Il ragazzo cercava di
cambiare un poco alla volta.
Come quando, ogni giorno,
guardava verso una finestra
d’ospedale.
Era
così fastidioso; dirigersi a quell’ospedale, arrivare per la strada, vicino il
parcheggio.
Guardare
in alto.
Accennare
un passo in avanti.
Poi,
fermarsi; mentre le mani in tasca sembravano sudare un po’, e una spiacevole
sensazione di agitazione gli smuoveva lo stomaco.
Allora
alzava lo sguardo verso la finestra, e si diceva: “Oggi devo salire le
scale. Salire ogni gradino, e raggiungere la camera di Saki”.
A
quel punto aggrottava le sopracciglia, infastidito da tanta incertezza, e
muoveva un altro piccolo passo, quasi deciso a non farsi vincere stavolta; però
poi arrivava.
Quel
senso di spossatezza che gli ricordava quella corsa forsennata, animata solo
dalla paura, dall’ansia e dalla rabbia per un telefono che squillava a vuoto.
Finiva
sempre col sentirsi troppo stanco persino per un mezzo passo in più: allora,
paradossalmente, si voltava e faceva la strada a ritroso.
A
quella stanza di quella finestra che guardava, spesso non si avvicinava
nemmeno.
Ma
cambiare era difficile,
perché
troppe cose
gli
ricordavano com’era una volta.
Tornava
sui suoi passi, proprio come adesso.
Le
mani ancora in tasca che, quasi volendosi prendere gioco di lui, erano tornate
completamente asciutte nel momento stesso in cui si era allontanato da quel
posto.
La
mente, per assurdo, pareva completamente vuota in quella prima parte di
tragitto; Masaomi vi si era fastidiosamente abituato.
Forse,
in cuor suo, spesso faceva quell’avanti e indietro senza nemmeno entrare in
ospedale solo per quello.
Quando
aveva scoperto la sensazione di sollievo che, seppure per poco, lo coglieva
finché non tornava nel centro delle vie trafficate di Ikebukuro, aveva pensato
infantilmente: “Forse, questo tragitto non fa pensare a nulla”.
E
dal momento che quando era solo non riusciva ma a “non pensare a nulla”, aveva
fatto sì che quella specie di prassi divenisse meccanica; ogni tanto lo
sfiorava il pensiero di andare in ospedale già deciso a ripetere quella piccola
routine, senza la minima intenzione di entrarci fin dall’inizio.
Di
solito ci pensava quando arrivava nei pressi della sessantesima strada.
Allora
scuoteva la testa leggermente, piazzava su un sorrisetto scemo, e puntava una ragazza;
una qualsiasi, perché non era importante chi fosse.
Una
battuta da cascamorto, un sorrisetto complice, una frase scherzosamente
melodrammatica.
Accolta
da una risata, o da uno sbuffo seccato e un rumore di tacchi che si
allontanano.
Nemmeno
quello era importante.
Pensando che per lui fosse
troppo difficile,
il ragazzo cercò una
scappatoia.
Pensò che illudersi un po’:
dopotutto,
non avrebbe fatto male a
nessuno.
Masaomi
ricordava una frase, pronunciata da qualcuno che aveva dimenticato – o magari era
stato lui stesso – a proposito dei Dollars. Gli tornava in mente spesso, ora
che era di nuovo tra gli Yellow Turbans; come anche era tornata, meno
apprezzata, quella sensazione di ansia e adrenalina che sentiva addosso quando
nella strada intravedeva qualche membro delle altre gang.
Con
i Dollars era tutto amplificato, perché non c’era un segno di riconoscimento,
non c’era nessun colore; perciò forse, quella frase che gli tornava spesso
prepotentemente in testa, era un modo che lui stesso sfruttava per darsi una
certezza.
Un
qualcosa che gli avrebbe permesso di riconoscerli, perché in fondo per loro era
una delle regole del gioco: usciamo allo scoperto, rendiamoci visibili.
E
vediamo chi vince.
Perché
mai per i Dollars avrebbe dovuto essere diverso? – se vedi qualcuno che
pensi possa essere dei Dollars, allora è probabile che lo sia.
Un
po’ ignorò quella sorta di massima, un po’ la lasciò passare in secondo piano
nella propria testa, mentre si avvicinava a quella ragazza qualsiasi, che gli
avrebbe rivolto parole qualsiasi.
«Ooohi,
signorina, il mio cuore si è commosso nel momento in cui il mio sguardo si è
posato su di te, e il mio romantico animo adolescente ha deciso che non avrei
potuto vivere senza conoscerti!» esclamò, con quel fare stupido che a volte
rischiava di smascherarlo – Kida Masaomi, di rimorchiare, non aveva mai la
minima intenzione in realtà.
