LA CASA PERFETTA
- Porta le valige
nella tua nuova stanza, Alexander, e in fretta! –
comandò la signora Warren al figlio che, appena
arrivato, si era già sdraiato comodamente sul divano. Ma prima che il sedicenne
avesse la possibilità di alzarsi, un mini robot, che fino ad
allora se ne stava inchiodato al muro, inerte, afferrò le tre valige di
pelle e si affrettò a salire le scale.
- Grazie ehm…come
ti chiami? – cominciò Alex.
- N° 136, al suo sevizio! – rispose la macchinetta con voce
metallica.
- Io preferirei
chiamarti con un nome, veramente. Che te ne pare di Eroll?
- Eroll al suo servizio, signorino Alexander!
– ripeté prontamente il robottino.
Mentre la signora
Warren faceva mille complimenti all’architetto e
inventore della casa, Alfred Walford,
Alexander contemplò la più grande e prestigiosa costruzione che avesse mai visto: tutto era
illuminato da una luce giallo-arancio che dava una sensazione di antico in
quell’abitazione più che moderna; grandi specchi ovali bordati da cornici
dorate e argentate erano presenti in tutte le spaziose stanze, come anche le
primule e le rose fresche, i preziosi e colorati vasi cinesi e i tappeti
persiani; le finestre, ornate da tende di pizzo che variavano colore ogni secondo,
si aprivano in un paesaggio da favola, uno dei più ricchi quartieri della
città, costituito da ville imponenti e straboccante di verde da tutti i pori.
Proprio davanti alla loro casa, si trovava quella sfarzosa dei vicini, una
famiglia che, come loro, si era trasferita da poco e sembrava più che simpatica
e amichevole.
Dopo aver dato un
ultimo sguardo a quell’uomo sulla quarantina dal viso ancora perfetto e la
corporatura robusta che ammaliava la madre e che, con il suo grande ingegno
aveva inventato il vero futuro, Alexander salì le
scale e vi trovò, in cima, un Eroll apparentemente
spento, come lo aveva visto prima, e che se ne stava inchiodato alla parete
dipinta di arancione con la luce rossa dell’antenna
ancora lampeggiante.
Arrivato davanti
ad una porta di legno di frassino con inciso in caratteri argentati “Alexander”, il ragazzo aprì lentamente la porta, come se
volesse gustarsi pezzo per pezzo la bellezza di quel paradiso che sarebbe stata la sua nuova stanza.
All’inizio
intravide solo una camera buia, ma, quando la porta si spalancò, un leggero
bagliore iniziò ad accendersi ed a rischiarare l’enorme vano: le mura erano
variopinte di azzurro con qualche strisciolina
offuscata qua e là…ma guardando bene, il ragazzo si accorse che si trovava nel
cielo, fra le nuvole e, sul soffitto, si poté scorgere anche il sole da cui si
dovette riparare con il braccio.
Su ogni lato si
trovavano degli schermi neri giganteschi e, sempre sulla parete, erano
inchiodate quattro casse senza però nessun telecomando o stereo. Nemmeno le
televisioni avevano un telecomando, ma la risposta a quel mistero venne data subito.
- Benvenuto, Alexander Warren, nella sua nuova
stanza. Vuole ascoltare della musica o guardare la televisione? Desidera un
libro o una play station? Domandi
pure, siamo a sua disposizione. – spiegò la voce di una donna che
proveniva dalle pareti.
- Niente, per
ora, grazie, – si affrettò a rispondere Alexander
spegnendo automaticamente il dispositivo – era ora di iniziare la vera
vita! – e con questo saltò su e giù sul parquet, vinto
dalla felicità. Ad un tratto, i suoi salti arrivarono, non so come, fino al
soffitto e, per un momento, Alexander pensò agli anni
di atletica che aveva fatto, ma subito cancellò dalla
mente quelle idee sciocche e guardò sotto di lui. Cadde quasi
quando vide che il pavimento si piegava come col mal di pancia alle sue
cadute e lo faceva rimbalzare come un pallone da basket.
