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Autore: kiku77    22/05/2010    8 recensioni
Al rientro dal Brasile e dopo gli impegni con la nazionale, Tsubasa si concede una settimana alle Hawaii per ultimare la sua preparazione atletica: il suo sogno di andare a giocare in Europa sta per diventare realtà.Cosa succederà a Sanae, invece?
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Sanae Nakazawa/Patty Gatsby, Tsubasa Ozora/Holly
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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PREMESSA:

Ciao a tutti. Scusatemi, questo non è l’ultimo capitolo…

Come vedrete, è molto lungo ( rispetto alla lunghezza media dei miei cap, intendo), ma ho seguito l’istinto e il P.S. lasciato da Marychan82 nella sua recensione, che ringrazio di cuore. Non l’ho diviso perché è tutta un’unità narrativa. (Spero non risulti troppo pesante).

Però, scrivendo le frasi finali, mi sono resa conto che non c’era ancora tutto… è difficile da spiegare perché è qualcosa di completamente irrazionale: stamattina ( 21.05.) mi sono svegliata e ho “visto” nella mia testa un altro pezzettino della storia. Non l’ho ancora scritto, ma si tratta credo di un altro cap ( non so se lungo o corto, ancora devo riflettere). Scusatemi ancora. Le risposte alle recensioni sono in fondo, come sempre.

_____

Sanae era a Barcellona da tre settimane ormai. Era al settimo cielo.

I giorni erano trascorsi ad esplorare la città, in parte con Tsubasa, in parte da sola.

Avevano visitato già molti musei e molti monumenti importanti e il capitano l’aveva voluta con sé nelle partite giocate al Camp Nou. Sanae era passata attraverso mille emozioni diverse e in più di un’occasione aveva pensato a come potesse reggere tutta quella gioia in una volta. Era stato bellissimo veder giocare Tsubasa dal vivo ed era rimasta estasiata dalla sua bravura, dalla sua sicurezza in campo.

Gli impegni sportivi erano molti e lei aveva avuto tempo di andare all’università, prendere i contatti con il tutor che seguiva gli studenti stranieri e iscriversi ai corsi preliminari di lingua. Le lezioni ufficiali non sarebbero cominciate che in ottobre, perciò aveva tutto il tempo di abituarsi alla sua nuova vita e di migliorare il suo spagnolo.

Ancora non aveva avuto modo di parlare con Tsubasa di questo, però; c’erano stati due incontri decisivi per il Barcellona nella Liga e la partita in trasferta contro il Lione per accedere alla fase successiva della Champions League: i giocatori erano stati anche in un mini ritiro di quattro giorni e Sanae si era accorta di quanto stress e quante energie nervose accompagnassero i momenti decisivi prima delle partite. A volte lui semplicemente si estraniava da tutto e da tutti e sembrava in un'altra dimensione: lei lo conosceva bene e sapeva che doveva solo lasciarlo stare e rimanergli accanto.

Per tutti questi motivi, aveva preferito far passare il suo soggiorno a Barcellona come il regalo per il diploma e sull’argomento non erano più tornati.

L’esplorazione non si esauriva sulle strade e sui vicoli di quella città che a Sanae era parsa splendida da subito: essa continuava di notte.

Avevano esaminato, come imprigionati nella rete di un pescatore, ogni millimetro del loro corpo, godendo l’uno dell’altra fino all’inverosimile. Sanae aveva scoperto moltissime cose su se stessa, sul piacere che poteva provare e che ogni notte aumentava, e sembrava lasciare spazio a nuove sensazioni, nuove prospettive.

Tsubasa era ormai una causa persa: appena rientrava dagli allenamenti, ascoltava i rumori dell’appartamento che profumava di gelsomino ed era sempre in ordine, per scovare in quale stanza lei si trovasse e poi la faceva sua. Non riusciva a fare altro: come un tormento, un bisogno che era sì corporale, ma che se non si esaudiva, diventava un dolore mentale, non poteva che cercare di toccarla e baciarla.

