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Autore: Supersunny91    04/09/2005    3 recensioni
In una cittadina apparentemente perfetta, in una casa apparentemente perfetta, avvengono misteriose scomparse, la gente cambia...Alexander dovrà rischiare tutto per non cambiare...Ragazzi recensite tanto anche se si tratta di una stupidata di qualche anno fa...Ma lascio a voi il giudizio
Genere: Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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LA CASA

 

 

LA CASA PERFETTA

 

 

 

- Porta le valige nella tua nuova stanza, Alexander, e in fretta! – comandò la signora Warren al figlio che, appena arrivato, si era già sdraiato comodamente sul divano. Ma prima che il sedicenne avesse la possibilità di alzarsi, un mini robot, che fino ad allora se ne stava inchiodato al muro, inerte, afferrò le tre valige di pelle e si affrettò a salire le scale.

- Grazie ehm…come ti chiami? – cominciò Alex.

- 136, al suo sevizio! – rispose la macchinetta con voce metallica.

- Io preferirei chiamarti con un nome, veramente. Che te ne pare di Eroll?

- Eroll al suo servizio, signorino Alexander! – ripeté prontamente il robottino.

Mentre la signora Warren faceva mille complimenti all’architetto e inventore della casa, Alfred Walford, Alexander contemplò la più grande e prestigiosa costruzione che avesse mai visto: tutto era illuminato da una luce giallo-arancio che dava una sensazione di antico in quell’abitazione più che moderna; grandi specchi ovali bordati da cornici dorate e argentate erano presenti in tutte le spaziose stanze, come anche le primule e le rose fresche, i preziosi e colorati vasi cinesi e i tappeti persiani; le finestre, ornate da tende di pizzo che variavano colore ogni secondo, si aprivano in un paesaggio da favola, uno dei più ricchi quartieri della città, costituito da ville imponenti e straboccante di verde da tutti i pori. Proprio davanti alla loro casa, si trovava quella sfarzosa dei vicini, una famiglia che, come loro, si era trasferita da poco e sembrava più che simpatica e amichevole.

Dopo aver dato un ultimo sguardo a quell’uomo sulla quarantina dal viso ancora perfetto e la corporatura robusta che ammaliava la madre e che, con il suo grande ingegno aveva inventato il vero futuro, Alexander salì le scale e vi trovò, in cima, un Eroll apparentemente spento, come lo aveva visto prima, e che se ne stava inchiodato alla parete dipinta di arancione con la luce rossa dell’antenna ancora lampeggiante.

Arrivato davanti ad una porta di legno di frassino con inciso in caratteri argentati “Alexander”, il ragazzo aprì lentamente la porta, come se volesse gustarsi pezzo per pezzo la bellezza di quel paradiso che sarebbe stata la sua nuova stanza.

All’inizio intravide solo una camera buia, ma, quando la porta si spalancò, un leggero bagliore iniziò ad accendersi ed a rischiarare l’enorme vano: le mura erano variopinte di azzurro con qualche strisciolina offuscata qua e là…ma guardando bene, il ragazzo si accorse che si trovava nel cielo, fra le nuvole e, sul soffitto, si poté scorgere anche il sole da cui si dovette riparare con il braccio.

Su ogni lato si trovavano degli schermi neri giganteschi e, sempre sulla parete, erano inchiodate quattro casse senza però nessun telecomando o stereo. Nemmeno le televisioni avevano un telecomando, ma la risposta a quel mistero venne data subito.

- Benvenuto, Alexander Warren, nella sua nuova stanza. Vuole ascoltare della musica o guardare la televisione? Desidera un libro o una play station? Domandi pure, siamo a sua disposizione. – spiegò la voce di una donna che proveniva dalle pareti.

- Niente, per ora, grazie, – si affrettò a rispondere Alexander spegnendo automaticamente il dispositivo – era ora di iniziare la vera vita! – e con questo saltò su e giù sul parquet, vinto dalla felicità. Ad un tratto, i suoi salti arrivarono, non so come, fino al soffitto e, per un momento, Alexander pensò agli anni di atletica che aveva fatto, ma subito cancellò dalla mente quelle idee sciocche e guardò sotto di lui. Cadde quasi quando vide che il pavimento si piegava come col mal di pancia alle sue cadute e lo faceva rimbalzare come un pallone da basket.

