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Autore: Roberto_Yoda    22/05/2010    0 recensioni
Un ultimo addio tra vittima e carnefice. Nei capitoli successivi a quelli della vicenda di Hitomiko, Naraku riceve una visita da un fantasma del passato, rivive eventi da tempo trascorsi ...
Genere: Dark, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Inuyasha, Kikyo, Naraku
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quale fan sfegatato di Kikyo, sottoscrivo in pieno quanto detto da Rosalia e Diana, anche se devo aggiungere che i due innamor

“Parlami del tuo addestramento, Kikyou.”

 

Lungo le tappe del loro cammino, Kikyou ha abbattuto youkai, ha visto auree sovrannaturali, levato invisibili barriere, aperto scorci sul futuro e sul passato, adoperando il suo potere con la delicatezza di un musico che carezza le corde della sua arpa.

Mentre faceva tutto questo e molto di più, Nobunaga l’ha interrogata in continuazione e lei gli ha risposto, senza smettere di cantare per un solo momento.

 

“Il mio potere è dentro di me fin da quando nacqui. Ciò che ho imparato venendo da voi, sensei, è la disciplina e le vie per adoperarlo.”

 

“Noi siamo custodi. Questo lo sai, vero, Kikyou?”

 

“Sì, sensei. Io sono la custode del mio potere: nel vuoto dell’anima e nell’equilibrio dei quattro spiriti mi è dato di riportare ordine nella musica. Tale è il prezzo che pagano coloro che percorrono sia il mondo degli uomini che quello degli youkai: di non appartenere ad alcuno di essi. Affinché coloro che mi saranno affidati possano essere custoditi dalle minacce del mondo spettrale, mi è chiesto di essere fra di loro, ma non una di loro. Umana solo per metà.”

 

“Sei sicura di essere pronta?”

 

“Sì, sensei. Adempierò ai miei doveri.”

 

“E credi che una tale rinuncia sia giusta?”

 

Kikyou lo guarda stupita e riflette sulla domanda qualche minuto.

 

“Né giusto, né sbagliato.” Dice infine. “E’ così e basta. E’ come deve essere. Mi sono stati affidati poteri quali nessuna miko ha mai posseduto, tranne forse una: voi stesso me l’avete detto. Rifiutarmi di servirmene – no, di servirli – sarebbe un disonore, un’indegna vergogna.”

 

“Ti sembra una risposta sufficiente, Kikyou?”

 

 “Sì.”

 

“E se scoprissi di desiderare qualcosa di diverso? Se non fossi felice?”

 

Kikyou solleva un sopracciglio.

 

“Non mi avete mai chiesto nulla del genere fin’oggi, sensei. Qual è la ragione di queste domande oziose?”

 

“Non ti ho mai posto domande del genere, Kikyou, perché non sapevo, fino a stamani, che sarei stato il tuo sensei per un giorno ancora.” Sospira. “In così poco tempo, non ti posso insegnare quel che avresti bisogno di sapere. E adesso rispondi.”

 

Il giovane viso di Kikyou diventa pensieroso.

 

“Cos’è mai la felicità, sensei? Non è forse un’illusione, un breve palpito che presto svanisce lasciandoci nient’altro che il ricordo del suo sapore nella bocca? Chi nasce contadino muore contadino. Chi nasce samurai muore samurai, anche qualora venga disonorato. Chi nasce daimyo è destinato a diventarlo, o a perire nel tentativo. Desiderare ciò che non possiamo essere ci distrae da ciò che siamo e ci ruba la felicità che vorremmo. Perché per me dovrebbe essere diverso? Sono nata per essere una miko, e diventerò ciò che sono nata per essere. Mi sono stati fatti tanti e tanti doni. Se pretendessi altro sarei un’ingrata e una sciocca. No, non mi lascerò ingannare da futili illusioni.”

 

Nobunaga si lascia andare a uno dei suoi rari sorrisi, inseguendo un ricordo immerso nelle nebbie degli anni.

 

“Vedo che, nonostante tutto quel che sai, sei pur sempre una ragazzina. Questo è consolante.”

 

Kikyou si fa turbata. “Non capisco cosa vogliate dire, sensei. Perché volete insinuarmi questi dubbi? Ho detto qualcosa di sbagliato? Non è forse necessario che i quattro spiriti della mia anima restino in perpetuo equilibrio, per articolare i miei poteri?”