La
ragazza alzò lo sguardo, seduta sul bordo di quella fontana qualsiasi di
Ikebukuro.
Mantenere viva un’illusione
era difficile.
Il ragazzo pensò che non
importava,
che quella ragazza
alzandosi,
andandosene o
assecondandolo,
ne decidesse le sorti.
«Perché?»
fu l’unica parola che pronunciò, il tono pacato, inclinando appena il capo
lateralmente.
Masaomi
si ritrovò a perdere il sorriso un po’ scemo con cui gli si era rivolto,
perplesso dalla domanda.
Lo
ripristinò quasi subito, sebbene con una sfumatura di confusione inevitabile.
«Perché
cosa?» le fece eco, quasi inevitabilmente.
Non
rispose subito, e in quella pausa disturbata solo dai rumori della città
trafficata Masaomi si prese qualche secondo per darsi la pena di osservarla.
Capelli
e occhi scuri come un qualsiasi giapponese, un’altezza moderata come la maggior
parte delle ragazze, un fisico nella norma come se ne vedevano in giro tanti da
farti dubitare che a volte le persone fossero fatte con lo stampino come i
dolci.
«Perché
me?» chiese lei più chiaramente, limitandosi ad osservarlo con espressione
quasi apatica che rendeva difficile capire se avesse posto la domanda per
sincera curiosità o meno.
La
vide alzare appena la mano e indicare dietro di lui, verso destra. Voltando la
testa quanto bastava a dare un’occhiata da sopra la propria spalla, intravide
un gruppo di ragazze.
Tornò
a guardare lei, occhieggiandola pur rimanendo con la testa leggermente voltata;
lei manteneva lo sguardo su quel gruppetto: «Hanno l’aria più allegra,
amichevole e di chi ha voglia di uscire. Perché me?» chiese per quella che,
alla fine, era la terza volta.
Masaomi
le osservò nuovamente: probabilmente quella ragazza si riferiva agli abiti più
colorati e “da uscita”, ai visi truccati anche se non necessariamente in
maniera pesante, e ai risolini che provenivano da quel gruppo; forse, quella
ragazza ricordava un pochino Anri. Solo più strana, più simile a…
Un
gatto., si
ritrovò a dare forma nella propria mente Masaomi, riscoprendosi ad incurvare le
labbra divertito senza un motivo.
«Perché
tu non hai l’aria allegra, amichevole e di chi ha voglia di uscire.» replicò
quasi in una presa in giro, come fra amici di vecchia data: «Ma nonostante
tutto non mi hai ancora mandato al diavolo.» aggiunse furbo.
Lei
non fece una risatina divertita, ma lo osservò in un modo che Masaomi non seppe
definire, nel quale tuttavia intravide una sfumatura di curiosità. Leggera, ma
c’era.
«Va
bene.» le sentì dire, mentre di nuovo lo lasciava un po’ confuso alzandosi in
piedi senza aggiungere nulla che ne rivelasse le intenzioni.
«Va
bene cosa?» chiese, quasi un’eco della domanda al suo “perché”, nemmeno fosse
un gioco.
«Va
bene, conosciamoci. Cosa vuoi fare?» chiese con tutta la naturalezza del mondo.
Che
persona strana., pensò mentre ridacchiava per dare poi voce ad un: «Passeggiata! E poi
seguirò l’impulso di questa passione improvvisa e inaspettata!»
Masaomi
le aveva chiesto di fermarsi in un bar ad un certo punto, uno di quelli dove si
poteva anche ordinare qualcosa da mangiare; uno qualsiasi sarebbe andato bene,
ma lei aveva scosso la testa, indicando di fronte a sé: «Andiamo un po’ più
avanti.» aveva detto.
Una,
due, tre volte.
Poi,
quando Masaomi aveva iniziato a chiedersi cosa passasse per la testa di quella
strana ragazza, lei aveva indicato nuovamente di fronte a sé fermandosi.
«Entriamo
qui.» aveva detto e l’attimo dopo Masaomi si era stupito nel riconoscere il
ristorante di sushi dove lavorava Simon.
Non
avevano mangiato granché, né parlato chissà quanto: lei non di certo, almeno.
Ad
eccezione del piccolo dialogo con Simon quando erano entrati e avevano ordinato
qualcosa, non aveva dimostrato di essere particolarmente chiacchierona.
«Oh,
Masaomi! E anche Naho-chan!» era stato il saluto di Simon nel vederli, tramite
il quale il biondo era venuto a conoscenza del nome della ragazza.
Lei
aveva alzato una mano, semplicemente, e sul suo viso si era fatto largo un
sorriso lieve, ma c’era stato – un attimo, per poi tornare all’espressione
placida e disinteressata di prima: «Oss, Simon.» era stato il suo saluto
all’uomo.