- Questa sì che è vita, ragazzi!- ululò mentre rimbalzava sdraiato senza fare nessuno sforzo.

 

Una settimana passò, in quella che sembrava una casa vivente, con le mura che si piegavano si smaterializzavano all’improvviso, con le sedie in grado di arrivare in cielo usando solo delle parole che sembravano funzionare come della formule magiche. I signori Warren non si stupivano più, ormai, alle novità di quel mondo reale e, allo stesso tempo, utopico, e Alexander sembrava drogato da quel posto, tanto che, pur di non staccarsene, invitava sempre gli amici da lui per non dover andare da loro. Continuava la scuola, ed era anche migliorato negli studi poiché la casa lo sosteneva con i compiti e a memorizzare le lezione e, in generale, tutta la sua vita si era ottimizzata: i compagni di classe gli stavano sempre vicino e gli facevano mille domande sulla nuova dimora, come se fossero tentati anch’essi di comperarla.

Alexander aveva anche legato con i vicini di casa, gli Austin che vivevano lì da circa un anno, ma soprattutto con la loro figlia, Rose: era una ragazza vivace e solare, un anno più giovane di lui e, anche se non frequentavano la stessa scuola, non si poteva dire che non si incontrassero spesso. Ogni giorno si vedevano, anche senza farlo apposta: bastava uscire contemporaneamente in giardino per trovarli a chiacchierare sulle cose più futili, da quello che avevano mangiato per pranzo alla politica.

Alexander conosceva molto bene anche i suoi genitori, due tipi davvero generosi, premurosi e cordiali. Qualche volta anche troppo. Rose lo spiegava col fatto che la casa li aveva trasformati, che ormai non si sentivano più persi e disperati come prima, ma ora erano…liberi. Alexander avrebbe comunque preferito che non succedesse ai suoi genitori, che, anche se potevano avere tutti i difetti del mondo, erano sempre i suoi genitori. Si arrabbiavano, litigavano, lo sgridavano e certe volte li odiava per questo ma forse era anche per questo che voleva loro bene.

E così la sua vita sembrava perfetta, nulla lo turbava più, i problemi con i compagni e con i desideri spesso non realizzati di avere videogiochi e computer erano rimasti solo un’ ombra nel suo passato. La sua vita in quel momento pareva perfetta.

Ma un giorno, qualcosa sembrò far tornare Alexander sulla terra. Era sera e la famiglia stava mangiando cucina francese quando ricevette una chiamata urgente: era la madre di Martha, la ragazza che aveva passato il pomeriggio insieme ad Alexander: non si trovava più. Non era a casa. Non era da un’amica. Era semplicemente sparita. La signora Barlow, la madre, aveva chiesto a tutti i conoscenti se l’avessero vista da qualche parte, se ne avessero un minimo di traccia. Ma nulla.

Dopo quella chiamata, ne arrivarono altre tre che chiedevano la stessa cosa, però di Dave, Dirk e Helen. Nessuna notizia. Erano spariti tutti. Dirk il giorno prima era stato da lui ed infatti era da ieri che non si vedeva. Anche Dave e Helen gli avevano fatto visita, tre giorni prima, ed erano entrambi spariti da tre giorni.

Che cosa stava accadendo? Non si sapeva. Perché sparivano tutti all’improvviso dopo esser stati a casa loro?

Un altro mistero.

I signori Warren decisero senza indugio di chiamare ilo signor Walford, per saper cosa ne pensava.

Quella sera Alexander non riuscì a dormire, nonostante gli sforzi della casa nel fargli passare una notte di buon sonno. Il ragazzo chiese alla voce delle mura se avesse visto accadere qualcosa agli amici. Non rispose. Sembrava essersi già spento, ma non si stupì: erano le tre del mattino.

 

-    Cosa ti ha detto Alfred Walford a proposito di…tu sai cosa? – chiese Alexander alla madre una volta in cucina.

-    A proposito di cosa, tesoruccio caro?  - chiese la signora con un sorriso a più di cinquanta denti.

