SOY: hmmm. Uh, salve. Spero che
questa fanfic vi piaccia? ^^;;;
……………………………………………
Rating: K+
Warnings:
avvenimenti storici.
Disclaimer: Hetalia non è una mia proprietà, quindi non aspettatevi
chissà che.
……………………………………………
Fratelli
Capitolo unico
–––
1847, Settembre – Genova
Stava piovendo.
Il cielo era coperto da
pesanti, minacciose nuvole scure, mosse da folate di vento freddo. Pioveva già
da molto tempo ormai, e la pioggia rendeva l’atmosfera tetra, deprimente, sicché
perfino la città di Genova, di solito ridente e bella, sembrava fredda e
inospitale allo sguardo, chiusa in se stessa.
Una figura ferma di
fronte al grosso portone d’entrata di casa sua stava fissando il cielo
pensosamente, i suoi pensieri scuri come le nuvole in arrivo, eppure non
sembrava risentire della pioggia. Viso imperturbabile, occhi seri e fissi
sull’orizzonte, una leggera increspatura fra le sopracciglia era l’unica cosa
che tradiva i suoi pensieri, decisamente meno calmi di come in effetti appariva.
Il suo nome era Goffredo,
di vent’anni, figlio di un ammiraglio della milizia aristocratica Sarda, ed era
uno dei tanti giovani che, spinti dalle belle parole recitate alle masse a
riguardo dell’unificazione, aveva dedicato il suo spirito, se non il suo cuore,
alla causa.
In effetti le teorie e i
desideri per una nazione unita, portati avanti dai cuori e dagli spiriti
intrepidi di molti uomini, erano ormai sulla bocca di tutti, il popolo fremente
dal desiderio di combattere per la libertà, e Goffredo fra gli altri, non aveva
mai mancato di mostrare apprezzamento verso quell’ideale per il quale già molti
avevano perso la vita.
Eppure…
Alla luce di giornate
come quella, dove Genova perdeva il suo calore, la sua bellezza, e ogni cosa
appariva infangata, deprimente… sembrava difficile
non pensare che proprio non ne valeva la pena.
Notizie di guerra
costante che raggiungevano le sue orecchie, i vicini che discutevano di guerra,
di morti e di unificare tutte le regioni in un’unica, sola nazione, per
dimostrare al mondo il senso di essere Italiani…
Questo suo sogno, questo loro sogno, sembrava fin troppo tremulo
e distante dalla realtà quotidiana.
Sarebbe mai diventato
realtà?
Tutte quelle persone che
combattevano a rischio della loro vita avrebbero mai visto un’alba come popolo
unito sotto un’unica bandiera? Tutte quelle mani tese, tremanti, nello sforzo
di raggiungersi attraverso il controllo Austriaco…
avrebbero ceduto sotto il peso immane di una battaglia che non potevano
vincere?
Il regno delle due Sicilie, Il regno di Sardegna, i Ducati di Parma e Modena,
per non menzionade il Regno di Lombadia-Venezia,
tutt’ora sotto il controllo dell’Impero Austriaco…
monarchie. Controlli singoli, ognuno indipendente, solitario.
Così tanti piccoli regni
avrebbero mai potuto unirsi sotto un unico comando?
E poi, ovviamente, gli
stati Papali. Se anche il resto di tutti quei Regni fosse caduto, unendosi
sotto un’unica bandiera, regno d’Italia, Goffredo non era certo che gli stati
Papali avrebbero mai accettato una cosa simile.
Combattere contro di questi… non sarebbe stato facile. Per nulla.
Chiudendo gli occhi per
non vedere la pioggia, Goffredo si lasciò andare ad un sospiro. Giuseppe
Mazzini lo sperava. Sperava in un regno unito. Una forza che potesse dare un
senso a tutte le sue battaglie. Libertà. Un sogno…
Ma perfino lui, che nel
suo piccolo faceva quel che poteva, stava iniziando a non crederci più. E che
cosa poteva fare, lui? Cosa potevano fare loro, giovani uomini con degli ideali
in comune? Una persona sola non poteva certo smuovere montagne, e quindi come
essere d’aiuto alle truppe, se non poteva ancora muoversi da Genova?