Era innamorato di lei, del sapore che aveva il suo corpo perché era diventato la sua mappa: aveva scoperto un neo piccolissimo su un fianco ed era quello il punto da cui tutto partiva; da quel minuscolo segno, il capitano si orientava e decideva quale via prendere, per amarla. Ogni volta il tragitto cambiava; ogni volta gli sembrava di provare qualcosa di nuovo.

Non aveva avuto il coraggio di chiederle quando sarebbe dovuta ripartire: non poteva più immaginarsi senza di lei, senza il suo corpo sul letto. I quattro giorni di ritiro e la notte in Francia per la partita di Champions, erano stati una lenta agonia. Pensava continuamente di parlarle, di chiederle di restare, ma vuoi per paura, vuoi perché il tempo fra un allenamento e l’altro passava troppo veloce, non aveva ancora trovato il momento giusto.

Quella mattina era uscito presto per andare a correre e, come sempre, quando poteva, si era fermato al forno dietro al parco, per comprare il pane.

Entrando in casa, aveva sentito il profumo del limone per il tè e aveva trovato Sanae, già seduta, intenta a preparare le tazze. Fare colazione con lei era stupendo.

L’aveva abbracciata e baciata stringendola forte e poi le aveva dato il pacchetto che ancora era caldo.

“Che buono questo pane…” disse Sanae, aprendo il cartoccio e portandosi il contenuto vicino al volto per annusare ogni molecola di odore.

Tsubasa le sorrise.

“Ci vuoi la cioccolata, vero?” chiese Sanae.

“Sì… grazie”

Sanae si voltò e cominciò a tagliare le fette che disponeva a mano a mano in un bel piatto bianco con una vena blu intorno.

Tsubasa andò un secondo in camera; voleva togliersi le scarpe e asciugarsi il sudore per bene. Avrebbe fatto la doccia con calma dopo la colazione.

Sedendosi sul letto, buttò l’occhio distrattamente sulla scrivania e vide la solita cartellina rosa che occupava una fetta del ripiano. Era di Sanae ed era gonfia di fogli.

Si era chiesto cosa ci fosse dentro, ma l’idea di aprirla non gli era passata mai di mente.

“Forse c’è anche il suo biglietto di ritorno…”

Si fermò un istante e poi, senza ragionare troppo, avanzò e l’aprì. Il terrore che la data del rientro fosse imminente lo faceva tremare; sarebbe stato più corretto prendere Sanae da una parte e chiederglielo. Ma guardare lì era una via per prendere coscienza del fatto che la realtà era diversa da ciò che stavano vivendo e forse Tsubasa avrebbe avuto modo di prepararsi meglio e decidersi a chiederle di fermarsi.

C’erano tanti fogli, alcuni scritti anche in spagnolo: nessuno sembrava un biglietto aereo. Li scorse velocemente perché sentiva di essere in torto.

“... il tè si fredda, Tsubasa…” disse Sanae, entrando nella stanza.

Lui smise subito di frugare e si girò con aria perplessa.

“Cosa stai facendo?” chiese Sanae che non credeva ai suoi occhi.

“Niente… io… mi chiedevo… cercavo il tuo biglietto di ritorno…”

Sanae lo fissò poi si avvicinò spingendolo lontano e prendendo nervosamente a fare ordine nella cartella.

“Non c’è il biglietto di ritorno, Tsubasa, sei contento? Io studierò qui a Barcellona. Per te… lo sto facendo per te… per noi…  ma vedo che ti sei già stufato di avermi intorno! Se hai così tanta fretta di rispedirmi in Giappone… non ti penare troppo, non mi illudevo di stare qui a tue spese. Ho vinto una borsa di studio e ho diritto ad una stanza negli alloggi universitari… bastava chiederlo… te ne avrei parlato non appena fossi stato un po’ più libero dagli impegni sportivi… non ti azzardare mai più a mettere le mani nelle mie cose!”

Ripose la cartella sul ripiano, s’infilò le scarpe e uscì sbattendo la porta.

Tsubasa rimase fermo e le parole di Sanae erano impresse nella sua testa come uno schiaffo. Provò una gioia immensa, anche se in quel momento prevalse la sensazione di essere davvero un idiota.