Non succedeva spesso che la signora Warren fosse felice, anzi, era la prima volta. Alexander spalancò così tanto la bocca che una mano metallica con un toast spalmato di marmellata gli mise subito in bocca il cibo, soffocandolo. Ma Alexander non se ne accorse nemmeno. Sua madre gli aveva sorriso. E continuava a sorridere così insistentemente che provò un brivido lungo la schiena.

- È vero, di cosa stai parlando? Non ti piace il toast?- il signor Warren entrò in cucina anch’esso con un sorriso quasi maniacale.

Questo è troppo, pensò Alexander. Lo stavano prendendo in giro?

Si girò a riguardare i propri genitori. Stavano ancora sorridendo e continuavano a guardarlo con finto amore.

- Co-cosa è successo di tanto bello da ridere tutto il giorno? Si è tutto risolto vero? – domandò perplesso il ragazzo.

-    Non capiamo proprio di cosa tu stia parlando! Perché dovrebbe essersi risolto qualcosa? Nulla non va da quando viviamo qui, no? Va tutto bene – rispose la donna abbracciando il figlio ormai in dubbio sulla propria fermezza mentale.

-    Insomma! Cosa succede? Qualcuno si degna di rispondermi? Cosa è accaduto ai miei amici? Rispondetemi! – Alexander perse la pazienza.

Questa volta furono i genitori a guardarlo male. Avevano qualcosa di strano nello sguardo…

- Cosa ti è successo, figliolo? Perché ti agiti tanto? Non è successo niente ai tuoi amici! E perché ci guardi così?- chiese il signor Warren fissando il figlio senza battere ciglio.

Alexander stava fulminando con lo sguardo quegli esseri che avevano assunto l’aspetto dei genitori, quasi certo che fosse uno scherzo idiota. Ma perché scherzare su un argomento tanto delicato?

Come risposta, i due alieni lo abbracciarono sussurrando frasi come “ti vogliamo bene” oppure “va tutto bene”.

Tutto questo continuò per l’intera giornata, tanto che Alexander dovette chiudersi in camera per sfuggire ai due matti. Alla fine si decise a chiedere informazioni al signor Walford. Non poteva vivere per sempre nell’ignoranza.

L’ufficio di Alfred Walford si trovava al limite della città e sembrava ancora più suntuoso della loro casa: sembrava il palazzo di un re. Un fontana gigante era posizionata proprio davanti all’edificio, e ai lati si estendevano grandi giardini. Un paio di volte Alexander parve sentire dei ronzii acutissimi.

L’architetto lo accolse calorosamente e lo fece accomodare nell’ampio salone. Sembrava un palazzo molto antico, ma qualche robot si aggirava nei corridoi e nelle stanze con una grande fretta. Alexander si chiese più volte dove si stessero dirigendo, ma Walford distolse il suo interesse verso gli amici di metallo.

- Allora, cosa ti ha portato qui, Alex? Ti posso chiamare Alex, vero? – chiese il signore sorridendo amichevolmente.

- Sì, certo. Volevo sapere se è a conoscenza delle scomparse dei miei amici, Martha Barlow, Dave Radcliffe, Dirk Taylor ed Helen Wotton. Sono spariti propri dopo esser comparsi a casa mia…i miei genitori devono averla informata…- spiegò il ragazzo a disagio.

- Non preoccuparti! Con i tuoi genitori ho sistemato tutto! I tuoi amici hanno fatto una piccola gita segreta senza dire nulla a nessuno. Credo volessero solo divertirsi un po’: siete giovani, no?! – e con questo congedò il ragazzo confuso.

Tutto questo puzza un po’, pensò Alexander, perché non mi hanno detto nulla?

Dopodiché chiamò a casa dei compagni per saperne qualcosa di più.

- Pronto? Sono Alexander. Il signor Walford mi ha detto che Martha è andata in gita con Dave e gli altri. Non ne sapevo nulla, può dirmi dove sono andati di preciso?

- Cosa? Martha è andata in gita? Non la vedo da giorni, ma non penso che sia uscita senza dirmi nulla. Chi è questo signor Walford? Lui ne sa qualcosa? – fu la risposta della signora Barlow.

Alexander riattacco in fretta. Gli aveva mentito. Erano spariti e basta. Non esisteva nessuna gita. 