Il suo cuore, turbato,
non poteva darsi pace. Se non riusciva a mettere in parole il suo desiderio di
unificazione, se neanche il suo cervello, che parlava per il suo cuore, non
riusciva a spiegarsi, neppure a se stesso, allora…
Era difficile andare
avanti, in queste condizioni.
Come fare per dare una
mano? Come fare, per–
“Lovino! Fermati, per
favore!”
Goffredo aprì gli occhi,
sorpreso, e si voltò verso la strada principale che si snodava fra le case. Due
figure stavano salendo verso di lui, procedendo piano, esitando.
Erano due giovani uomini,
alti pressappoco uguali, magri e vestiti con delle uniformi che non aveva mai
visto, lacere in alcuni punti, sporche e bagnate. Non sembravano portare armi
su di loro, e di certo erano a disagio nei loro vestiti umidi e inzaccherati.
Alla vista dei due
giovani, Goffredo rimase perplesso, corrucciato; che ci facevano delle persone
in giro, e con questo tempo per giunta?
Di sicuro sembravano aver
visto tempi migliori.
A mano a mano che si
avvicinavano, Goffredo poté distinguere qualcosa di più di loro, facce serie ed
egualmente colpite dal tempaccio e dalla pioggia.
Chiaramente stanchi, si
muovevano lentamente, un passo dopo l’altro, e uno dei due stava zoppicando
leggermente, mentre l’altro teneva un braccio attorno alla vita, quasi a
proteggerlo dalla pioggia e dal fango.
Il giovane più alto
sembrava avere l’età di Goffredo, viso corrucciato e di cattivo umore, e stava
digrignando i denti per lo sforzo; capelli marrone scuro, con un piccolo ciuffo
che, incurante dell’acqua e della gravità, puntava chiaramente in alto, era
quello ferito ad un braccio, con bende che coprivano da dove Goffredo riusciva
a vedere, fino al polso. La medicatura era rossa di sangue rappreso.
Il secondo giovane era di
viso simile al precedente, così tanto da far pensare a Goffredo che fossero una
coppia di gemelli, o almeno fratelli con pochissimi anni di differenza fra di
loro, capelli e occhi di un marrone più chiaro. Anche lui aveva un ciuffo
ribelle che saliva a lato della testa, a sinistra, ed era lui quello che
zoppicava, trascinando il piede da cui sembrava scendere un leggero rivolo di
sangue mischiato ad acqua.
Forse…
Forse potevano essere
soldati?
Che cosa stavano facendo
lì, allora, e tutti soli per giunta?
“L–Lovi…?
D–dovremmo fermarci a controllare la tua ferita… puoi ancora muovere le dita, vero? Ve~” voce vagamente infantile, preoccupata, il fratello più
giovane tentò di raggiungere l’altro, senza riuscirci. “C–credo
sia meglio fermarci a Genova per la notte, no? Sta piovendo piuttosto forte…”
Il fratello maggiore,
fermandosi di botto, si voltò a guardare il più giovane con uno sguardo truce,
ma notando la posizione del fratellino, il modo in cui non poggiava il peso
sulla gamba, la sua espressione si rabbonì di colpo.
“V–va
bene, dannazione,” grugnì, scuotendo il capo. “N–non
mi piace questa situazione orribile, ma almeno potremmo trovare una locanda nei
dintorni”.
Si guardò intorno, una
mano posata sulla sua fronte per tenere gli scrosci di pioggia lontano dagli
occhi, per quanto poteva, e si fermò di colpo nel vedere Goffredo fermo sulla
soglia.
“Ehi, tu!”
improvvisamente ritrovata un po’ di energia, il più alto dei due si mosse verso
il Genovese, fissandolo minaccioso. “Dov’è una locanda in questa maledetta
zona?”
Schiena premuta contro la
porta, Goffredo avrebbe sicuramente fatto un passo indietro alla veemenza del
suo tono, ma non c’era spazio per ritrarsi, così chiuse le dita contro il legno
del portone, cercando di darsi un contegno.