Dal
momento che Simon alle loro ordinazioni aveva accennato, riguardo a lei, ad un
“solito” Masaomi aveva immaginato – già intuibile dal saluto di lei in realtà –
che andasse abbastanza spesso a mangiare lì.
Durante
il tempo in cui avevano mangiato, Masaomi aveva parlato mentre lei per lo più
ascoltava: in realtà non lo guardava, focalizzando la sua attenzione sul sushi
che mangiava un po’ lentamente, intingendo i pezzi nella salsa di soia e wasabi1
in maniera quasi meticolosa.
Tuttavia annuiva ed un paio di volte – a battute piuttosto stupide – aveva alzato lo sguardo su di lui per qualche secondo.
«E
allora si è creato questo triangolo amoroso da film del cinema! Lui, lei e il
suo migliore amico! Cosa farà lui? Conquisterà lei ignorando i sentimenti
dell’amico? Lascerà stare lei per onorare la loro amicizia? Aaaah,
l’adolescenza e l’amore scolastico sono così complicati!» esclamò, camminando
di qualche passo avanti a lei, senza una meta precisa visto che Naho non era
voluta entrare nel conbini2 per prendere qualcosa da bere.
«C’è
anche un’altra opzione per lui.» lo interruppe a sorpresa, facendolo rallentare
abbastanza da farsi affiancare da lei: «Sarebbe?»
«Lasciar
stare lei e mettersi con l’amico.» disse, rischiando di far inciampare Masaomi
nei propri piedi: «Che?!» esclamò con una voce buffa tipica di chi ha appena
rischiato un forte shock.
Cercò
comunque di riprendersi – perché sia mai che qualcuno potesse dire di Kida
Masaomi che non era cool con le ragazze – abbozzando un sorrisetto
divertito: «Cos’è, sei una lettrice accanita di quei fumetti che piacciono
tanto alle ragazze?» chiese, il tono scherzoso.
Lei
scosse la testa, rallentando fino a fermarsi, indicando – com’era stato per il
ristorante di sushi – un distributore automatico.
«Non
è tanto strano.» pronunciò, facendo per dirigersi verso il distributore.
Masaomi la fermò: «Faccio io.» canticchiò, andando a prendere due lattine.
Una
volta di fronte a lei – seduta sul bordo di uno dei muretti che delimitavano
alcuni bordi delle strade abbelliti da piante che potessero spezzare la
monotonia di macchine e asfalto – gliene porse una facendole l’occhiolino,
complice.
Si
sedette quindi di fianco a lei, aprendo la lattina e bevendone un generoso
sorso, dopo il quale diede voce ad un: «Aaaah.» soddisfatto.
Notò
che lei teneva ancora la sua fra le mani: «Non ti piace?» chiese, vedendola
dirigere lentamente lo sguardo verso di sé.
«Mi
piace. Ma se bevo cose troppo fredde poi mi fa male lo stomaco.» spiegò,
facendo sì che il biondo ricollegasse la sua posizione al voler riscaldare il
contenuto della lattina.
«Cosa
non è strano?» chiese lui, riferendosi a quanto detto da lei prima.
«Un
maschio che si mette con un maschio. O una femmina che si mette con una
femmina.» replicò lei, impersonale.
Masaomi
alzò appena un sopracciglio: «Tu… sei un po’…?» azzardò, ritrovandosi a
ricevere uno scappellotto leggero sulla nuca, sorprendendosene.
«Mi
piacciono i maschi. E comunque non si dice “un po’ gay”. Non è mica come una
pietanza, che è “un po’ salata”.» lo riprese, completando inconsapevolmente il
quadro di se stessa formatosi nella testa del biondo per tutto quel tempo.
Masaomi
tacque mentre la osservava: d’aspetto quella ragazza sembrava come una ragazza
avrebbe dovuto essere.
Minuta
e dall’aria timida e fragile; anche l’abbigliamento un po’ lo suggeriva, forse
dandole anche un’aria infantile – pantaloni al ginocchio, maglia un po’ più
lunga della vita e un cappello di quelli molto da Karuizawa e Yumasaki, da
otaku, con le orecchie sulla parte alta anche se nel suo caso non davano molto
nell’occhio.
Però
l’atteggiamento era un po’ strano, per una ragazza: era un po’ scostante, era
capace di non parlare per un sacco oppure partire con discorsi come quello.
Non
aveva dato a Masaomi molta confidenza fino a quel momento, poi però se ne
prendeva tanta da dargli uno scappellotto come solo un amico di vecchia data
avrebbe fatto.
In
lui si rafforzò la sensazione di una certa somiglianza tra quella ragazza e un
gatto che può farti le fusa quanto graffiarti nell’arco degli stessi cinque
minuti.