 

“Sì.”

 

“E per farlo non è forse necessaria la disciplina che mi avete insegnato in tutti questi anni?”

 

“Sì.”

 

“E se i Kami mi hanno dato un potere quale solo io posseggo, non è forse mio preciso dovere, il mio giri, consacrarmi a esso senza esitazione alcuna?”

 

“Così pare.”

 

“Dunque, per quale ragione interrogarmi su quel che potrebbe essere o accadere? Sono, perdonatemi se oso, domande sciocche e non ho ragione di pormele. Il contadino sa di doversi alzare ogni mattino e coltivare la terra che gli è stata data, cercando di strapparne il frutto che potrà per sfamare la sua famiglia. Ha motivo di chiedersi altro? E il samurai che scende in battaglia per dare la vita per il proprio daimyo? Può forse lasciare che la sua mente sogni come sarebbe stato essere un mercante? Mai lo farebbe, e terribile insulto al suo onore sarebbe porgli una domanda di tal fatta.”

 

“Hai ragione, Kikyou.”

 

Kikyou guarda Nobunaga con franchezza.

 

“Perché mi state insultando, sensei? E’ una punizione per la mia condotta di stamane?”

 

Nobunaga scuote la testa senza rispondere e si infila in un piccolo passaggio tra i salici che devia dal sentiero che hanno percorso per tutte le ore precedenti.

 

“Ti ricordi di Setsume, moglie di Kagenaru?”

 

Kikyou non si lascia sconcertare dal cambiamento improvviso di conversazione.

 

“Sì. E’ morta lo scorso inverno. E’ sempre stata cagionevole di salute; o almeno così ho sentito dire.”

 

“Hai anche sentito le voci che sono circolate, quando mi sono offerto di occuparmi della sua sepoltura al posto di suo marito?”

 

Kikyou annuisce, lanciando occhiate tutt’attorno. E’ strano che vi siano meno youkai nascosti ai bordi di questo sentiero.

 

“Sì, sensei. La vostra offerta è stata davvero inusuale.”

 

“Non ti ho mai chiesto cosa ne pensassi, Kikyou. Molti non hanno nascosto la loro disapprovazione alla mia richiesta di occuparmi della salma e di rifiutarmi di svelare persino a Kagenaru il luogo di sepoltura. So per certo che anche Natsume è tra costoro. Tu hai trovato le mie pretese disdicevoli?”

 

L’esitazione di Kikyou è molto breve.

 

“No, sensei. Voi avete solo fatto una richiesta a Kagenaru. Toccava a lui, saputo i termini dell’accordo che proponevate, in qualità di marito di Setsume, rifiutarvi quanto gli chiedavate. Ma Kagenaru è sempre stato un uomo avaro e gretto. Pur di non spendere il denaro che avrebbe richiesto una degna sepoltura, e in cambio di poche monete, ha accettato la vostra offerta. E’ lui a dover essere riprovato, non certo voi.”

 

“Un uomo avaro e gretto. Sì, Kagenaru lo è sempre stato. Devi sapere, Kikyou, che Setsume non era cagionevole di salute. Lui la prese in moglie perché sapeva che, fin da ragazza, si rifiutava di mangiare più dello stretto necessario. Per questo era sempre debole e smunta, non a causa di qualche malattia. Nessuno, neppure io, è mai riuscito a convincerla ad abbandonare questa incomprensibile abitudine, che anzi andò via via peggiorando, se mai possibile, durante gli anni del suo matrimonio.”

 

I due continuano il cammino, in silenzio salvo il canto sommesso di Kikyou. Quanto più si addentrano lungo questo nuovo sentiero, tanto più lei sente le auree degli youkai allontanarsi, ma al tempo stesso una diversa minaccia stagliarsi più avanti.

 

“Consegnami il tuo arco e la faretra, Kikyou.”

 

Lei ubbidisce senza profferir parola.

 

Pochi altri metri e una piccola radura si apre davanti a loro. E’ spoglia e brulla. Alcuni dei salici che ne segnano il perimetro sono malati, privi di foglie, i rami perfino più piegati di quanto dovrebbero essere.

Kikyou ne conta quattro – no cinque, anzi, sei! – morti da poco, il midollo rinsecchito, risucchiato via come se dei parassiti l’avessero divorato.