Allo stesso tempo, il
fratello più giovane fece un piccolo scatto, aggrappandosi al braccio sano del
più anziano, trattenendolo. “Non fare così, Lovino…
sii gentile!”
Il tono era così pacato,
così gentile, che Goffredo sentì un vago calore propagarsi all’interno del suo
petto, riempiendolo di calma.
“Oh, potesse scusare mio
fratello qui,” colloquialmente, il più giovane fra i due fissò Goffredo negli
occhi. “Abbiamo avuto una giornata pesante, abbiamo camminato per ore, non creda… con questa pioggia, poi…
non è che saprebbe indicarci ove trovare una locanda per la notte? Le saremmo
molto grati, sa…”
Scuotendosi dallo stato
di torpore in cui era caduto, e sentendo un’ondata di patriottismo passargli
attraverso, Goffredo annuì. “Certo, certo, ci sarebbe una locanda più su, sulla
strada, continuando dritto da qui, oltre la chiesa,” si fermò per un secondo,
riflettendo. “Siete soldati, non è vero? Come… come
sta andando la guerra, si potrebbe sapere?”
“Uhm…
ecco…” spostando il peso del corpo sul piede sano, il
più giovane dei due fratelli guardò in basso, volutamente ignorando il
maggiore, che con un grugnito lo stava fissando, come a sfidarlo. “Forse è un
po’ troppo presto, credo…”
“Oh, insomma, basta!
Smetti di tentennare, accidenti! Non è che alla fine cambi poi molto!” con uno
sbuffo arrabbiato, il maggiore dei due si ritrasse dall’altro, ignorando il
gemito di protesta. “Mi hai costretto tu a venire qui e combattere,
dannazione!”
Chiaramente dimentichi
della presenza di Goffredo, i due si voltarono l’uno contro l’altro –il
maggiore con un’espressione carica di risentimento, il minore con titubanza,
labbra tese verso il basso.
Sembrava una scena
normale per loro, un litigio che avevano già fatto più e più volte…
“Ma…
Lovino… voglio che torniamo ad essere una famiglia unita…” il più giovane si spostò avanti, occhi marroni
spalancati ed imploranti. “Quando eravamo piccoli… mi
sei mancato tanto, e non volevo altro che stare di nuovo con il mio fratello maggiore… e anche ora!”
Ritraendosi di colpo,
chiaramente debole allo sguardo che stava ricevendo, carico di speranza, il
giovane chiamato Lovino guardò altrove, arrossendo. “Sì, sì, d’accordo, d’accordo… smettila di guardarmi così!”
“Ma allora, ci sono
battaglie in arrivo a Genova, per caso?” Goffredo riportò l’attenzione a ciò
che voleva sapere, ansioso ma allo stesso tempo eccitato.
Se la guerra fosse
finalmente arrivata anche da lui… forse avrebbe
potuto rendersi utile, aiutare a raggiungere gli ideali comuni…
un’Italia unita…
I due sconosciuti si
fissarono in silenzio, e Goffredo ebbe la sensazione di essere di troppo mentre
i due scambiavano una conversazione silenziosa, e all’improvviso si accorse di
averli disturbati, e arrossì dall’imbarazzo.
Stava trattenendoli con
domande stupide, e loro stavano lì, sotto la pioggia, feriti e stanchi. Che
razza di persona poteva mai fermarli in quel modo, e pretendere anche di
ricevere delle risposte?
“Possiate scusarmi! Non
so che mi è preso, di certo non volevo recarvi fastidio!” urlò, tentando di
ritrovare la sua compostezza. “Ma… perdonatemi se vi
sembro troppo diretto, ma non mi sembrate in grado di raggiungere la locanda,
nelle vostre attuali condizioni…” si grattò la barba,
preoccupato. “Posso offrirvi ospitalità e magari un bicchiere di vino, in
attesa che la pioggia finisca, e potrete anche cambiarvi le fasciature”.
Sperava così di rimediare
alla sua maleducazione ed insistenza, eppure sotto sotto,
desiderava comunque ricevere delle informazioni.