Il ragazzo si rincamminò verso il palazzone. Doveva chiarire una volta per tutte cosa era successo. Quell’Alfred era un tipo sospetto.

Questa volta non bussò nemmeno prima di entrare: la porta era socchiusa. Basta con le formalità.

Il salone era vuoto, ma si poteva udire un continuo ronzio fastidioso sicuramente artificiale. Alexander si guardò intorno. La stanza in fondo al corridoio era aperta. Proveniva da lì il rumore. Sulla porta vi era inscritto “ufficio di Alfred Walford, vietato l’ingresso ai non autorizzati”. Alexander si avvicinò fino a trovarsi proprio di fronte alla stanza. Era fiocamente illuminata e si trattava solo di un piccolo sgabuzzino. Abituando gli occhi al buio Alexander intravide una scalinata di pietra che scivolava verso il basso. Mosso da un certo incitamento, scese la rampa di scale. La luce si faceva sempre più debole. Qualche volta inciampò rischiando di ruzzolare giù. L’aria era fredda. Il ronzio sempre più acuto. La scala sembrava infinita. Alexander provò una cerca nota di terrore scendendo sempre più giù.

Finalmente le scale si estinsero e si trovò lungo un corridoio lunghissimo e luminosissimo. Dovette proteggersi con la mano. Abituato alla luce intravide una serie di porte nere lungo entrambi le pareti. Dove poteva trovarsi Walford? Decise di provare in tutte le stanze, ma qualcosa sembrò trattenergli i piedi inchiodati a terra. Era la paura.

Si fece coraggio e aprì la prima porta scoprendone solo uno spicchio per poter esplorare con un occhio solo. Nulla: buio. Quello che lo colpì fu però un odore nauseabondo. Aprendo un po’ di più la porta riuscì a far entrare un po’ di luce nella stanza. Solo allora si accorse dei sacchi neri a grandezza d’uomo sparsi su tutto il pavimento, uno sopra l’altro. Uno dei sacchetti si era leggermente aperto. Alexander parve intravedere una cosa simile ad una scarpa, ma non ne fu sicuro. Chiudendo velocemente la porta cercò di ingoiare quel groppo che si era formato nella gola.

Nella seconda stanza si trovavano solo dei dispositivi rotti e pezzi di robot danneggiati.

Alexander si guardava alle spalle ogni secondo. Gli pareva di aver sentito dei passi, ma, ogni volta che si girava, scopriva di esser solo. Il ronzio gli stava dando alla testa. Dopo aver ispezionato numerose stanze vuote o piene di materiali inutili, si fermò di fronte ad una porta da cui poté percepire alcune voci. Sentiva anche quella di Walford. Una parte di sé gli suggeriva di non farsi vedere subito, ma di assicurarsi della circostanza in cui si trovava l’imbroglione. Seguì quella vocina dentro di sé.

Aprì la porta di metallo quanto bastava per ispezionare il laboratorio gigantesco. C’erano almeno una cinquantina di persone. Il locale doveva misurare almeno quattrocento metri cubi. Più di un appartamento. Sembravano tutti scienziati. Stavano lavorando su qualcosa di molto importante, forse un robot. Gli si gelò il sangue. Quel robot su cui lavoravano tanto laboriosamente aveva qualcosa…di umano. La testa…e le braccia. Sembrano vere. Guardando ancora più attentamente Alexander si accorse che avevano un ché di familiare: erano di Dirk. Stette per svenire. La nausea lo colpì come una pallottola d’argento in un licantropo. Stavano trapiantando qualcosa nel cervello dell’amico. Oltre alla testa e alle braccia era tutto metallo, gambe, busto…e doveva esserlo anche il cuore. Gli occhi erano aperti. Sembrava sveglio, ma incapace di parlare, come se non avesse più il controllo dei propri muscoli.

-    E anche questo fatto. Gli avete inserito bene i dati? - chiese Walford setacciando ogni centimetro di quel corpo ormai privo di vita propria.

-    Certo, Signore. Il numero 4508 è perfetto, possiamo metterlo nella stanza con gli altri – rispose prontamente uno scienziato.