 

Al centro esatto della radura, un piccolo tumulo senza segni.

 

“Fatti avanti, Kikyou.”

 

Fa alcuni passi, strizzando gli occhi. La misteriosa oscurità del bosco è più densa al di sopra del tumulo. Cerca di vedere meglio che può, ma all’improvviso il buio si dissipa a rivelare la sagoma di una donna inginocchiata.

 

“Setsume.” bisbiglia, riconoscendola.

 

Nello stesso momento, sente che il suo canto viene inghiottito, come se nel centro della radura vi fosse un gorgo di silenzio impenetrabile dove la musica cessa di colpo.

 

La donna la scruta con attenzione: sembra stupita. Il suo volto è affilato e bianco, gli occhi piatti; indossa un kimono elegante, verde come le foglie dei salici, a nascondere le membra sottili. I capelli scuri e lunghi come i suoi.

 

“Kikyou? Sei Kikyou? Sei venuta a trovarmi, piccola Kikyou? Non sai quanto mi faccia piacere!”

 

Setsume si alza in piedi, le labbra stirate in un sorriso esangue.

 

“Sono tanto sola. Oh, tanto! Vieni. Vienimi vicina.”

 

Il canto di Kikyou si spegne: musica e potere avvizziscono appena sfiorano la donna emaciata che scivola lieve verso di lei.

Caracolla come una marionetta, il sorriso e lo sguardo fissi. Una lingua bianca come il gesso guizza svelta a leccarsi le labbra, per poi schioccare rumorosamente contro il palato.

 

“E, Kikyou … non mi hai portato qualcosa da mangiare, per caso?”

 

L’avidità nello sguardo di Setsume è evidente. Kikyou resta immobile, morbosamente affascinata dalle fattezze della donna conosciuta in vita, dal lento ondeggiare dei suoi capelli, dalla voce ispessita da una voglia repressa a stento.

 

“Lontana.” La bocca di Kikyou si muove appena. “Stai lontana da me.”

 

“Sì che hai qualcosa, Kikyou. Su, avanti, vieni. Lo sento nel tuo odore; c’è qualcosa di delizioso e salato dentro di te. Dammelo!!”

 

Setsume si scaglia in avanti, mettendosi all’improvviso a correre, i capelli ritti in aria come tentacoli, la voce rauca e che d’un tratto scaturisce da dietro la testa.

 

Il suo collo ruota su se stesso, disarticolato, con un molle plop!, e a Kikyou si svela una bocca aperta sulla nuca, senza labbra e spalancata, le ciocche di capelli che vi galleggiano attorno, i denti piccoli e appuntiti.

 

Trova la forza per levare un grido. “Stai lontana da me, Futakuchi-onna!” prima che Setsume le sia addosso.

 

Troppo vicino e troppo tardi, leva una difesa, ma i capelli vivi le si annodano ai polsi sottili e alla vita, pungendola come il filo tagliente di tanti fogli di carta. Il suo potere bianco le erompe dai palmi, ma svanisce in un silenzio sordo. L’innaturale bocca di Setsume ride.

                                           

“Sì! Sì, ti prego! Ho fame, tanta fame!”

 

Ancora e ancora, il sacro potere di Kikyou colpisce per svanire, mentre la bocca di Setsume si avvicina pian piano alla sua spalla. Cedendo a un primo brivido di paura, Kikyou gira la testa d’istinto a cercare Nobunaga, e lo vede assistere impassibile allo scontro, le braccia conserte sul petto.

 

Strattona, le braccia immobilizzate, chiude gli occhi davanti a quella bocca ridente, chiama a raccolta altro potere, compie uno sforzo sovrumano per divincolarsi, il bianco esplode attorno a lei, assordandola; i capelli che la imprigionano fremono, per un istante allentano i nodi.

Ma prima che lei possa sfuggire si rinserrano.

 

“Che delizie mi hai portato. Grazie, Kikyou, oh grazie! Per favore. Ancora un po’.”

 

La paura si fa panico quando sente i denti affondarle nella spalla e non può far altro che gemere. Gli sforzi per scappare si fanno più frenetici e impacciati e le forze le vengono meno.

Setsume singhiozza e geme con la bocca libera.