 

 

 

Yukari fece l’ultimo pezzo di salita con meno affanno del solito: d’altra parte era già da una settimana che si trovava in quella valle, a casa degli zii, e tutte le mattine aveva percorso quei pochi ma scomodi chilometri per arrivare alla sorgente sacra.

Prima di arrivare lì, aveva viaggiato verso l’interno del paese, senza però seguire un itinerario in particolare. Alla fine, aveva deciso di andare nella valle del tempio perché ci aveva passato ogni estate dell’infanzia e aveva sentito che era giunto il tempo di tornarci. Gli zii, che erano agricoltori, l’avevano accolta con gioia e sorpresa. La zia l’aveva stretta a sé, come se fosse ancora bambina ma non aveva fatto domande. Era la sorella di suo padre, anche se aveva un carattere completamente diverso: sapeva ascoltare benissimo, ma solo se il suo interlocutore aveva voglia di raccontare. Appena si era ritrovata Yukari di fronte, aveva capito, che la ragazza  tutto voleva tranne rispondere alle domande curiose di una coppia senza figli che lavorava la terra. Così le aveva preparato il letto, aveva cucinato per lei ed erano rimaste a guardarsi sorridendo.

Yukari aveva ascoltato i racconti del raccolto dello zio e aveva assistito alla descrizione minuziosa del nuovo trattore che aveva acquistato. Si era sentita al sicuro e non le era pesato affatto assecondare l’entusiasmo dell’uomo, che aveva sempre desiderato un figlio e non era riuscito ad averlo.

La valle era dominata dal grande tempio e c’era sempre un gran via vai di persone che vi andavano in preghiera o a visitarlo, portando fiori e origami in dono.

C’era andata anche lei, non appena aveva sistemato le sue poche cose. Si era messa in preghiera, senza pregare, solo per rispetto agli altri fedeli e aveva deposto un piccolo fiore bianco ai piedi del dio del sole.

Poi aveva subito raggiunto la sorgente sacra e così aveva continuato a fare per tutti gli altri giorni.

Camminava in silenzio, sentendo che la parola non era più necessaria, perchè non c’era nessuno che volesse invadere il suo mondo e forse nessuno avrebbe ritenuto interessante la sua storia. Non c’era bisogno di fare molto: era sufficiente tenere il passo ad un certo ritmo e fare un sorriso di tanto in tanto se incontrava un pellegrino sulla sua via, o al ritorno. Una volta arrivata, si sedeva e restava un po’ lì, senza far niente. Lasciava che il cuore rifiatasse, così come i polmoni e respirava sentendo la testa vuota.

Quella mattina, osservò con attenzione il getto d’acqua che scoppiava dalla roccia e ricadeva a fiotti sulla terra, sul letto di quello che sembrava essere a tutti gli effetti un torrente.

L’acqua faceva un rumore costante e rompeva il silenzio con il suo tempo binario. Si avvicinò alla fonte visto che non c’era nessuno; mise la mano proprio sotto il getto e poi, d’istinto, si bagnò la fossetta del collo.

“Proteggilo ovunque sia…” disse a voce alta, chiudendo gli occhi.

Erano le prime parole che pronunciava dopo tanto tempo, nella solitudine di quel panorama, di quel momento. Sentì la sua voce prendere consistenza e le parve che quasi vivesse di vita propria. Sperò, come aveva fatto mille volte, di sparire, di morire.

Ma il cuore batteva forte e si sentiva viva più che mai. Il semplice sfiorarsi lì, nel posto che Taro aveva stabilito come suo, risvegliava in lei l’odore del sesso e  la salivazione aumentava. Il corpo vibrava come dopo un orgasmo e pensò che non ci fosse proprio niente, nessun elemento, nessun suono, nessuna parola, e, soprattutto nessun luogo in cui lei potesse nascondersi e rinnegarsi.

Lei gli apparteneva. Non nella fossetta, non nel corpo. Lei era sua nell’essenza.

Dopo tanti giorni senza colore e senza emozione, le venne da sorridere.

Sapeva che era impossibile averlo. Eppure la felicità le spuntava da dentro, esattamente con la stessa frequenza con cui l’acqua sgorgava dalla roccia.