Il maggiore dei due,
Lovino, sembrò sul punto di rifiutare decisamente, ma uno sguardo al fratello,
al modo in cui si reggeva in piedi a stento, su una sola gamba, ed i suoi occhi
persero parte della loro asprezza. “D’accordo, accettiamo” mormorò, chiaramente
a disagio.
“La ringraziamo di
cuore,” con un sorriso riconoscente, il più giovane si voltò verso Goffredo,
che sorrise calorosamente a sua volta. Erano di certo diversi, e si notava.
“Ah, non ci siamo presentati, ci scusi! Io sono Feliciano, e questo è mio
fratello maggiore, Lovino”.
“Ah, datemi pure del tu!”
Goffredo rispose, dando loro il suo nome e osservandoli con un sorriso divertito.
Lovino stava di nuovo
guardando di lato, chiaramente a disagio, mentre Feliciano lo stava guardando,
in attesa.
“Entrate, entrate,
coraggio,” indicando la porta, Goffredo li spinse dentro, sentendosi
improvvisamente meno depresso.
Una volta dentro, nell’atmosfera
calda e accogliente di casa sua, Goffredo corse a prendere alcuni asciugamani,
offrendoli ai due. Sua madre non era ancora ritornata dalla sua visita ad una
vicina, e probabilmente avrebbe posticipato il rientro per quando fosse finita
la pioggia.
Prendendo dal mobile del
gabinetto alcuni rotoli puliti di bende e delle pezze bagnate, Goffredo ritornò
dai due nel piccolo salotto, trovandoli in piedi che si guardavano intorno,
indecisi e a disagio nella stanza pulita.
“Per favore, non fatevi problemi,
sedete” disse loro seriamente.
Come diceva spesso suo
padre, con gli occhi aperti e pieni di ammirazione, la polvere e lo sporco dei
soldati non era altro che il segno del loro valore, del loro desiderio di
libertà e unità, e Goffredo sentiva sua quella frase.
In seguito avrebbe
pulito, ma non di fronte a loro, per rispetto.
Senza ulteriori indugi,
Lovino si sedette in fretta, seguito dal fratello, che invece si abbassò sul
divano con un’espressione di dolore represso ed un leggero gemito. Sollevando
leggermente il pantalone dalla gamba, Feliciano si morse il labbro, guardando
il sangue coagulato sulle bende con un’espressione preoccupata.
Lovino si spostò le bende
dal braccio –erano sporche ed incrostate da fango e sangue, ma non sembrava che
la ferita fosse così grave.
Goffredo, ancora una
volta, si sentì di troppo. Erano soldati, e anche giovani, della sua età, ma
c’era qualcosa in loro che non riusciva a definire –una specie di familiarità,
un calore…
Annuendo a se stesso,
Goffredo li lasciò nel salotto e corse in cucina per versare loro un bicchiere
di vino, e magari qualcosa da mangiare da offrire loro. In cantina c’erano
delle bottiglie di buon vino per le occasioni speciali, e questa lo era, per
cui ne prese una delle migliori.
A dei soldati non poteva
che essere offerto il meglio, alla fine.
Tagliando delle fette di
pane e formaggio, Goffredo le dispose su un piatto e ritornò in salotto,
sentendosi in imbarazzo per non poter offrire di meglio in così poco tempo.
Lovino stava in ginocchio
di fronte al fratello, e stava ripulendo la ferita sulla sua gamba con la pezza
bagnata, dita gentili ma sicure che rimuovevano sangue e fango. Feliciano era
silenzioso, ma una delle sue mani era chiusa intorno alla spalla del fratello,
reggendosi a lui.
Goffredo, profondamente
colpito da una tale vicinanza fra di loro, rimase a guardarli immobile sulla
soglia, sapendo che la litigata di prima non era niente, se paragonata a
questo.
Vi era una grande
tenerezza, un’ammirazione profonda negli occhi di Feliciano mentre fissava suo
fratello maggiore, e Lovino stava chiaramente dedicando molto più tempo del
necessario affinché Feliciano non sentisse dolore.