Il gemito ha il potere di penetrare la coltre del terrore che ha imprigionato Kikyou. Di nuovo, rovescia il suo potere spirituale sulla Futakuchi-onna. I denti minuti serrati sulla sua spalla si stringono di più e Setsume geme di nuovo con l’altra bocca, per poi cacciare un urlo forte e abbandonarsi a piccoli singhiozzi.

 

E’ nel momento in cui capisce cosa il suo sensei si aspetta da lei, che il panico scivola via da Kikyou. Attingendo a coraggio e disciplina, si rilassa, piega quanto può le braccia attorno al corpo dello youkai e si zittisce. Affonda sempre più nel silenzio di Setsume, come in un lago ghiacciato, cade e cade finché non raggiunge il fondo assordante del vuoto attorno a lei, in un’assenza di suoni che le tappa le orecchie.

 

Fame.

 

E’ fame fame fame. Semplice, elementare, prepotente. Lo stomaco raggrinzito, la bocca piena di saliva, la lingua schiacciata sul palato. Vuoto e fame. Fame dappertutto.

 

Di nuovo, Kikyou leva il suo canto di potere e lo lascia uscire da sé, e chiama al suo posto il vuoto della fame che la schiaccia, le preme addosso e la invade.

 

I tentacoli, i capelli che la imprigionano si indeboliscono. Abbraccia stretta Setsume, che con una bocca succhia e l’altra piange, le carezza le tempie, le bacia uno zigomo ossuto, eppoi poggia la fredda guancia sulla sua guancia tiepida.

 

“Mangia.”

 

Le forze l’abbandonano e c’è fame sempre più, che soffia in gola, morde e si attorciglia, che pulsa nelle vene e le toglie colore dal volto e forza dalle membra.

 

Il corpo di Setsume le crolla addosso e il guscio di gelido silenzio si rompe: è un uovo, liscio, perfetto e saporito; la musica entra nella frattura del silenzio, dissipandolo.

 

C’è il sussurro di un grazie e il nulla. Kikyou crolla in ginocchio, sola con la sua fame.

Le dita a stringere lo stomaco, batte i denti: è vuoto e bisogno e odore di sudore e spezie e caldo di zuppa che scivola giù nella gola, e c’è qualcosa di caldo nella gola, caldo, non buono, acido, soffoca, lei affoga, affoga e in un singhiozzo si piega in avanti e la bocca e il naso sono pieni e puzza e conati, rovescia fuori in un verso un bolo tiepido e la puzza è orribile come una ferita; tossisce, geme. Aspetta, impotente, un altro moto della marea che l’ha presa, e ancora sputa e vomita e piange e trema. Ha freddo, fa così freddo nella terra c’è buio e freddo e niente. Niente dentro. Niente attorno.

Vomita filamenti di bava e aria. Ancora. Finisce.

 

Kikyou resta inginocchiata a riprendere fiato. Ogni tanto sputa e soffia. E’ bianca, gelata e vuota, e il ricordo della fame è forte abbastanza da essere fame esso stesso. Pian piano si acquieta, le mani smettono di tremare.

Vuota. Questo l’aspetta? Vuota? Così? Sì? Questo, sì certo. Ma se il suo sensei crede che basti a farla recedere, significa che non la conosce abbastanza.

Guarda con distacco la pozza del vomito vicino a lei. Disciplina. Si alza. Barcolla. Si gira. Il sensei non si è mosso.

 

“Rivuoi il tuo arco, Kikyou?”

 

Lei annuisce.

 

Nobunaga le porge l’arma, poi si allontana per la strada che hanno seguito.

 

“Adesso è libera?” un gemito arrochito.

 

“Sì. Sei stata brava, Kikyou.”

 

 

 

Porta il palmo pieno d’acqua alla bocca e beve. E’ dolce.

 

Non ha le idee molto chiare su come sia arrivato fin lì o quanto tempo sia passato da quando è entrato nel bosco dei salici, ma fermarsi a bere gli è parsa una buona idea. La testa ronza e gli sembra piena di bambagia. Deve essere colpa dei sussurri che lo tormentano e che non capisce. Crede che sia meglio non capirli. Deve aver camminato piuttosto a lungo. Glielo dice non solo la sete, ma anche le gambe che gli bruciano e la cucitura dello stivale quasi del tutto rotta.

