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Autore: E u r eka    19/05/2010    1 recensioni
Venni alla verità che non era quella che tu o altri volevate raccontarmi, ma quella che ho scoperto da me, che ho imparato a riconoscere come mia. Vidi che potevo essere me stesso in qualsiasi forma, che l’apparenza era mera illusione mostrata dall’occhio narciso, che ciò che contava era la sostanza, il cuore e i sentimenti racchiusi in ognuno di noi. Vinsi la mia paura di rimanere solo, gli scheletri nell’armadio e la continua negazione di quel che ero e rimarrò, l’opportunità meritata di tornare al me originale e riconquistato.
Venni, vidi, vinsi e ora ti aspetterò.
[Spoiler capitolo 107]
Genere: Generale, Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Alphonse Elric
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Venni, vidi, vinsi.

 

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Alphonse aveva sempre pensato che la sua non-vita fosse qualcosa di estremamente interessante.
Tale curiosità, un po’ di dolcezza a rendere meno amara la pillola da mandare giù, nasceva da molteplici fattori tra cui la natura insolita del suo stato e quella stessa situazione che aveva ritenuto –erroneamente- unica nel suo genere e che l’aveva perciò spinto a studiarla circospetto. 
Era piuttosto fiero, un orgoglio agrodolce, dell’espressione di malcelata meraviglia dipinta sul volto di chi gli passava accanto, come pure dell’essere scambiato per il suo fratellone, nonostante l’evidente fastidio isterico di cui fosse preda l’altro in simili occasioni, ma anche l’orgoglio aveva macchie a renderlo imperfetto e quello che tanto lo rendeva felice, non poteva evitare di riportargli alla mente l’altra faccia della medaglia e cioè che era un bambino. 
Un bambino privato anzitempo dell’amore materno e che proprio in nome di quello stesso storge(1) aveva intrapreso la strada del suo destino, un quattordicenne senza cuore e strappato alla propria casa, al proprio corpo e alla stessa vita per recuperarne una parvenza. 
Poteva un’anima senza involucro a contenerla definirsi essere umano? Poteva chiamarsi con lo stesso appellativo di quei simili che ora apparivano tanto diversi, tanto lontani? Certo che sì. 
Non è l’aspetto ad identificare un uomo per quel che è, ma ciò che ha dentro a caratterizzarlo, renderlo unico ed insostituibile e almeno sotto quel punto di vista lui poteva dirsi più che a posto. 
Il fratellone gli aveva sempre ripetuto che non ci fosse nulla per cui sentirsi colpevoli, che il loro prezzo l’avessero pagato quel giorno che ora appariva tanto distante e che non ci fossero motivi per cui rammaricarsi delle scelte passate, per soffrirne. 
Era un bugiardo il fratellone perché, se avesse avuto ragione altrimenti, non avrebbe dovuto lui stesso provarli quei sentimenti che tenacemente voleva fossero scacciati da entrambi, ma sulla cui presenza poteva contare sempre e in qualsiasi momento. 
Quel senso di colpa tacito tra loro, la tristezza procurata dai ricordi del passato e la nostalgia di ciò che si erano lasciati alle spalle per recuperare qualcosa che non sarebbe mai tornato ad essere ciò che era stato prima, a rivestire lo stesso ruolo; quelle emozioni che Ed non voleva che sentisse, lui non poteva fare a meno di percepirle, indiscussa e gioiosa conferma che in quel guscio di ferro albergasse qualcosa di diverso dall’aria e il vuoto insondabile. 
L’assenza di una fisicità, un’individualità contornata da sensazioni e labili strascichi di cognizioni sensoriali, del calore di una pelle che non c’era, di un organismo che procedeva col suo piano regolatore altrove, di mani, piedi, occhi e bocca spogliati della loro funzione, di una corporatura scheletrica in cui le ossa premevano per uscire come uccelli in gabbia. Tutto questo Al lo sentiva dentro di sé. 
Avvertiva l’impellente bisogno di qualcosa che non aveva e non gli apparteneva più se non nel nome, l’esigenza di abbracciare quel qualcosa indefinito ed illudersi di sentirne il tepore a contatto con le sue dita ghiacciate, metalliche. 
Al lo sentiva, l’aveva sempre sentito e quel bisogno astratto era sempre stato fedelmente affiancato dal sommesso sussurro di un richiamo delicato, appena accennato, ma che risuonava assordante nell’elmo cavo, disperato come lo era stato lui nelle prime notti di separazione, divorato dall’orrore di se stesso, la repulsione per quell’armatura vuota e il riflesso dello specchio che non riconosceva ed era suo solo quando –se- ad osservarsi era negli occhi di Ed. 
E ora lo vedeva. Quel corpo a lungo cercato, a lungo bramato, quel corpo le cui lacrime tanto aveva desiderato versare, quel corpo che avrebbe dovuto rifiutare, che, ora come ora, gli era perfettamente inutile, di intralcio.
Come avrebbe potuto combattere con quelle braccia così gracili? Correre su quelle gambe sottili che a malapena reggevano il peso del busto e tremavano già in piedi? E come poteva, però, tornare indietro a mani vuote? Gettare al vento l’opportunità straordinaria inseguita in tutti quegli anni di essere di nuovo completo, di nuovo se stesso?
La risposta era già nel sorriso sottile nella malinconia del suo sé, negli occhi tristi, ma consapevoli e nella mano tesa versa la sua, nel polso e nel movimento dell’arto che lasciava intendere stesse per tornare al proprio posto, inchinandosi alla decisione che aveva compreso l’altro avesse ormai preso.
C’era un non so che di definitivo, il tragico dubbio a tormentarlo, renderlo meno sicuro arricchendo così quel suo fantomatico ritorno appena promesso, una rimostranza tacita alla scelta dell’anima nobile, libera dai peccati e vizi capitali, a svolazzare maligna in quell’anfratto luminoso e infinito, dove tutto era bianco eppure di un candore opaco e sporco come i pensieri di chi vi era incarcerato dalla sua creazione, dove tutto diveniva di un giusto sbagliato, costretto che feriva gli occhi. 
Alphonse corse all’uscita, rifuggendo da quel luogo di perdizione e verità sconsacrate e ancora una volta fu con una sofferenza fiera, la consapevolezza della scelta migliore ad accompagnarlo, che si voltò, l’ombra di un sorriso di scuse inespresso sul volto ferrigno, coperto per metà dalla spalla e la schiena ampia. Uno sguardo che di colpevole non aveva nulla tranne che il pensiero, già rivolto a coloro che erano aldilà del portale maledetto e delle braccia e mani infingarde che lo ghermivano insidiose.
E quello che si lasciava indietro, cupidigia ed egoismo mai soddisfatto, parlò alla Verità senza più sorridere, parole le sue che erano garanzia di disperazione e insieme speranza rifiutata.  