“Non è così male come
sembra, sai?” mormorò alla fine, iniziando ad arrotolare le bende pulite
attorno alla gamba. “Stai già guarendo–” aggiunse qualcos’altro, con un tono
così sommesso che dalla sua posizione Goffredo non riuscì a sentire
chiaramente, afferrando solamente alcune parole riguardanti la perdita di
alcune parti di territorio.
Sì, magari Lovino non
stava combattendo a fianco del fratello di sua spontanea volontà, ma dalle sue
azioni, era chiaro che voleva bene a Feliciano. Per un momento, Goffredo si
domandò come sarebbe stato, avere un fratello, ma non si soffermò a lungo su
questo pensiero.
Non essendosi ancora
accorti della presenza di Goffredo sulla porta, Feliciano spinse il fratello
sulla poltrona, iniziando a rimuovere le bende dal suo braccio; contrariamente
al più giovane, Lovino reagì alle premure del fratello con commenti ad alta
voce e grugniti, eppure stava chiaramente arrossendo, colpito dalle cure di
Feliciano.
Sì. Erano chiaramente due
fratelli che si volevano bene.
“Eccomi, scusate il
ritardo,” Goffredo si avvicinò con il vassoio, offrendo loro il vino.
I due fratelli bevvero in
fretta, apprezzando il suo gesto e anche la qualità del vino, e si gettarono
subito sul cibo con altrettanta voracità, mantenendo comunque un certo livello
di dignità.
“Sono estremamente
dispiaciuto per le mie domande inopportune,” continuò Goffredo, “ma non
arrivano molte notizie qui a Genova, e…”
“Ah, non ti preoccupare,
amico, va tutto bene” Feliciano stava di nuovo sorridendogli, ed il Genovese si
sentì subito più rilassato. “Viaggiamo da un po’ ormai, cercando di fermare l’avanzata
Austriaca, e…”
“Ah, siete quindi parte
dell’armata del Regno di Sardegna?” Goffredo si sedette davanti a loro su una
sedia, fissandoli con intensità. “State combattendo per il sogno di Mazzini”.
Scambiandosi uno sguardo
che Goffredo non riuscì a leggere, i due fratelli annuirono.
Lovino, anche conosciuto
come Sud Italia, continuò a bere il vino, segretamente soddisfatto dalla buona
qualità e dal sapore forte, e osservò l’umano parlare con suo fratello con un
espressione arcigna.
Era ovviamente grato per
l’ospitalità, ma ciò non significava che avrebbe dovuto dimostrarlo.
Ormai era tardo
pomeriggio, ma sembrava quasi già notte, con le nuvole scure e la pioggia, e
probabilmente la locanda non avrebbe avuto nulla di pronto per loro, quindi
ovviamente apprezzava il cibo offertogli…
“Oh, smettila,” si
spazientì, arrabbiato dal modo in cui il fratello continuava a chiacchierare
con l’umano di nome Goffredo. “Non dare fastidio a questo povero giovane”.
“Non essere così freddo, Lovi~” Feliciano fece una piccola smorfia. “Continui a
lamentarti, ma credevo che saresti stato più felice, combattendo al mio fianco
per l’unità”.
Piegando il peso del
corpo verso lo schienale della sedia, Goffredo rimase ad osservarli ancora una
volta. Erano decisamente diversi, ma si vedeva chiaramente che Lovino, il
maggiore, non era d’accordo con le idee di Feliciano. “Se è possibile, vorrei
sapere perché state combattendo”.
Se non erano d’accordo,
come mai lottavano per lo stesso fronte?
Sud Italia lo guardò con
disprezzo ma non rispose, masticando una fetta di pane. Non voleva parlare.
Voleva continuare, ma rispettava il desiderio di Nord Italia di parlare con
qualcuno che non fosse lui, e poi… suo fratello aveva i problemi più grandi, essendo
stato ferito alla gamba. Un po’ di riposo non avrebbe fatto male.