Si passa la mano sulla faccia, ritraendola appiccicaticcia di sudore e resina. Fa una smorfia, immerge le mani nella polla e si butta l’acqua sulla faccia e sul collo, la testa china, per poi bere ancora. Forse ce n’è uno che lo sta ancora inseguendo. Il ciccione. E’ grosso. E’ sicuro di avere sentito il suo passo, pesante, pochi minuti fa. Gambestorte, invece. Gambestorte rideva. Quanto è passato? Mezz’ora? Un’ora?

Onigumo lo aveva già sentito ridere così una volta.

Era stato quando si era accanito su un ragazzetto che avevano catturato, due mesi prima. Da poco si era unito ai tre per formare la loro temporanea banda.

Gli altri due si erano allontanati subito, per non assistere. Non avevano voglia di rovinarsi la digestione, avevano detto. Onigumo era rimasto a guardare, mentre gambestorte tagliava le guance del loro prigioniero col coltello, e rideva alle sue urla. Tagli verticali, lungo la linea degli zigomi.

Poi, gli aveva preso un orecchio. Gliel’aveva staccato un poco alla volta. Era restato un buco rosso che sembrava entrargli dritto nella testa. Poi era passato alle palpebre e sì, era imbrattato di sangue fino ai gomiti e in faccia, e il ragazzo ululava e piangeva e sussultava come pazzo nonostante fosse ben legato e chiamava la morte, e dopo un po’ gli occhi di Onigumo si erano riempiti di lacrime di noia mentre sbadigliava da slogarsi la mascella, e si era ritrovato a chiedersi cosa ci trovassero mai, l’uno di così divertente, e gli altri due così disgustoso, in quella pagliacciata.

Appena formulato, quel pensiero l’aveva riempito della sua vecchia compagna, la rabbia. Era stato preso dalla voglia di alzarsi, spaccare la testa di gambestorte con un sasso e tagliare la gola del ragazzo e poi andare dagli altri due e …

 

Le risa da demente di gambestorte sono le stesse che ha udito poco fa. Impossibile sbagliarsi.

 

Onigumo rutta dopo aver bevuto troppo in fretta e si sfrega la guancia.

Niente. Lo sapeva. Non c’è nulla in questo bosco. Tutte menzogne. Vuote menzogne e allucinazioni per confondere i deboli. Già!

Sospira, più stanco di quanto dovrebbe essere, si rimette in piedi, piega il collo finché le vertebre non scricchiolano in risposta.

 

Non c’è proprio niente che tu voglia, morto dentro?

 

Ancora la voce della vecchia. La rabbia trabocca dentro di lui, snuda i denti, mette la mano sull’elsa della wakizashi, girando la testa nella direzione dalla quale è venuto. Avrebbe dovuto uccidere la vecchia prima di entrare nel bosco. Maledetta vecchia pazza. Ecco cosa vorrebbe. Forse, se facesse alla vecchia quel che gambestorte fece al ragazzo. Forse.

 

Non c’è il bisogno nei tuoi desideri, morto dentro. Non c’è mai stato.

 

“Non sono quel che dici! Vecchia dannata, avanti, dove sono le luci! E le ombre!? Ah! Lo sapevo! Bugie buone per i vigliacchi!”

 

Onigumo alza i pugni al cielo e sbraita, sputa e scalcia. I bisbigli che gli sembra di sentire diventano più sommessi e spariscono. La faccia rossa, gli occhi strabuzzati, fa un passo nella direzione da cui è venuto, già immagina come sarà cacciare la sua lama nello stomaco della vecchia e lasciarla lì, ma senza ucciderla. Troppo facile, sarebbe troppo facile.

 

“Onigumo!? Onigumo, sei tu!? Parla! Oh ti prego, tieniti il denaro, quello che ti pare! Basta che mi tiri fuori da qua, per amor dei Kami, Onigumo, fatti trovare e portami fuori di qua!”

E c’è di nuovo il passo pesante del ciccione. Sta venendo verso di lui. Onigumo esita, la fronte corrugata. Un trucco. Potrebbe tendere un’imboscata e ammazzare il ciccione? Ma come può essere sicuro che non lo stiano inseguendo ancora tutti e tre? Meglio scappare. Si è fatto tradire dall’immaginazione, mettendosi a gridare al vento. Strano, lui non sogna mai, tanto meno a occhi aperti. I deliri della vecchia pazza lo hanno impressionato più di quanto pensasse.

 

Sghignazzando di se stesso, riprende la sua strada e scappa.

  
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