- Questa sì che è
vita, ragazzi!- ululò mentre rimbalzava sdraiato senza
fare nessuno sforzo.
Una settimana passò,
in quella che sembrava una casa vivente, con le mura che si piegavano si
smaterializzavano all’improvviso, con le sedie in grado di arrivare in cielo
usando solo delle parole che sembravano funzionare come della
formule magiche. I signori Warren non si
stupivano più, ormai, alle novità di quel mondo reale e, allo stesso tempo,
utopico, e Alexander sembrava drogato da quel posto,
tanto che, pur di non staccarsene, invitava sempre gli amici da lui per non
dover andare da loro. Continuava la scuola, ed era anche migliorato negli studi
poiché la casa lo sosteneva con i compiti e a memorizzare le
lezione e, in generale, tutta la sua vita si era ottimizzata: i compagni
di classe gli stavano sempre vicino e gli facevano mille domande sulla nuova
dimora, come se fossero tentati anch’essi di comperarla.
Alexander
aveva anche legato con i vicini di casa, gli Austin
che vivevano lì da circa un anno, ma soprattutto con la loro figlia, Rose: era
una ragazza vivace e solare, un anno più giovane di lui e, anche se non frequentavano
la stessa scuola, non si poteva dire che non si incontrassero
spesso. Ogni giorno si vedevano, anche senza farlo apposta: bastava uscire
contemporaneamente in giardino per trovarli a chiacchierare sulle cose più
futili, da quello che avevano mangiato per pranzo alla politica.
Alexander
conosceva molto bene anche i suoi genitori, due tipi davvero generosi,
premurosi e cordiali. Qualche volta anche troppo. Rose lo spiegava
col fatto che la casa li aveva trasformati, che ormai non si sentivano più
persi e disperati come prima, ma ora erano…liberi. Alexander
avrebbe comunque preferito che non succedesse ai suoi
genitori, che, anche se potevano avere tutti i difetti del mondo, erano sempre
i suoi genitori. Si arrabbiavano, litigavano, lo sgridavano e certe volte li
odiava per questo ma forse era anche per questo che
voleva loro bene.
E così la sua
vita sembrava perfetta, nulla lo turbava più, i problemi con i compagni e con i
desideri spesso non realizzati di avere videogiochi e computer erano rimasti solo un’ ombra nel suo passato. La sua vita in
quel momento pareva perfetta.
Ma
un giorno, qualcosa sembrò far tornare Alexander
sulla terra. Era sera e la famiglia stava mangiando cucina francese
quando ricevette una chiamata urgente: era la madre di Martha, la
ragazza che aveva passato il pomeriggio insieme ad Alexander:
non si trovava più. Non era a casa. Non era da un’amica. Era semplicemente
sparita. La signora Barlow, la madre, aveva chiesto a
tutti i conoscenti se l’avessero vista da qualche
parte, se ne avessero un minimo di traccia. Ma nulla.
Dopo quella
chiamata, ne arrivarono altre tre che chiedevano la
stessa cosa, però di Dave, Dirk
e Helen. Nessuna notizia. Erano spariti tutti. Dirk il giorno prima era stato da lui ed infatti era da ieri che
non si vedeva. Anche Dave e Helen gli avevano fatto visita, tre giorni prima, ed erano
entrambi spariti da tre giorni.
Che
cosa stava accadendo? Non si sapeva. Perché sparivano
tutti all’improvviso dopo esser stati a casa loro?
Un altro mistero.
I signori Warren decisero senza indugio di chiamare ilo signor Walford, per saper cosa ne pensava.
Quella sera Alexander non riuscì a dormire, nonostante gli sforzi della
casa nel fargli passare una notte di buon sonno. Il ragazzo chiese alla voce
delle mura se avesse visto accadere qualcosa agli
amici. Non rispose. Sembrava essersi già spento, ma non si stupì: erano le tre
del mattino.
- Cosa
ti ha detto Alfred Walford
a proposito di…tu sai cosa? – chiese Alexander alla madre una volta in cucina.