“Voglio dire, condivido
il desiderio di un regno unito, secondo me è quello che dovrebbe essere, ma…”
Gli occhi pieni di calore
e passione, Goffredo fissò Feliciano, la persona con cui di sicuro condivideva
questo sogno; infatti, Nord Italia stava sorridendo, fiero, e Sud Italia
dovette ammettere che grazie alle parole dell’umano, un po’ della sua allegria
era tornata in lui. In effetti, non gliel’avrebbe mai detto, ma gli era mancata
quella vitalità nei primi anni di guerra.
In fondo, era stata
un’idea di Italia, l’unificazione.
Il loro popolo… tutto il loro popolo… era
insorto con desideri di libertà, di uscire dal controllo Austriaco, liberandosi
dalle catene dell’oppressione, e Italia aveva visto in questo un’opportunità di
riunirsi a suo fratello.
“Voglio rimanere con mio
fratello,” furono le semplici parole di Italia mentre fissava il fratello con
affetto. “Siamo stati separati per anni, e non voglio che accada più”.
Sud Italia cercò di
ignorare come le parole del fratello lo riempissero di calore, ma non ci
riuscì; era stato costretto ad unirsi alla battaglia dal suo popolo, e da suo
fratello, che non aveva mostrato alcuna esitazione, per una volta, anche se
Lovino, di suo, non aveva voluto neanche avere nulla a che fare con quella
faccenda della rivoluzione, dell’unificazione…
Per lui, rimanere sotto
il controllo di Spagna non sarebbe stato male (era nutrito, riverito e
coccolato, anche se non avrebbe mai ammesso di gradire nemmeno questo, e non
aveva mai dovuto lavorare un giorno della sua vita), ma Nord Italia non era
dello stesso parere.
Non che Sud non volesse
essere libero, padrone delle sue azioni, finalmente una nazione a sé stante… e di certo non odiava suo fratello. Invidioso sì,
anche perché Nord aveva tutto –l’arte, il commercio, la poesia…
ed ora, anche il desiderio di liberarsi dalle catene dell’oppressione
austriaca.
“Beh…
dovremmo stare insieme, no?” quelle parole, espresse con candore e senza il
minimo dubbio, ad un umano che di certo non avrebbe potuto capire la loro
situazione, per Lovino avevano un senso più profondo. Una spiegazione. “Nord, Sud… è comunque territorio Italiano, no? Noi due… noi siamo fratelli, ma viviamo separati, divisi da
questi limiti fra un regno e l’altro… combattiamo per
qualcosa in cui crediamo, per l’indipendenza. Non solo per liberarci da
Francia, Spagna e Austria, non solo per i territori” Italia lanciò un’occhiata
a Sud, con un piccolo sorriso. “Ma credo che il nostro
destino sia di stare in un’Italia unita. Come Fratelli”.
Lovino corrucciò la fronte. Sì, all’inizio era stato così –lui contrario, Feliciano a
favore.
E Sud Italia aveva
disprezzato suo fratello per così tanto tempo, e perfino in seguito, che
sentirlo parlare di unificazione, di condividere una nazione, un regno, una casa…
Eppure, non lo aveva mai
odiato.
Rimanendo in silenzio,
Sud Italia osservò le reazioni dell’umano con il quale Feliciano stava
parlando, e che così chiaramente condivideva le sue idee, e sentì un breve
sorriso minacciare di apparirgli sulle labbra.
Una volta, non era
d’accordo con l’idea di Italia. Schifato, contrario, si era opposto con tutto
se stesso, ma ovviamente, se non avesse cambiato idea, allora non lo avrebbe
seguito così lontano, combattendo al suo fianco, preoccupandosi per lui…
Era imbarazzante sapere
che Feliciano, con il suo viso dolce e le sue parole accorate, sapeva
perfettamente di aver conquistato Lovino ormai da molto tempo.
“Certo, lo credo anche
io. Una famiglia deve stare unita, perché l’unione è ciò che ci rende forti,”
Goffredo annuì, osservando il modo in cui Feliciano continuava a lanciare delle
brevi, veloci occhiate al fratello.