 
C’era ancora qualcosa che andava fatto, qualcosa a trattenerlo su quel terreno pieno di detriti e distruzione, ad ancorarlo lì oltre le gambe impossibilitate a muoversi. 
Rinunciare al proprio corpo per combattere e poi trovarsi comunque intralciato dall’altro corpo, quello fittizio che aveva scelto di occupare ancora per rendersi utile, era ciò che avrebbe esemplificato come dimostrazione perfetta di quel che veniva definito contrappasso(2)
Tuttavia tornava a suo vantaggio perché gli rendeva possibile quello che, solo ora riusciva a realizzarlo, era sempre stato un suo sogno. Dimostrare la gratitudine al fratello che tanto gli aveva dato e per il quale tanto avrebbe dato, diventava realizzabile, concreto come le lacrime di May che si apprestava a fare quel che le aveva chiesto, come l’urlo accorato di Ed a risuonare distante e terribilmente vicino, struggente di dolore e consapevolezza impotente e anche rabbia, come la luce abbagliante che lo inghiottì mentre scompariva, affidando ad una realtà che si dissolveva, un arrivederci rassicurante che non emise suono.

Tu devi combattere fratellone per salvare tutti quanti e poi venire a prendermi. 
Io ti aspetterò perché credo in te, per questo..   

«
Fratellone... vinci.»
Io ti aspetterò, ti aspetterò.

 

Venni alla verità che non era quella che tu o altri volevate raccontarmi, ma quella che ho scoperto da me, che ho imparato a riconoscere come mia.
Vidi
 che potevo essere me stesso in qualsiasi forma, che l’apparenza era mera illusione mostrata dall’occhio narciso, che ciò che contava era la sostanza, il cuore e i sentimenti racchiusi in ognuno di noi.
Vinsi
 la mia paura di rimanere solo, gli scheletri nell’armadio e la continua negazione di quel che ero e rimarrò, l’opportunità meritata di tornare al me originale e riconquistato.


Venni, vidi, vinsi e ora ti aspetterò.

 

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Storge(1): (στοργή) è l'amore d’appartenenza, ad esempio tra parenti e consanguinei (Wikipedia).
Contrappasso(2):  http://it.wikipedia.org/wiki/Contrappasso.

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Non ho seriamente corso il rischio di scoppiare in lacrime a questa scena solo perché stavo già piangendo. Ho letto da poco gli ultimi capitoli usciti e mi ero prevedibilmente commossa pensando che la fine è vicina, ma guardando questo ç___ç mi è venuta una stretta al cuore. Alcune volte odio davvero Al perché è troppo buono, troppo ingenuo, troppo caritatevole, altruista, generoso, troppo bambino, perché questo lato del suo carattere finisce col ritorcersi sempre contro lui ed Ed, ma proprio per questo suo essere così non posso fare a meno di volergli ugualmente bene. Inoltre, a giudicare dalla reazione più che prevedibile del fratello, c’è da sperare e augurarsi che si riesca ad avere un lieto fine come Dio comanda, diversamente da quello dell’anime che, ricordo più che bene, mi lasciò annichilita, anche se chiamarlo fine o anche lieto è davvero troppo. Vedere Edward senza automail mi ha stranito e anche Al o immaginarlo senza armatura non poco, ma penso sia normale e boh, se così non è, ci farò comunque l’abitudine credo..
Un saluto a tutti e a presto!<3

  
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