- A
proposito di cosa, tesoruccio caro? - chiese la signora con un sorriso a più di
cinquanta denti.
Non succedeva
spesso che la signora Warren fosse felice, anzi, era
la prima volta. Alexander spalancò così tanto la
bocca che una mano metallica con un toast spalmato di marmellata gli mise
subito in bocca il cibo, soffocandolo. Ma Alexander
non se ne accorse nemmeno. Sua madre gli aveva
sorriso. E continuava a sorridere così insistentemente
che provò un brivido lungo la schiena.
- È vero, di cosa
stai parlando? Non ti piace il toast?- il signor Warren entrò in cucina anch’esso con un sorriso
quasi maniacale.
Questo è troppo, pensò Alexander. Lo
stavano prendendo in giro?
Si girò a
riguardare i propri genitori. Stavano ancora sorridendo e continuavano a
guardarlo con finto amore.
- Co-cosa è successo di tanto bello da ridere tutto il
giorno? Si è tutto risolto vero? – domandò perplesso il ragazzo.
- Non
capiamo proprio di cosa tu stia parlando! Perché dovrebbe essersi risolto qualcosa? Nulla non va da quando viviamo qui, no? Va tutto bene –
rispose la donna abbracciando il figlio ormai in dubbio sulla propria
fermezza mentale.
- Insomma!
Cosa succede? Qualcuno si degna di rispondermi? Cosa è accaduto ai miei amici? Rispondetemi! – Alexander perse la pazienza.
Questa
volta furono i genitori a guardarlo male. Avevano qualcosa di strano nello
sguardo…
-
Cosa ti è successo, figliolo? Perché
ti agiti tanto? Non è successo niente ai tuoi amici! E perché ci guardi così?- chiese il signor Warren
fissando il figlio senza battere ciglio.
Alexander
stava fulminando con lo sguardo quegli esseri che avevano assunto l’aspetto dei
genitori, quasi certo che fosse uno scherzo idiota. Ma
perché scherzare su un argomento tanto delicato?
Come
risposta, i due alieni lo abbracciarono sussurrando frasi come “ti vogliamo
bene” oppure “va tutto bene”.
Tutto
questo continuò per l’intera giornata, tanto che Alexander
dovette chiudersi in camera per sfuggire ai due matti. Alla fine si decise a
chiedere informazioni al signor Walford. Non poteva
vivere per sempre nell’ignoranza.
L’ufficio di Alfred Walford
si trovava al limite della città e sembrava ancora più suntuoso della loro
casa: sembrava il palazzo di un re. Un fontana gigante
era posizionata proprio davanti all’edificio, e ai lati si estendevano grandi giardini.
Un paio di volte Alexander parve sentire dei ronzii
acutissimi.
L’architetto lo
accolse calorosamente e lo fece accomodare nell’ampio salone. Sembrava un
palazzo molto antico, ma qualche robot si aggirava nei
corridoi e nelle stanze con una grande fretta. Alexander
si chiese più volte dove si stessero dirigendo, ma Walford
distolse il suo interesse verso gli amici di metallo.
- Allora, cosa ti
ha portato qui, Alex? Ti posso chiamare Alex, vero? – chiese il signore sorridendo amichevolmente.
- Sì, certo.
Volevo sapere se è a conoscenza delle scomparse dei miei amici, Martha Barlow, Dave Radcliffe,
Dirk Taylor ed Helen Wotton. Sono spariti propri dopo esser
comparsi a casa mia…i miei genitori devono averla informata…- spiegò il
ragazzo a disagio.
- Non
preoccuparti! Con i tuoi genitori ho sistemato tutto! I tuoi amici hanno fatto
una piccola gita segreta senza dire nulla a nessuno. Credo volessero
solo divertirsi un po’: siete giovani, no?! – e con
questo congedò il ragazzo confuso.
Tutto questo puzza
un po’, pensò Alexander, perché non mi hanno detto
nulla?
Dopodiché chiamò
a casa dei compagni per saperne qualcosa di più.