Cosa?!Vuol dire che ce ne sono altri come lui?! Si chiese Alexander ormai al limite della ragione e del controllo. Si sentiva svuotato, si sentiva consumare dentro, come se tutta la malignità e la pazzia di quegli esseri al di fuori dell’umanità gli infliggessero continue pugnalate.

Avrebbe voluto urlare, ma la voce gli mancò. Stava soffocando di orrore e di paura. Chiuse la porta senza badare all’allarme che stava dando e si mise subito a correre verso le scale, ma quegli uomini sembrarono accorgersi della sua presenza e attivarono un dispositivo che fece ruotare il corridoio più volte e che fece chiudere la porta di ogni stanza. Era intrappolato, ma non si diede per vinto. Doveva vivere. Doveva farlo per vendicarsi dei suoi amici. Doveva nascondersi in modo che potesse avere almeno il tempo di chiamare la polizia. Decise di chiudersi in una delle stanze destinate ai pezzi danneggiati delle macchine. Corse verso la porta ignorando le continue rotazioni del corridoio che lo facevano scivolare e girar la testa. Aprì la stanza. Era quella giusta. Chiuse senza fare il minimo rumore. Si sedette e tirò fuori il cellulare. Aveva il respiro affannato e sentiva il cuore esplodere. Stette quasi per urlare quando vide che non ubbidiva ad accendersi. Forza! Forza, accenditi stupido aggeggio! Mormorò a denti stretti. Il ronzio si faceva sempre più forte. Doveva essere il rumore che facevano quelle macchine umane. Era sempre più forte. Sempre più vicino.

Ad un tratto Alexander sentì un gemito. Era nella stanza. Non era solo, c’era qualcun altro. Lentamente girò la testa mordendosi così forte il labbro inferiore da farlo quasi sanguinare. Si sarebbe messo a ululare di gioia ma in quel momento si sentiva vuoto dentro: proprio davanti a lui era raggomitolata Helen. Si teneva le ginocchia strette in petto e lo guardava, piangendo.

- Helen! Sei salva! – sussurrò il ragazzo sfiorandole il braccio con delicatezza, quasi per la paura di farle male.

Non ottenne risposta. La ragazza pareva sotto choc.

- Alex – lo abbracciò debolmente – hanno fatto delle cose terribili a Dirk e a Martha. Sono dei mostri! Siamo condannati, non lo capisci?! Saremmo macchine anche noi – pianse.

- NO, non lo permetteremo! Dobbiamo resistere, Helen, dobbiamo farlo per loro, Dirk e Martha. Dave …? – chiese con il cuore in gola.

- Non so dove sia. Io sono riuscita a nascondermi qui e, cercando una via d’uscita ho visto Dirk e Martha in quel laboratorio… Dave deve esser scappavo, ma non ne sono sicura…- mormorò tristemente.

Passarono secondi interminabili di angoscia e dubbio, poi, finalmente Alexander fece la domanda fatale.

- Cosa facciamo? Se usciamo di qui – rabbrividì – sappiamo ciò che succederà e se restiamo qui ci scopriranno prima o poi – mentre lo diceva sentiva come una forza che lo demoralizzava, lo rassegnava.

Solo allora si accorse che qualcosa si muoveva nell’oscurità. Un sacchetto nero, come quello che aveva visto nelle prime stanze che aveva perlustrato si alzava leggermente, con regolarità. Alexander si avvicinò. Poteva esserci di tutto, forse anche il suo amico Dave, ma poteva anche esser una macchina di morte. Alexander provò ad aprire il sacchetto. Sentì il cuore smettere di pulsare e un’angoscia consumargli l’anima. Quello che aveva d’avanti era un animale. Sembrava un cane, ma doveva esser stato incrociato con qualche altra specie, perché possedeva delle zampe cortissime, quasi inesistenti. Il corpo era sproporzionato confronto alla testa che pareva una pallina da tennis. Helen, che se n’era stata in disparte impaurita, ora, alla vista di quel mostro, sembrò non esser più presente: i suoi occhi si svuotarono, come se fosse stata cieca e le gambe si piegarono debolmente, facendola seder per terra, con le braccia che toccavano il pavimento.