Sorrise
divertito: dopotutto lo sapeva, che Ikebukuro era piena di gente strana.
Il ragazzo pensò che la ragazza
avesse
l’aria di qualcuno
né
particolarmente felice,
né
particolarmente triste.
«Com’è che ti chiami?» le sentì chiedere, ritrovandosi inevitabilmente a ridere una manciata di secondi dopo: «E me lo chiedi soltanto adesso?» le fece notare.
«Prima
non m’interessava. Uno che ti avvicina come hai fatto tu di solito non è
affidabile. Però ho aspettato per vedere se mi sbagliavo o no. Siccome ti sei
comportato bene e Simon ti conosce, penso che tu non sia uno con strane
fissazioni o passatempi. Perciò adesso mi interessa.» spiegò lei, limpida.
Masaomi
sorrise tra il furbo e il divertito: «E se invece Simon non ne sapesse nulla e
io fossi davvero uno con qualche idea strana?» ipotizzò tranquillo,
osservandola incuriosito dalla reazione.
Lei
aprì la sua lattina finalmente, tenendola con entrambe le mani e portandola
alle labbra. Dopo averne bevuto un sorso rispose, pur senza voltarsi a
guardarlo: «Sei troppo lento nel metterla in pratica per esserlo davvero
secondo me. Comunque, se lo fossi… non lo so. Non riesco a pensare al panico
ora come ora. Magari inizierei ad avere paura davanti al fatto compiuto.» se ne
uscì.
Masaomi
alzò le mani in segno di resa: «Mi arrendo, mi arrendo. Tu sei proprio una tipa
che non si scompone per nulla, eh? Naho-chan è così cool!» esclamò lui
in risposta.
«Non
è carino da dire ad una ragazza3.» gli fece eco lei, fissandolo: «E
comunque sei solo stato sfortunato. Qualche tempo fa magari ti avrei preso sul
serio. Pessimo tempismo, senza nome-san.» concluse bevendo un altro sorso.
Lui
rise: «Kida Masaomi.» la corresse.
Lei
alzò lo sguardo su di lui, senza mutamenti particolari dell’espressione:
«Masaomi-kun, allora.»
In quel momento, si
risvegliò dall’illusione,
perché anche Saki aveva
pronunciato,
tempo addietro,
quelle parole.
Ma fu solo un attimo; poi vi
sprofondò nuovamente.
Camminavano
da un po’ facendo la strada a ritroso.
Alzandosi
dal punto in cui si erano fermati a bere dalle lattine, la ragazza aveva
dichiarato di dover tornare a casa. Masaomi, senza chiedere aveva preso a
seguirla per accompagnarla.
Non
era un tipo particolarmente galante e, oltretutto, non cercava mai di
rimorchiare davvero.
Nemmeno
ora.
Ma
Naho era una persona un po’ strana, non era nemmeno totalmente classificabile
tra le ragazze intese come possibili interessi fisici o sentimentali; anche se
non avrebbe saputo dire con precisione quale sensazione gli desse.
Avevano
camminato per un tratto in silenzio, fino al punto in cui erano ora, meno
trafficato e che si spostava verso le vie con condomini e case modeste.
Più
silenziose e illuminate da pali della luce che non si avvicinavano molto
all’illuminazione del centro, parevano deserte nonostante fosse un orario
ancora accettabile.
Tuttavia
lui non le aveva chiesto nulla riguardo possibili lamentele dei suoi genitori
in merito, non ne aveva visto l’esigenza: dopotutto, era solo una ragazza
qualsiasi a cui aveva chiesto come sempre un tacito aiuto.
Anche
se lui per primo sapeva che dimenticare Saki non era possibile.
Aveva
già provato, volta dopo volta, ritrovandosi a fallire miseramente ognuna di
esse.
«Tu
sei il Kida Masaomi che era negli Yellow Turbans, vero?»
La
domanda arrivò così improvvisa e inaspettata che Masaomi avrebbe preferito una
secchiata di acqua gelida addosso; aveva abbassato totalmente la guardia in
quel senso e si ritrovava ora con addosso un’agitazione improvvisa e
incontrollabile, mista ad un senso di colpevolezza per il solo essere
appartenuto alla gang citata dalla ragazza.
Inoltre,
lo avevano assalito simultaneamente dubbi diversi, tra i quali spiccava quello
che si chiedeva come lei potesse saperlo; era entrato nel panico senza quasi
accorgersene, scivolandovi ad una velocità troppo elevata ed immediata per
potersene rendere conto abbastanza in fretta da calmarsi ed evitarlo.
Notò
che lei si era voltata, e ritrovò nella sua figura che pure non aveva nulla di
particolare che denotasse cambiamenti di espressione o di emozioni qualcosa di
Saki.