“Prendimi…” disse alzando la testa e sdraiandosi in quel pezzo di terra, incurante del mondo fuori di lei.

Rimase ferma su stessa, aprendo le braccia, sognando di trovarsi con lui, in un posto qualsiasi, forse su quella stella di cui una volta avevano parlato. Solo dopo molto si alzò e tornò a casa.

Sua zia l’aspettava, e pareva impaziente.

“Ha telefonato tua madre… mi ha chiesto se sei andata a ritirare il vaglia… dice che è il regalo per il diploma.”

Yukari si sfilò le scarpe e si avvicinò.

“Sì… mi ha mandato tanti soldi… ma io non so che farmene… non credo mi servano, zia”

La donna rimase in silenzio.

“E’ arrivata anche una busta da parte dei tuoi…eccola”

Yukari la prese e l’aprì subito, alternando lo sguardo fra la carta e la zia.

Ne estrasse due cartoline che provenivano da Barcellona e un foglietto di carta velina che racchiudeva un biglietto all’interno.

“Mi chiede se mangi…” disse la zia, per stemperare la curiosità nel vedere le cose che uscivano dalla busta.

“Le ho detto che mangi come un lupo. Ma perché? A casa non mangiavi?”

Yukari le sorrise.

“No, zia… a casa non mangiavo mai. Non mangiavo più… ma qui ho sempre fame invece…”

La zia mise le mani sui fianchi per darsi importanza. Onestamente aveva sempre considerato ottima la sua cucina, e la risposta di Yukari non faceva che confermare questa sua convinzione.

La ragazza sorrise ancora, poi si allontanò per prendersi un po’ di privacy.

Le cartoline ovviamente erano state inviate da Sanae.

Nella prima l’amica la pregava di leggere la posta elettronica e rispondere. Nella seconda invece aveva scritto un famoso detto zen:” Qual era il tuo volto prima che tua madre e tuo padre s’incontrassero?”

Yukari rilesse la frase più volte. La trovò forte, intensa e da subito, capì, che era un modo, da parte di Sanae, di dirle qualcosa. Aveva la mente confusa e non riuscì ad andare oltre il bel suono che le parole facevano a pronunciarle.

Strinse le due immagini a sé e  le venne da piangere.

Poi aprì il foglietto trasparente; ne uscì un cartoncino ruvido con un indirizzo sopra. Era il biglietto lasciato da Taro il giorno in cui era partito. Lo osservò con attenzione; in alto a destra aveva disegnato un otto orizzontale, il simbolo dell’infinito. Le vennero in mente tutte le volte in cui lui le aveva disegnato sul petto quel simbolo, sussurrandole di amarla. Per sempre.

Se non fosse stato per sua zia che stava lì in piedi, in attesa di una parola, si sarebbe stesa a terra e avrebbe nascosto il volto, disperata.

Ma non poteva.

“Allora? Sei proprio decisa ad andare?”

Yukari la fissò cercando di riprendere coscienza di quel tempo e di quello spazio.

“Sì… devo andare…”

”E dove?”

“Non lo so… non lo so ancora di preciso…”

“Mi telefonerai?”

“Certo”

Yukari strinse al petto le carte e andò in camera sua per finire di mettere a posto lo zaino.

Tornò fuori dopo un po’.

Uscì in veranda, dove suo zio stava fumando in pace prima del pranzo.

“Vuoi un passaggio?”

“No… grazie… la stazione è vicina… grazie di tutto, zio.”

“Yukari… tu sei come certi semi che si trovano nelle risaie in pieno autunno… tu pensi che i semi siano tutti uguali, invece no. Ognuno è a suo modo. Ecco, tu sei un seme da cui il riso verrà buono di sicuro…”

Yukari aveva le lacrime agli occhi: “ti sbagli, sai… io sono un’erbaccia… nel letto di un torrente…”

Lo zio scoppiò in una risata piena di rumore.

“Vai… vai… il tempo passa e tu... devi fare in fretta…” aggiunse, senza commentare la frase di Yukari.

Lei lo guardò. Tornò dentro per salutare la zia e poi, facendo un cenno all’uomo, prese il sentiero che portava al paesino.

