“Cavallo.”
“Noo.”
“Asino.”
“Sì, come te. Ma ti pare un asino?”
Wilson continuò a sgranocchiare le patatine dalla ciotola
arancione sprofondato nella poltrona di House.
“Che noia però.”
“Foreman, fuori di qui.”
A Cameron sfuggì una risata.
“Anche tu.”
La indicò dopo aver sciolto le dita da
quell’intrigo che stava proiettando sulla parete.
Un mugugno, uno sbuffo, un commento
sull’incapacità relazionale di House.
E l’oncologo rimase l’unico superstite.
“Cento dollari che non indovini entro le tre.”
Wilson si allungò a stringergli la mano.
Toc toc.
“Avan… oh, ecco a voi la signora della notte,
prego dottoressa Cuddy…”
La donna, con sorriso forzato, compì un passo
all’interno.
“Vedo che lavorate.”
“Alla grande.”
“Sto ancora aspettando i risultati della biopsia al colon del
mio paziente.”
“Caalma, calma. C’è tutta la
notte.”
“Ho visto uscire Foreman e Cameron. E non avevano
un’espressione del tutto soddisfatta.”
“Hanno finito il turno. Ciooooè”
inclinò la testa in uno strano sorriso, “ho finito
la pazienza di sopportarli. Perché, come vedi, questo
è un gioco abbastanza serio, e abbiamo bisogno di persone
altrettanto serie. Vuoi partecipare?”
Wilson scosse animatamente la testa per dissuaderla
dall’accettare.
“Solo se risolvi il caso entro lunedì
mattina” negoziò.
“Consideralo già risolto.”
Lisa si accomodò sulla sedia dietro alla scrivania e House
riprese il suo divertente gioco sulla parete illuminata dalla lampada.
“Cammello. Rinoceronte. Coccodrillo”
tentò di nuovo l’amico, evidentemente scocciato.
“Naah.”
Wilson si alzò in piedi e sfilò cento dollari dal
portafoglio.
“Vado a dormire.”
“Lo sapevo!”
“Notte” lo salutò la Cuddy.
E li lasciò soli.
“Dunque, visto che non hai detto nulla, hai
ancora… un tentativo.”
La dottoressa fece il giro della scrivania e si fermò dietro
di lui.
“Dai, rifallo” gli chiese mordicchiandosi il labbro
inferiore.
House unì di nuovo le mani per mostrarle l’ombra
di quell’identificabile creatura.
Il suo profumo gli solleticava le narici estasiandolo in quella luce
così soffusa e tenue dell’ambiente.
“House.”
I suoi capelli gli sfioravano il collo, tant’era vicina.
“House” ripeté.
Il suo nome sussurrato al suo orecchio lo fece tornare alla
realtà.
“Stai bene?” gli domandò preoccupata.
Lui, in un movimento lento, instabile e titubante, terminò
il suo gioco e le mani di cui si era servito cercarono ora il corpo
della donna.
Le tastò i fianchi, sotto il soprabito, dopo essersi voltato
di fronte a lei.
Lei, inizialmente restia da quell’incoerente comportamento,
s’irrigidì, timorosa di reagire.
Le labbra socchiuse, gli occhi non in grado di fissarsi su una forma
che non fosse quella circolare degli occhi di House, le mani tremanti
che si andarono a poggiare delicatamente sul suo petto come se tra i
due elementi sopravvivesse un cuscinetto d’aria, e il
desiderio di lui di averla più vicina fecero da cornice a
quell’improbabile circostanza.
Era un gioco idiota; ancor più stupido se si teneva conto
della conseguente trascuratezza delle condizioni del paziente di cui si
stava occupando.
Ecco, questo era quello che la Cuddy avrebbe dovuto rinfacciare al
diagnosta, sempre preso dai suoi passatempi inutili.
Fu lui a baciarla.
Qualche istante di inconcepibile, di assurdo.
Una corsa indietro nel tempo, per riassaporare istanti perduti di
desideri infranti.
Ma non durò più di qualche secondo, che si
andò a sommare agli altri identici istanti di una giornata
uguale alle altre.
“Buonanotte” gli disse poi con stento in un
sospiro, mantenendo gli occhi bassi per non incontrare di nuovo i suoi.
House, incapace di rispondere e di assumere un’altra
espressione sul suo volto a parte quella di colui a cui avevano rubato
il giocattolo preferito, la lasciò andar via, in quella
gonna bordeaux che intravedeva sotto il cappotto.
“Ah.”
La Cuddy si voltò.
“Era mamma Bambi.”
Impossibile,
disse House tra sé e sé.
Impossibile!
Come diavolo…
Aveva.
Indovinato.
Gli occhi spalancati di chi non crede all’evidenza.
Santo cielo.
Afferrò la pallina bianca e rossa dalla scrivania e la
gettò contro il muro in un gesto di stizza.
Poi la lasciò cadere a terra e scivolare in un angolo della
stanza.
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“Cuddy!” un grido che riecheggiò per
alquanti istanti nei corridoi bui e deserti.
E il suono regolare dei tacchi di lei cessò
all’improvviso.
Si avvicinò, rapido quanto poteva, zoppicando.
Lo stava aspettando.
Davanti all’ascensore chiamato.
Con un sorriso lo guardava arrivare trascinando dietro di sé
la gamba dolorante.
“Hai barato. Devi avere per
forza barato!” esclamò con un minimo
di fiato corto per la corsa.
“Mi dispiace, House. Ma non puoi sempre averla vinta
tu.”
Poi, come se non l’avesse baciata,
come se lei non avesse indovinato,
entrò in quell’ascensore.