Forse
stava impazzendo.
Forse
Orihara Izaya aveva ragione sostenendo che Saki sarebbe divenuta il suo
personale Dio; senz’altro, era un’ossessione.
Quella
per la quale non provava interesse in nessun’altra.
Quella
per la quale non riusciva a liberarsi del passato e di quel senso di
inadeguatezza che non gli faceva mai oltrepassare la soglia di quel maledetto
ospedale.
«Tu
chi sei?» domandò guardingo senza poterlo evitare, come se dovesse difendersi
da qualcosa.
Lei
non parve stupirsene.
«Ho
sentito il tuo nome, quando ho incontrato gli Yellow Turbans. Tu però non c’eri
già più. Quella volta qualcuno diceva che “se
ci fosse il Generale, non agirebbe così!”. E qualcuno rispose: “Kida Masaomi non decide più per noi, ora che
se n’è andato!”. » spiegò, anche
se non rispondeva davvero alla domanda del biondo.
Alla
quale, come se se ne fosse ricordata solo in un secondo momento, rispose con:
«Fukada Naho.»
A
quel nome, Masaomi cercò di fare mente locale, senza riuscire ad estrapolare
nulla del suo periodo subito dopo aver lasciato la gang che lo ricollegasse in
qualche modo alla ragazza di fronte a sé.
Strinse
i pugni senza quasi rendersene conto, mentre gli unici ricordi che gli
tornavano in mente erano il senso di impotenza provato a pochi passi dal covo
dei Blue Square dove aveva abbandonato Saki, le lacrime di fronte al gruppo di
Kadota-san, e il terrore puro di affrontare qualcuno che ha rischiato di morire
a causa tua.
Qualcuno
così ossessionato dall’uomo che quella volta, quell’unica volta in cui avresti
fatto di lui il tuo punto di riferimento, non aveva risposto al telefono e al
quale aveva addossato una colpa che forse c’era.
Ma
forse no.
E
quello era la consapevolezza peggiore di tutte le altre che ancora lo
inchiodavano a terra, in quel momento, vicino a quel parcheggio sotterraneo.
Anche
un anno dopo.
«Non
ci siamo mai incontrati.» andò Naho in suo aiuto; Masaomi la osservò,
l’espressione ancora seria e sospettosa nonostante fosse portato a crederle per
il semplice fatto che non riconosceva alcuna menzogna nelle sue parole.
«Come
hai avuto a che fare con gli Yellow Turbans?» domandò, mantenendo lo sguardo su
di lei, chiedendosi se non fosse stata un membro per qualche breve periodo dopo
che lui aveva già mollato tutto.
Lei
lasciò passare un po’ di tempo, rimanendo in silenzio, quasi soppesando se dire
o meno la verità o semplicemente se rispondere o no al biondo che le stava di
fronte.
Optò
per un sì, probabilmente, visto che pronunciò: «Il mio migliore amico ha avuto
a che fare con loro.» con tono atono.
Masaomi
non riuscì a rilassarsi particolarmente a quelle parole.
«Se
gli hanno fatto qualcosa e cerchi la vendetta per il tuo amico, io non ne so
più niente ormai.» disse, anche se non era proprio vero.
Lo
avevano appena trascinato di nuovo in tutto quello, ancora una volta,
nonostante la sola idea gli facesse accapponare la pelle e rivoltare lo
stomaco.
«E
cosa pensi che me ne farei, della vendetta?» chiese di rimando, fissandolo.
La
voce non aveva assunto particolari tonalità rispetto a quella con cui Naho
aveva parlato fino ad allora, tuttavia a Masaomi era parsa più secca, in
qualche modo.
«Anche
perché scatenerei qualcosa di cui non voglio essere la causa. Se un membro di
una gang si vendicasse in modo così stupido, non otterrebbe nient’altro che un
grosso casino.» osservò, destando l’attenzione del biondo.
«Membro
di una gang? Tu?» chiese infatti osservandola, le mani portate entrambe in
tasca.
E
in quel momento, quando la sensazione di una persona in qualche modo
particolare di fronte a sé si mescolò a quella frase che ultimamente si
ripeteva nella mente e aveva ignorato poco prima di incontrarla, Masaomi trasalì.
«Dollars.»
E
quella parola confermò il pensiero che aveva preso forma in quel preciso
istante.
Certo
che sarebbe stato un gran casino, se una dei Dollars si fosse vendicata dell’ex
“generale” degli Yellow Turbans, per di più appena tornato operativo all’insaputa
dei più.
«Akira»
riprese, e Masaomi suppose che parlasse dell’amico in questione: «aveva avuto
dei problemi con quella gang. Allora un giorno, mentre tornavamo da scuola, li
abbiamo incontrati, alcuni tipi che portavano bandane di quel colore.» iniziò
lei.