Procedette lentamente e una volta in stazione, fissò il tabellone cartaceo e vide quante poche possibilità ci fossero. Col dito si fermò sul primo treno la cui destinazione le suonasse familiare.

Fece il biglietto e aspettò paziente.

Salì e per tutto il tempo del viaggio non fece che mangiare chilometri di rotaie e paesaggio con gli occhi, senza riflettere, senza pensare.

Prese la coincidenza per Tokyo per un soffio. Una volta arrivata, corse al bagno della stazione. Fece la pipì e poi sentì di dover vomitare.

Si accasciò e rigettò tutto il cibo mangiato al mattino. Poi pianse. Pianse tutte le lacrime che aveva riservato per quel giorno e che si erano congelate dentro di lei aspettando il momento giusto. Lei non sapeva se fosse quello: fatto sta che riversò su quel bagno tutto il dolore, tutto il pianto che le rimaneva ancora.

Uscì e si lavò gli occhi: nessuna delle donne che entrava pareva accorgersi di lei. A nessuno sembrava importare qualcosa.

Prese la navetta.

 

Quando si aprirono le due grandi vetrate, si rese conto di quello che stava facendo. Frugò nella borsa per controllare di avere davvero tutti quei soldi e sperò che bastassero. Poi si accertò di avere i documenti con sé.

Si guardò intorno confusa e cercò il banco informazioni.

Al di là dell’alta scrivania c’era una bella signora con i capelli tirati indietro, il rossetto sulle labbra e l’eyeliner perfettamente tracciato sulle palpebre. Per un istante pensò a come avesse potuto disegnare una linea così perfetta sugli occhi. Lei ci aveva provato mille volte con Sanae ma aveva sempre fallito clamorosamente, tornando poi alla classica matita nera, comprata in uno spaccio di saponi all’angolo fra la banca e il negozio di caramelle della vecchia donna senza denti.

“Prego?” chiese allora la receptionist, sorridente. Yukari si morse le labbra.

“Mi serve un biglietto…”

La donna la fissò, come se stesse dicendo una sciocchezza. Lì di biglietti evidentemente ne poteva trovare quanti ne voleva.

“Sì… beh… dove deve andare?”

Yukari appoggiò le mani sul banco. Pensò di darsi una spinta e tornare indietro, come aveva fatto quel giorno in biblioteca. Poi di nuovo si tastò la borsa e sentì che aveva tutti i soldi necessari.

“Devo andare in Francia… a Parigi…”

 

 

 

Sanae era talmente fuori di sé che aveva preso la metropolitana senza una meta precisa. Aveva una lezione di spagnolo nel pomeriggio, ma era uscita di casa senza niente e di sicuro con ci avrebbe messo piede per un bel po' di ore.

“Stupida!” si disse fra sé e sé ripetutamente.

Lei, che aveva fatto di tutto per stare con lui, si ritrovava umiliata in quel modo!

Se avesse potuto, sarebbe andata dritta all’aeroporto per prendere il primo volo per il Giappone. All’istante.

Come poteva essersi data ad una persona così? Adesso le venivano fuori dei goccioloni salati e dopo vari tentativi di trattenersi scoppiò a piangere. Il suo era un pianto a dirotto: un temporale estivo, con i singhiozzi per lampi e i singulti per tuoni.

La gente la guardava ma a lei non interessava affatto. Si sentiva così piccola e così sciocca.

Eppure Tsubasa le era sembrato così preso, in quelle settimane. Quello che suo padre le aveva preannunciato si era verificato a regola d’arte. Tsubasa si era perso in lei totalmente. Che volesse solo divertirsi? No, non poteva neanche pensarlo. Il suo capitano poteva avere tutti i difetti del mondo, ma non avrebbe mai approfittato di lei, solo per il gusto di farlo. E poi Sanae lo sentiva; l’aveva sentito di notte che il suo amore era sincero. Il suo corpo parlava molto di più di qualsiasi frase. Lei lo sapeva.

Si asciugò pazientemente le lacrime e pensò a Yukari, a dove fosse, a cosa stesse facendo. Se solo avesse potuto parlare un momento con lei. Senz’altro una sua parola l’avrebbe rassicurata. Invece era lì, da sola.

