenso, ciò non stava a significare che anche altri ne fossero stati graziati. Era suo preciso compito provvedere perciò a quella mancanza e sopperirle, un fardello che si era autoimposta in un momento di particolare crudeltà nei propri riguardi, ma che di buon grado affrontava giorno per giorno.
Impegnata com’era a mantenere alto quel livello di efficienza, non si era quasi accorta che la propria rigidità solenne fosse diventata meno protocollare, in qualche modo più informale.
Reprimere i sentimenti era qualcosa che le riusciva assai bene e piuttosto facilmente, nasconderli altrettanto semplice, conviverci difficoltoso e più complicato, ma non impossibile e ora, proprio grazie a quegli stessi sentimenti poteva riconoscere in tutta onestà che la sua imperfezione fosse più grande di quel che avesse ritenuto in precedenza. 
Era un soldato, un tenente, ma anche una donna e oltre ad assi nella manica e appesi ai lati della cintura, nascondeva scheletri nell’armadio, labili reminiscenze di un passato bruciato di cui ancora portava le cicatrici esposte sulla schiena.
La sua debolezza, nonché sua più grande forza, aveva un nome e questo, oltre a denigrarla per la sua stessa natura, metteva in ginocchio le sue convinzioni riguardo l’affiancare impressioni ad oggetti o persone.
La tara peccatrice era una parola formata da tre lettere e da altrettanti elementi –occhi scuri, sorriso affascinante, calore- che ne rendevano la colpa più grave e al contempo elastica, in modo tale che accettarne l’anomala e incomoda presenza non richiedesse più sforzi del dovuto.
Quella difettosa irregolarità costituiva l’unica breccia nel muro di forza di cui si era ammantata, una mina vagante al suo controllo e come ogni ordigno esplosivo di quel tipo, il pericolo che avrebbe provocato una sua remota eventualità di esplosione, non avrebbe colpito solo lei, ma chiunque si fosse trovato nel suo raggio di azione di 27 metri.
Tutto ciò in cui credeva, era il mero desiderio di realizzare il sogno di qualcuno, proteggerlo e rimanergli accanto, fedele alleata di quella gara contro il tempo.
Roy Mustang era il suo Colonnello, l’uomo a cui aveva giurato lealtà – e amore-, che aveva promesso di seguire ed era con dedizione e ligia scrupolosità che svolgeva quella mansione, manteneva la parola data.
Ed era con sincera gratitudine –e amore- che lui accettava il suo impegno.
Era quella comune scalata ad unirli e a loro stava bene così.
Riza aveva compreso che un nome potesse diventare il peggiore nemico in quella battaglia che era la vita e che le lettere non potessero essere in alcun modo cave contenendo l’essenza di ciò che evocavano e tanti, tanti altri piccoli fattori inesprimibili.   
La perfezione non esisteva, ma oltre la tristezza c’era qualcosa di infinitamente bello anche nell’imperfezione, in un paio di occhi privati del colore ad esempio, che richiedeva l’appoggio di un’altra metà imperfetta per diventare completa.

"Soltanto una vita vissuta per gli altri è una vita che vale la pena vivere."
Einstein Albert

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Ok, credo di essere decisamente in vena questi giorni di nonsense (nel senso che non hanno senso –quanto senso eh?- per me, escono da sole e poi non so cosa dire al riguardo ^^) o qualcosa che le richiamino.
Ho scritto di getto queste 924  parole e non so bene come classificarle, ma non è nulla di nuovo, in effetti io non so mai cosa dire riguardo quel che scrivo XD. E’ normale trovare più difficile fare delle note decenti piuttosto che tutto il resto o devo pensare di essere un caso isolato e disperarmene?
Non è nulla di che, me ne rendo ben conto, l’unica cosa che posso dire per dare un significato a quanto sopra letto è che penso lei si sia sempre sforzata di dare il massimo, essere in un qualche modo contorto (solo nella mia testa temo -.-) “perfetta” in vista dell’obiettivo che voleva raggiungere, del desiderio di essere utile e non un peso, spero davvero di aver fatto comprendere il mio pensiero.. Come al solito la speranza che questa mia vi sia piaciuta e soprattutto di non aver stravolto lo splendido personaggio di Riza che amo con tutto il cuore –in effetti li amo tutti allo stesso modo, ma questo è un dettaglio trascurabile..-.  
Un saluto a tutti <3 

  
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