Masaomi
deglutì: sentiva che non gli sarebbe piaciuto affatto, perché somigliava a
qualcosa di familiare.
Troppo,
tragicamente familiare.
Il ragazzo
pensò,
per un folle
attimo d’impulsività,
di fuggire
lontano da lei.
Dalla ragazza
che raccontava di un ragazzo che,
finito nei
guai con una gang,
ne aveva
subito le conseguenze,
vedendosi
divenire la causa del dolore della persona cara.
«Hai
saputo? Ho sentito che Fukada della sezione D è stata assente per un sacco di
giorni e che è tornata in uno stato strano.»
«Che
vuol dire in uno stato strano?»
«Beh,
non so se la conosci, ma io ci ho parlato diverse volte per il club. Sembra che
non le importi più nulla di niente, da quando è tornata. Ci guarda quasi con
superiorità.» spiegò la compagna, mentre sia lei che le sue interlocutrici
guardavano in direzione della ragazza di cui stavano parlando, che passava in
quel momento per il corridoio.
«Ma
dai, proprio Fukada-san? Sei sicura?» chiese una, perplessa.
«Ti
dico di sì. Ha pure lasciato il club.» confermò con l’aria di chi la sapeva
lunga.
Fukada
Naho non era il tipo da essere sulla bocca di tutti come in quel momento,
pertanto era probabile che molti si aspettassero che da un giorno all’altro
cedesse: non era certamente in grado di fronteggiare una situazione in cui si
ritrovava al centro di chiacchiere continue.
«E
poi, non sta più con Kitagawa-kun. Si comportano come due estranei.»
«Ma
dai, se sono amici di infanzia e Kitagawa-kun è il suo migliore amico!»
«Tu
non li vedi in classe. Quando Fukada-san è entrata l’altra mattina lui non l’ha
nemmeno salutata. Lei ha guardato verso di lui, ma non ha detto nulla e così
per i giorni seguenti fino ad oggi. Me l’ha detto un’amica che è in classe con
lei.» continuò, assicurando l’attendibilità delle sue fonti.
Fukada
difficilmente avrebbe potuto guardarle con superiorità e non per quello aveva
quell’atteggiamento scostante; tuttavia, da quando era tornata non si era data
pena di spiegarsi, lasciando che ognuno credesse cose diverse fino a mescolare
tanto le possibilità da non sapere più quale fosse la verità.
Non
aveva nemmeno più parlato con Kitagawa Akira, perché lui le aveva chiesto di
non farlo; implicitamente, quando quella sera una gang dagli indumenti gialli
aveva fatto scontare al ragazzo un torto nei loro confronti in un modo molto da
film americano.
Ma
soprattutto, l’aveva silenziosamente supplicata quando al suo ritorno a scuola
non le aveva nemmeno rivolto la parola.
Lei
aveva rispettato al sua decisione: non perché volesse passare per l’eroina o la
persona comprensiva in tutta quella faccenda.
Aveva
solo pensato che fosse giusto.
E
che, dopotutto, non fosse poi così importante, né così strano.
…No?
«Grosso
modo, è così che è andata.» concluse, il tono tutto sommato placido a fine del
racconto che Masaomi le aveva chiesto per chiarire la situazione in cui
versavano – quanto doveva effettivamente temere un membro dei Dollars che lo
conosceva e che sembrava aver avuto a che fare con la sua gang in maniera non
troppo piacevole?
Ma
Masaomi non vedeva lei; sembravano più accuse di Saki, la cui immagine si
sovrapponeva a quella di Naho, nonostante non si assomigliassero nemmeno
vagamente.
Aveva
ascoltato in silenzio di come, tornando da scuola, quel giorno avessero
sorpreso lei e Kitagawa-kun, finendo con l’obbligarli a seguirli.
Di
come aveva scoperto che Kitagawa-kun, chissà come e quando, oltre ad essere
entrato in contatto con persone come quelle aveva fatto in modo di
indispettirle tanto da provocare una reazione del genere; aveva visto – per quanto
fosse possibile nel locale in cui erano finiti a discutere, illuminato da luci
al neon fastidiose e un po’ accecanti – picchiare Akira.
Era
stata sorpresa, all’inizio, aveva detto: perché Akira era figlio di una buona
famiglia, che si supponeva quindi non si sarebbe mai dovuto nemmeno avvicinare
ad un ambiente come quello delle gang.
Aveva
ammesso di essere stata terrorizzata, quella volta, da quei tizi che vestivano
indumenti gialli e che ad un certo punto avevano detto ad Akira: «Allora ce la
prenderemo con la tua ragazza.»
Non
c’era stata alcuna violenza di tipo sessuale, aveva assicurato.