La metro si fermò e allora scese. All’aperto, si accorse di essere in una zona molto bella della città, dove ancora non era andata. Passeggiò e si fermò all’angolo per fare colazione in un bar: la tristezza d’amore non le aveva affatto tolto l’appetito, anche perchè le stavano per venire le mestruazione e lei, prima del ciclo, mangiava continuamente.

Prese un croissant ripieno di crema e bevve un bel bicchiere di latte caldo, con una noce di cacao che sprofondava all’interno. Dal vetro lei vedeva il bianco e il nero che si mischiavano e le sembrò erotico. Ma ormai, a dire la verità, tutto quello che faceva era erotico,  portandola a lui, a Tsubasa, anche se con tutta la volontà cercava di allontanarsi.

Pagò e continuò il suo giro, fino a che prese, senza saperlo, via Montcada.

Dopo un po’ vide un gran palazzo di fronte. Era il Museu Picasso.

Sorrise.

Prese le scale, entrò e pagò il biglietto.

Il cuore le batteva forte. Sapeva che non avrebbe visto il quadro di Taro perchè era al museo di Parigi, ma il solo fatto di essere lì, le procurava un piacere immenso. In quel momento capì, che a prescindere da Tsubasa, Barcellona le stava dando una possibilità e lei doveva coglierla.

Cominciò a perlustrare le stanze, incantata dalla verità che usciva dai quadri di Picasso.

Sentì il cellulare vibrare.

“Dove sei?”

Tsubasa le aveva mandato un messaggio.

Lei rispose.

“Al Museu Picasso, in via Montcada”

Attese qualche secondo fissando il telefono.

“Non ti muovere da lì: arrivo.”

Lei si guardò intorno e riprese il suo giro, immersa in un’atmosfera così tesa e silente, che le sembrava di non avere abbastanza aria da respirare.

 

Tsubasa si precipitò fuori verso il parco; arrivò alla fermata dei taxi e chiese all’autista di portarlo in via Montcada.

Il tempo gli sembrava infinito e il cuore batteva. Pensò a tutte le cose che voleva dire a Sanae e a tutto il tempo, tutte le occasioni che aveva sprecato. Temette di perderla, questa volta sul serio: Sanae non era affatto ingenua, non era una bambola con cui giocare. Era una persona molto intelligente; il modo in cui pensava era talmente sottile che anche la cosa più stupida diventava consistente e suonava. Immaginò di avere le sue mani da toccare e la sua bocca da baciare e poi pensò al cedro del suo vecchio giardino, a quella sera, lontanissima, in cui già lei gli aveva detto tutto e lui come al solito non aveva capito niente.

Una volta sceso dalla macchina, entrò e fece il biglietto: sembrava sperduto, completamente spiazzato dagli ambienti eleganti e silenziosi dove  ogni respiro diventava un alone profondo, un’ombra sui muri.

Avanzò con lo sguardo di chi non sa bene dove orientarsi. Dopo poco la vide.

Era di fronte ad una tela grande, da cui emergeva un tratto spigoloso, tutto giocato sul blu, un blu però che a lui faceva venire in mente il ghiaccio.

Sanae era seduta su una di quelle panche imbottite che si trovano spesso nei musei e pareva in meditazione su ciò che stava osservando.

Lui prese posto accanto a lei.

Si avvicinò fino a quasi a sfiorarla, ma non la toccò.

“Non voglio che tu vada agli alloggi dell’università. Non voglio che torni in Giappone…”

Lei continuava a fissare “Las meninas” , ma non si era persa una parola, non un solo respiro.

“E’ proprio per questo che ho frugato fra la tua roba… avevo il terrore di chiederti quando saresti dovuta partire. Il terrore di non poterti avere qui… ma come sempre, lo sai…, se non faccio lo scemo, non sto bene…”

Sanae sentiva che il cuore aveva ripreso vigore. Si volse e lo guardò.

“E’ la tua occasione, avanti…” gli disse, ” sono tutta orecchi… non potevamo finire in un posto migliore per chiarirci…”

Tusbasa la fissò perplesso e poi si guardò intorno: non capiva niente di arte e si sentiva a disagio. Ma gli occhi di Sanae chiedevano una spiegazione, adesso. Subito.