“Ve~
certo! E poi, anche se all’inizio abbiamo lottato l’uno contro l’altro, adesso
Lovino, nonostante tutto, rimane al mio fianco”.
Sud Italia non poteva
certo negare l’evidenza, anche se cercava comunque in ogni modo di ignorarlo.
Un’Italia unita, un’unica casa, solo loro due…
Accettarsi a vicenda, ed
essere una famiglia unita, secondo non il desiderio del nonno (che comunque
aveva poca importanza per Lovino, ancora incapace di perdonare a Roma la
preferenza per suo fratello), ma per il loro desiderio. Suo e di Feliciano.
Combattendo per questo
ideale lo aveva fatto sentire forte, a suo agio. Finalmente
utile. A
qualcuno importava, nonostante tutto, di lui. Nord stava combattendo per il suo
sogno di una famiglia libera e riunita, andando contro il suo stesso odio verso
la Guerra, e per rispetto a questo sogno che Sud aveva iniziato a condividere,
avrebbe lottato al fianco del suo fratellino.
Italia Veneziano, suo
fratello.
Famiglia. Se prima non aveva avuto alcun interesse nel condividere
qualcosa con lui… beh, ora era diverso. Voleva bene a
suo fratello, e questo era quanto.
Potendo, avrebbe protetto
suo fratello, e sarebbero diventati forti insieme. Non che Lovino avrebbe mai
ammesso niente di questo, e poco importava che Feliciano lo sapesse già. L’apparenza contava ancora
qualcosa, per quanto stupido fosse.
Goffredo, ignaro di ciò
che Sud Italia stave pensando, ignaro di chi, o cosa,
i due fratelli fossero davvero, continuò a guardarli fisso; vedere la
determinazione negli occhi di Feliciano, e per quanto tentasse di nasconderlo,
la stessa determinazione anche negli occhi di Lovino…
fu abbastanza per riempirlo di energia.
Questa… questa era la ragione
per cui voleva combattere.
Quella stessa sensazione
di unione, per la quale tutta l’Italia, dal nord al sud, stava lottando
strenuamente.
Un popolo unito, come…
“Ehi, stupido Feliciano,
dovremmo andare, adesso”.
Sud aveva perso suo
fratello ad un qualche punto della sua conversazione con Goffredo, anche se
aveva sentito nominare Polonia almeno un paio di volte (con il suo nome umano,
ringraziando Dio… sarebbe stato problematico farsi
scappare qualcosa di troppo in un modo così stupido), ma ascoltare l’umano
parlare delle sue conoscenze polacche stava diventando noioso.
E poi, aveva finalmente
smesso di piovere.
Inghiottendo l’ultimo
pezzo di pane (la parte di Feliciano accuratamente riposta nella sua tasca, per
quando, una volta usciti dalla casa, suo fratello avrebbe iniziato a
lamentarsi, dato che non aveva preso neanche un boccone), Lovino si mise in
piedi, testando le dita della mano per controllare la fasciatura.
Non stava sanguinando, e
non faceva neanche male, ormai.
“Grazie per l’ospitalità”
grugnì. Di certo non poteva essere scortese con colui che li aveva accolti in
casa sua, sfamati e aiutati.
Affrettandosi ad alzarsi
in piedi, reggendosi al braccio del fratello per controllare se la gamba
avrebbe retto, Feliciano lanciò un sorriso riconoscente verso Goffredo. “Non
vedo l’ora di avere un letto pulito nel quale infilarmi…”
ammise, vagamente imbarazzato. “Sono settimane che dormiamo all’addiaccio… oh, ve~ magari
potremmo mangiare della pasta per pranzo, domani!”
Goffredo li condusse alla
porta d’ingresso, sorridendo ma sentendosi triste nel vederli partire. Nuove
facce, notizie da fuori… faceva sempre piacere
ascoltare la voce di qualcuno che stava lottando nel fronte.
All’esterno, aveva
finalmente smesso di piovere; la temperatura si era abbassata, ma le nubi nere
si stavano muovendo altrove, lente e pesanti, e le ombre della notte stavano
avanzando rapidamente.