Qualche
molestia vaga, accennata più per spaventare che non per reale intento: c’erano
state più percosse, in verità.
Ma
quello che ricordava, aveva detto Naho – Masaomi aveva codardamente abbassato
lo sguardo molto prima che il racconto giungesse a questo punto – era lo
sguardo terrorizzato di Akira.
«Per
questo, tornata a scuola non abbiamo più parlato.» aveva detto quasi a
conclusione del racconto: «Penso che non potesse più funzionare comunque,
un’amicizia come la nostra. Guardandomi, lui temeva che si sarebbe scoperto che
nonostante le origini e la famiglia alle sue spalle aveva a che fare con le
gang. Io, quando lo guardavo, finivo per ricordare troppo bene lo sguardo di
Akira che mi aveva spaventata tanto.» aveva spiegato.
Masaomi
aveva stretto i pugni per riflesso, chiedendosi se non fosse destino il suo;
sfuggire a Saki e ritrovarsi a parlare con qualcuno che le somigliava
intimamente, più che per un aspetto totalmente dissimile.
L’esperienza,
le analogie e la stessa bieca, codarda fuga del responsabile.
Quell’Akira
in un altro contesto lo avrebbe sicuramente biasimato ad alta voce, sostenendo
che se lo avesse incontrato lo avrebbe volentieri picchiato.
Ma
si rendeva poi conto che non c’era “un altro contesto”, ma solo quello in cui
erano in quel momento e che esso implicava che lui non potesse azzardare alcuna
azione e alcun parere; lui e Kitagawa-kun erano uguali dopotutto.
Erano
scappati entrambi.
Solo,
Kitagawa-kun non era mai tornato, mosso probabilmente da una paura molto simile
a quella che inchiodava Masaomi al passato.
«Forse
capisco perché dici che non ce l’hai con me. Perché effettivamente io non
c’ero. Ma non dovresti essere a disagio sapendo chi sono?» la interrogò, ancora
senza alzare lo sguardo su di lei – era più forte di lui – il tono serio così
inusuale per Kida.
«Perché
hai accettato di venire?» chiese più schietto.
Lei
– anche se il biondo non poté notarlo – lo osservò: «Perché dovrei avere paura
di qualcuno che non riesce nemmeno a guardarmi in faccia mentre parla?» domandò
di rimando, il tono che era morbido nonostante le parole fossero dure, secche.
Masaomi
trasalì a quella domanda, anche non visibilmente.
E
rise, una risata sommessa e bassa, fatta di sarcasmo e con una nota di
disprezzo che era fin troppo facile da interpretare come quel tipo di biasimo
che si indirizza a se stessi.
«È
colpa tua, che assomigli troppo ad un’altra persona.» replicò; poteva sembrare
una risposta infantile, ma era forse la cosa più sincera che Kida Masaomi
avesse mai detto ad una ragazza con il medesimo ruolo di Naho – quello del
personaggio secondario che cerca di sviare l’eroe dalla sua missione, o che
cerca di diventare importante per il protagonista senza riuscirvi, destinata al
fallimento. Era il ruolo che tutte le ragazze avevano per Kida Masaomi.
Anche
Sonohara Anri.
Anche
se non lo diceva e giocava al triangolo amoroso con Mikado.
«Siamo
pari. Anche tu somigli ad Akira.» se ne uscì lei, sorprendendolo al punto tale
da fargli alzare istintivamente lo sguardo sul viso della ragazza.
Lei
parve soddisfatta dal proprio operato che le aveva permesso di far sì che
almeno non fosse costretta a guardare la testa del biondo anziché la sua faccia
mentre parlavano.
«Come
fa una persona che viene picchiata da una gang ad entrare in una gang a sua
volta?» chiese con tono sommesso, quasi stesse pensando ad alta voce più che
chiedendo a lei: «Perché sembra come se voi non incolpaste chi ne è stato la
causa?» aggiunse, parlando al plurale senza nemmeno accorgersene.
Perché
lei e Saki perdonavano, o non incolpavano, quasi fingendo che non fosse
accaduto?
Nonostante
il modo quasi diametralmente opposto di reagire, alla base c’era quella
noncuranza inaccettabile, fastidiosa.
Completamente
innaturale.
«Ho
pensato che non ci fosse nulla di strano. E poi i Dollars sono una gang che,
secondo me, non è una gang. Non per come la intendono tanti.» replicò criptica
forse, riferendosi all’assenza di regole di quel gruppo probabilmente, che lo
rendeva diverso dagli altri.
Almeno
in parte.
«Non
c’è bisogno di incolparvi. Lo fate già da soli.» riprese, osservandolo con un
misto di chi sta studiando le tue espressioni per capire, e di chi guarda
qualcosa di già visto.