Appoggiò le mani sulla panca e si guardò i piedi. Erano i suoi piedi infatti, a dargli sicurezza.

“Ho sbagliato a non domandartelo direttamente. Scusa se ho ficcato il naso fra le tue cose… non lo farò più…”

Sembrava davvero dispiaciuto.

Lei sorrise.

“Dai… non fa niente…”

Tsubasa teneva gli occhi bassi: gli veniva da chiedersi come mai con il pallone fosse così tanto disinvolto e invece con la persona che amava di più al mondo non riuscisse a spiegarsi, a dare coerenza e voce ai suoi pensieri.

“Io non ti merito… tu… sei troppo intelligente per me… io… io sono … non sono niente se mi sposti dal campo…”

Sanae appoggiò la mano sulla sua.

“Mio padre aveva previsto tutto…”

Tsubasa si mise a guardarla: gli sembrò di aver parlato a vuoto.

“E’ stato lui a farmi venire in mente l’idea di poter  studiare qui da te. Per te… “ si fermò un istante,  poi riprese, “ è come se anche lui, e tutte le altre persone e cose che ci stanno intorno, lo sappiano già da tempo, anzi, da sempre; molto prima di noi…”

“Cosa, Sanae?”

“… che noi dobbiamo stare insieme… “

“Io non potrei mai amare nessun’altra, lo sai…” disse Tsubasa, facendole una carezza sulla guancia, “… ma non mi basta averti qui… adesso non mi basta più…”

Lei allora lo fissò sorpresa: aveva lasciato il Giappone, deciso di studiare lì affrontando tutte le difficoltà che questo comportava. Le aveva dato tutta se stessa: che altro poteva volere?

“Sposami, Sanae…” disse con un filo di voce, senza guardarla, volgendo gli occhi verso il quadro davanti a loro.

__

Note: "Las Meninas", 1957, Pablo Picasso - Museo Picasso, Barcellona

"Qual era il tuo volto prima che tuo padre e tua madre s'incontrassero?" koan zen; incipit a "Care Memorie", di Marguerite Yourcenar.

Grazie di cuore a tutte le perone che mi leggono, che seguono le mie storie. Grazie infinite a chi lascia una recensione.

La storia comincia a finire da dove era partita.( “Sanae era al settimo cielo”, ricordate?). E’ una storia pensata come un cerchio, che si apre, si dilata e si chiude. Ma nel punto in cui si chiude, ecco che si può riaprire… è così la vita, no? Finisce un’era e ne comincia un’altra. E’ questa sensazione che vorrei trasmettere: non so se almeno in minima parte ci stia riuscendo.

Alcuni elementi, parole, parti di frasi ritornano: non sono ripetizioni. Sono  meditate e volute. Spero che “suonino” come musica e non come  stonature.

Marychan82: cosa posso dire? In primis che durante il giorno ti penso. E la cosa è già strana e mi fa male (quel genere di male che però fa bene…). E poi grazie. Grazie. Grazie per il P.S.. Grazie perché sei in anticipo, anzi senti in anticipo cosa penso e i miei dubbi ( temevi ci fosse un altro cap?...). Leggerti è come guardarmi dentro. Grazie.”I treni per Tokyo” è un cap a cui sono legatissima. Ci tenevo ( aspettavo?) al tuo pensiero in merito. Non riesco a staccarmi da Yukari… e so che puoi capirmi se lo dico. (Non m’importa di esser presa per pazza). La tua rece vive di vita propria. Non posso commentarla. Sappi solo che l’ho letta e già al titolo “walking around”, mi avevi “uccisa”…( è il suono… il suono delle parole che mi uccide, perché per me è bellezza allo stato puro): quella poesia l’ho letta stanotte…non la conoscevo. Bellissima…