Sarebbe stato meglio per
i due trovare subito la locanda e dormire.
Era passato davvero così
tanto tempo? La pendola del nonno nel corridoio non mentiva, indicando che
erano trascorse già due ore dal loro arrivo.
Feliciano e Lovino non si
girarono nemmeno mentre si allontanavano dalla casa, un ultimo saluto, una
stretta di mano ed un ringraziamento, e poi salirono su per la strada, sparendo
dietro la prima curva, in direzione della chiesa, due fratelli, due soldati,
combattendo per ragioni personali eppure così comuni.
Lentamente, Goffredo
rientrò in casa, sentendosi stranamente fiero e pieno di energia.
Salì le scale come in
trance, la mente rivolta altrove, parole che sgorgavano come acqua da una
sorgente, e solo quando ebbe raccolto la sua penna dal calamaio la sua calma si
dissolse di colpo, e le sue dita corsero veloci sopra pagine bianche,
coprendole d’inchiostro.
Attorno a lui lettere ai
suoi compagni del movimento, bozze incomplete di articoli, lettere e lezioni,
ma incurante di tutto, lui continuò a scrivere, occhi che correvano alla
finestra in direzione del tetto della chiesa, visibile dalla sua posizione,
cercando le figure dei due fratelli che erano ormai sparite del tutto.
Tanta era la sua
dedizione alla scrittura in quel momento, che non sentì neanche sua madre rientrare,
e nemmeno la sua voce chiamarlo dal piano di sotto, per poi mettersi a
cucinare.
Non rialzò più lo sguardo
fino alla fine, e solo allora, con un breve sospiro, mano tremante per aver
scritto così tanto, si fermò, controllando le sue parole, nero su bianco.
Goffredo rilesse il poema
che aveva scritto più e più volte, controllando ogni frase, ogni rima,
cancellando e riscrivendo, e ogni volta, ripensando ai due giovani che non
avrebbe sicuramente mai più rivisto, sorrise di gratitudine.
“Ai Fratelli d’Italia,”
mormorò, firmando l’ultimo foglio con uno svolazzo del polso. “Credo andrà
bene. Credo che sia perfetto”.
Alzandosi dalla sedia,
Goffredo si avvicinò alla finestra, osservando gli ultimi stralci di luce
diurna che se ne andavano, inghiottiti dalla notte.
“Magari non mi è ancora
possibile combattere, dare inl mio contributo, eppure… se solo una persona potrà ritrovare nei miei versi
la stessa dedizione mostratami da quei due fratelli, la stessa determinazione
che io stesso sento dentro, allora… allora il mio
contributo, l’ho dato”.
Un canto agl’Italiani.
Fratelli.
Combattere insieme per
un’ideale commune, lottando e avanzando con tutta la
loro forza, i desideri di tutti riuniti, menti e corpi e anime e cuori, avanti
e avanti…
Come quei due fratelli,
semplicemente questo.
Uscendo dalla sua stanza,
Goffredo stava ancora sorridendo, felice.
‘Canto degl’Italiani,
un poema per l’unità, come fratelli sotto la stessa
bandiera,
composto da Goffredo Mameli, anno del signore 1847.
Finchè non raggiungeremo ciò che inseguiamo, il nostro sogno,
non ci fermeremo.’
–––
Referenze storiche:
Goffredo Mameli
(1827–1849) fu un insegnante al collegio di Carcare a
Savona, e scrisse le parole per il ‘canto degl’Italiani’ durante in 1847, in un
momento di incertezza politica, mentre si combatteva per l’idea che Mazzini
andava sbandierando –un’Italia unita sotto un’unica
bandiera.
Nel 1846 Goffredo Mameli
espose il tricolore per celebrare l’abbandono Austriaco dei territori Italiani,
e dopo il 1847 combattè attivamente, fino ad essere
arruolato sotto il comando di Garibaldi. Nel 1848 diventò anche direttore
del giornale ‘Diario del Popolo’.
Morì un anno dopo, in
seguito ad una ferita infettata infertagli da uno dei suoi commilitoni.