«Mi
chiedo se tu sia come lui con la persona a cui somiglio. Però a te non lo
chiederò. Tu non mi hai chiesto come va ora con Akira.» gli fece presente, come
se quello fosse da considerarsi un qualcosa per cui dimostrare gratitudine al
biondo.
Masaomi
abbassò lo sguardo; sorrise e basta, di quel sorriso che Anri e Mikado
probabilmente non avrebbero visto mai.
«Come
va ora con Kitagawa-kun?» chiese, quasi volesse farlo per ripicca senza darsi
la pena di nasconderlo.
Naho
alzò un sopracciglio perplessa, fissandolo forse per la prima volta con
un’espressione non totalmente apatica.
Sapeva
di poter sembrare crudele,
nel
fare quella domanda.
Tuttavia qualcosa nella sua
mente,
guidata forse dalla
pressione che quel passato esercitava su di lui,
gli aveva suggerito quella
specie di gioco,
tipico più di persone come
Izaya, che non come lui:
esorcizziamo il peggio di
noi,
attraverso il peggio degli
altri.
Osservò
il pc caricare la pagina, indeciso.
Non
era del tutto convinto di volerlo fare; gli ultimi giorni erano stati di quella
piattezza che arriva implacabile dopo che qualcosa ti ha smosso dentro con
tutte le sue forze lasciandoti privo della voglia di fare qualsiasi cosa,
completamente spossato.
Scosse
la testa, alla fine: che cavolo, da quando si faceva tutti quei viaggi mentali
inutili? – tutti quei problemi erano tipici di Mikado, non suoi.
Digitò la password, accedendo alla chat e vedendo il primo messaggio che appariva sempre automaticamente quando qualcuno faceva il login.
Bakyura
è entrato in chat, lesse meccanicamente, visto che non era la prima volta che vi
accedeva.
Notò
quasi subito i saluti istantanei al suo ingresso di Tanaka Tarou, Kanra e
Setton-san – a volte si chiedeva se avessero una vita o essa fosse
principalmente su quella chat…
Ricambiò
velocemente, dando un’occhiata agli altri presenti – un paio, di cui uno
sembrava non scrivere da un po’.
Con
la scusa di allontanarsi un attimo dal pc, rimase in realtà a leggere
passivamente i commenti per diversi minuti in cui i soliti argomenti avevano
animato lo scambio di opinioni fra gli altri utenti – di nuovo la storia del
tizio che andava ferendo gente in città a quanto pareva.
Si
lasciò cadere all’indietro, fino a poggiarsi di peso contro lo schienale, lo
sguardo al soffitto.
Non
importava quanto ci pensasse, alla fine si tornava sempre allo stesso punto.
Akira?
Lui è ancora il figlio di buona famiglia che non frequenta certi ambienti, aveva risposto Naho quando
erano ormai arrivati nei pressi di casa sua – non pareva arrabbiata, e Masaomi
non sapeva dire se questo lo avesse spaventato o irritato, ma probabilmente
erano accadute entrambe le cose .
Poi, sulla porta, quella ragazza che era stata e sarebbe rimasta una qualsiasi a cui aveva fondamentalmente chiesto di allontanarlo per un po’ da un problema chiamato senso di colpa aveva abbozzato il sorriso più terrificante del mondo.
Quello
che diceva che dal senso di colpa non c’era scampo, e confermava parole che non
voleva sentire mai – Izaya-san ha detto così – pronunciate da un uomo
che siccome non credeva in Dio, allora si fingeva candidato alla sua carica
giocando a fare l’oracolo.
Però
in una cosa non vi somigliate affatto, gli aveva detto, Akira-kun una volta che ti
volta le spalle, non torna più indietro.
Suonava
come un complimento; perché lui quelle spalle non le aveva ancora voltate.
Il ragazzo, cercava di
cambiare un poco alla volta.
Ma la sua realtà era come un
cerchio:
non si interrompeva mai.
Ma in realtà quella era… una condanna, giusto?
Due
parole dell’autrice
Innanzitutto
grazie a Gioielle e LitaChan per aver commentato “Omoshiroi”.
Quanto
a questa shot, l’intento era distruggere con un po’ di sane pare mentali Kida:
Saki reagisce in un modo un po’ particolare a quanto le succede (merito delle
panzane di Izaya immagino x°) e mi stuzzicava l’idea di farlo confrontare con
qualcuno di passeggero, che magari non incontrerà mai più, che poteva aver
reagito in modo totalmente diverso e quasi paradossale.
…Ho
idea di non esserci riuscita granché.
Ma
dal momento che mi sono ripromessa di non cestinare nulla finché è leggibile
almeno per la grammatica, ho deciso che la pubblico comunque.
Mazzolatemi
fino a farmi piangere, se me lo merito e_e *fa puff*