La creatura aveva gli occhi aperti e pareva morto, ma il suo addome si alzava e si abbassava. Respirava.

Doveva esser stato un esperimento fallito, una cosa andata male, ma lasciata viva per pura crudeltà, indifferenza, insensibilità, pazzia.

-    Sono tutti pazzi – mormorò piano Alexander, vinto dall’orrore.ora gli pareva difficile anche respirare e si sentiva sanguinare ovunque, per quanto era sfinito.

Avrebbe voluto piangere, ma nemmeno le lacrime avevano spazio in un posto assurdo come quello.

Ad un tratto Alexander sentì i timpani rompersi per il ronzio che ormai aveva quasi raggiunto la stanza dove si trovava. Tra qualche secondo sarebbe stata la fine. La porta si spalancò di botto con un’esplosione e in un secondo i robot entrarono con in mano le loro armi di un modello che Alexander non conosceva. Erano tre, i robot. Erano loro, i suoi amici. Helen svenne. I robot si avvicinarono ad Alexander che non capiva neppure più come mai si trovava lì. Sapeva solo che i suoi amici Dirk, Martha e anche Dave si stavano dirigendo verso di lui, con un corpo che non era il loro. Ma, tra tutto quello quel ferro che corazzava gli ex-ragazzi, Alexander poté notare una cosa che lo fece affliggere ancora di più e allo stesso tempo, arrabbiare con Alfred Walford e colui che lo aveva istigato a comportarsi da pazzo criminale. Erano i loro occhi che lo sorpresero. Sembravano presenti. Lo fissavano, ma non con rabbia e determinazione, ma con qualcosa che sembrava... tristezza. Tutto il resto del viso era fisso e immobile, ma gli occhi…quelli esprimevano un’angoscia mortale, come se l’anima dei compagni persistesse ancora.

-  Sono io, Alexander, so che mi sentite! – urlò alla macchine che continuavano ad avanzare.

Ma nulla. Puntavano le armi verso di lui. Gli occhi sembravano piangere. Alexander tentò invano di raggiungere la porta, ma le enormi creature gli si piantarono davanti, minacciose e imponenti.

Alexander si buttò a terra, cercando di non pensare, di finire tutto senza guardare gli occhi penosi degli amici costretti ad ucciderlo. Ed ecco la micidiale scossa di elettricità. Alexander cadde a terra.

 

- Ecco, ne ho trovato uno enorme! – esclamò Alexander intravedendo un fungo di considerevole dimensione.

- Mi dispiace dirtelo, ragazzo mio, ma mi sembra velenoso. Eh, sì, pare proprio velenoso, ma ne troveremo altri, vedrai – lo rassicurò suo padre adottivo, il signor Robby Elson.

Erano passati due mesi dall’avventura assurda di Alexander. Dopo essersi svegliato tra sirene della polizia e le urla di Alfred Walford che veniva arrestato, un gentile vecchio si era offerto di tenerlo a casa sua. Il tutto si era risolto grazie alla figlia dei vicini, Rose, che aveva capito cosa stava succedendo, o meglio, aveva intuito qualcosa, qualcosa di così forte da aver chiesto alla polizia di indagare. I genitori di Alexander avevano un chip nel cervello che li aveva resi pazzi e che non si poteva estrarre pervia di un pericolo mortale. Era stato difficile accettare la morte degli amici e la separazione dai i genitori, ma alla fine era riuscito a cancellare il proprio passato. Aveva cambiato scuola e cercava di non legare troppo con nessuno. Non voleva più soffrire.

Alexander , dopo aver percorso pochi passi, intravide un gruppetto di piccoli funghetti che raccolse ed inserì felicemente nel sacco. Era da un’ora che stavano vagando per il bosco, cosa che facevano ogni domenica, prima di andare al lago a pescare.

Alexander, dopo aver aiutato il padre adottivo a salire per delle scalinate rocciose, intravide qualcosa di colorato nascosto in un cespuglio che inizialmente identificò come un altro fungo, idea che cancellò quasi subito.

Solo allora si accorse del leggero ronzio che squarciava il silenzio del bosco.

- Che c’è che non va, caro mio? – domandò il vecchio sorridendo come un ossesso.

 

Alexander rabbrividì.

  
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