Miki87: stasera sono in vena di confidenze. La tua “lucidità” mi sorprende ogni volta ( vorrei accostarti un’altra parola: ormai sarai stanca di sentire questa e per ciò ti chiedo scusa. Sono ripetitiva e noiosa. Ma per me tu, Miki87, sei “ciò che è lucido”_ ed è bellissimo e ti ringrazio) La tua rece è stupenda. In certi frangenti sei quasi “spietata”, ma non per il gusto di esserlo: semplicemente perché sei vera. Non la perdere mai questa qualità, questo modo di percepire le cose: è un dono raro… grazie. Yukari sta andando a Parigi. Lei ha 18 anni, quasi 19: ha tutta la vita davanti; le voglio dare un’altra possibilità. Nella vita, niente è definitivo. Tutto può cambiare. Spero che saprai cogliere lucidità anche in questo finale. Grazie…

Benji79: grazie. Anche nella tua recensione all’ultimo cap, ho percepito la tua attenzione ai particolari. La scena tra Ryo e Taro, anche se è una minima porzione del cap, per me era molto importante. In due frasi ho cercato di concentrarne il senso e il succo: ti ringrazio per averlo sottolineato e per riuscire sempre a dare importanza ai “dettagli”. Posso immaginare che l’atteggiamento di Yukari ti abbia un po’ infastidito. Per me lei rappresenta” ciò che è immobile, paralizzato”: è una figura complessa, piena di complicanze. Qualcosa però pare si sia risvegliato in lei… vediamo cosa succede… grazie di cuore.

Krys: grazie per la tua recensione… e per avermi fatto partecipe di tuoi sentimenti. Anch’io sono triste. Mi sento sempre molto giù quando una storia finisce. E’ come se qualcosa mi morisse dentro. L’unica consolazione è che già ho cominciato il seguito delle “conseguenze”, se no sarei davvero a terra… Sono felice che il mio modo di scrivere ti piaccia. I pg in questa storia hanno avuto molto spazio per evolvere; forse fra le mie storie, è quella in cui i pg ”crescono, cambiano” di piu’. Hai ragione quando dici che Yukari “è sempre” più emblematica: è forse il pg più “interessante” da un pt di vista umano, della storia (perché è fragile e imperfetto) ed  anche quello attraverso cui riesco ad esprimermi maggiormente… grazie.

DolceBarbara: grazie per la recensione e per il tuo inno finale “w l’amour”! Mi ha fatto sorridere… sei una persona molto positiva (almeno io ho percepito questo dalle tue rece!) e, in tutta onestà, al tuo inno mi unisco più che volentieri! Io nelle mie storie ci metto sempre delle cose un po’ tristi, però i pg, quelli che contano, non si spezzano mai! Se vuoi si piegano, sembra che si lascino andare, ma poi… trovano sempre un modo per rialzarsi. E’ come quando leggi Kafka: peggio di come vanno le sue storie, non c’è niente da immaginare. Eppure finisci di leggerlo e non hai un sapore amaro in bocca… anzi, pensi quasi che il pg (che magari è morto o sconfitto) sia vincente. Sono davvero felice che questa storia ti abbia appassionato! Grazie per averla seguita!

Giusyna: grazie… è bellissima la tua rece… apprezzo moltissimo il tuo modo di guardare uno stesso lato di un tema, da più angolazioni (ho notato che lo fai spesso… grazie). Vorrei ringraziarti per le parole che hai dedicato a Ryo: era l’ultimo frangente di spazio che gli dedicavo, ma volevo che fosse determinante. Le poche frasi che dice sono fondamentali e rispecchiano a pieno la sua personalità. E’ in “anticipo” rispetto a Taro e Yukari perché è talmente cresciuto da avere una prospettiva  migliore delle cose (nel senso che le  intuisce meglio). E’ uno dei pg più intensi di questa ff e mi ha permesso di lavorare molto sulla caratterizzazione. Mi sono affezionata molto a lui ( d’altra parte anche in “alla ricerca della felicità” avevo dato a lui un bel ruolo – mi è sempre stato simpatico!) e sono felice che anche tu l’abbia apprezzato. Infine… volevo dirti che anche quando hai scritto poco, le tue rece per me sono sempre state illuminanti… ( ricordo l’accenno a Catullo, i nostri confronti sul tema dell’oggettivazione…) e mi hai aiutato molto. Grazie davvero.

Grazie a tutti…

A presto.

   
 
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