- Pronto? Sono Alexander. Il signor Walford mi
ha detto che Martha è andata in gita con Dave e gli altri. Non ne sapevo nulla, può
dirmi dove sono andati di preciso?
- Cosa? Martha è andata in gita? Non la vedo da giorni, ma non
penso che sia uscita senza dirmi nulla. Chi è questo signor Walford?
Lui ne sa qualcosa? – fu la risposta della signora Barlow.
Alexander
riattacco in fretta. Gli aveva mentito. Erano spariti e basta.
Non esisteva nessuna gita.
Il ragazzo si
rincamminò verso il palazzone. Doveva chiarire una volta per
tutte cosa era successo. Quell’Alfred era un
tipo sospetto.
Questa volta non
bussò nemmeno prima di entrare: la porta era socchiusa. Basta con le formalità.
Il salone era
vuoto, ma si poteva udire un continuo ronzio fastidioso sicuramente
artificiale. Alexander si guardò intorno. La stanza
in fondo al corridoio era aperta. Proveniva da lì il rumore. Sulla porta vi era
inscritto “ufficio di Alfred
Walford, vietato l’ingresso ai non autorizzati”. Alexander si avvicinò fino a trovarsi proprio di fronte
alla stanza. Era fiocamente illuminata e si trattava solo di un piccolo
sgabuzzino. Abituando gli occhi al buio Alexander
intravide una scalinata di pietra che scivolava verso il basso. Mosso da un
certo incitamento, scese la rampa di scale. La luce si faceva sempre più
debole. Qualche volta inciampò rischiando di ruzzolare giù. L’aria era fredda.
Il ronzio sempre più acuto. La scala sembrava infinita. Alexander
provò una cerca nota di terrore scendendo sempre più giù.
Finalmente le
scale si estinsero e si trovò lungo un corridoio lunghissimo e luminosissimo.
Dovette proteggersi con la mano. Abituato alla luce intravide una serie di porte nere lungo entrambi le pareti. Dove poteva trovarsi Walford?
Decise di provare in tutte le stanze, ma qualcosa sembrò trattenergli i piedi
inchiodati a terra. Era la paura.
Si fece coraggio
e aprì la prima porta scoprendone solo uno spicchio per poter esplorare con un
occhio solo. Nulla: buio. Quello che lo colpì fu però un odore nauseabondo.
Aprendo un po’ di più la porta riuscì a far entrare un po’ di luce nella
stanza. Solo allora si accorse dei sacchi neri a grandezza d’uomo sparsi su
tutto il pavimento, uno sopra l’altro. Uno dei sacchetti si era leggermente
aperto. Alexander parve intravedere una cosa simile
ad una scarpa, ma non ne fu sicuro. Chiudendo velocemente la porta cercò di
ingoiare quel groppo che si era formato nella gola.
Nella seconda
stanza si trovavano solo dei dispositivi rotti e pezzi di robot danneggiati.
Alexander
si guardava alle spalle ogni secondo. Gli pareva di aver sentito dei passi, ma, ogni volta che si girava, scopriva di esser solo.
Il ronzio gli stava dando alla testa. Dopo aver ispezionato numerose stanze
vuote o piene di materiali inutili, si fermò di fronte ad una porta da cui poté
percepire alcune voci. Sentiva anche quella di Walford.
Una parte di sé gli suggeriva di non farsi vedere subito, ma di assicurarsi
della circostanza in cui si trovava l’imbroglione. Seguì quella vocina dentro
di sé.
Aprì la porta di
metallo quanto bastava per ispezionare il laboratorio gigantesco. C’erano
almeno una cinquantina di persone. Il locale doveva misurare almeno
quattrocento metri cubi. Più di un appartamento. Sembravano tutti scienziati.
Stavano lavorando su qualcosa di molto importante, forse un robot. Gli si gelò
il sangue. Quel robot su cui lavoravano tanto
laboriosamente aveva qualcosa…di umano. La testa…e le braccia. Sembrano vere.
Guardando ancora più attentamente Alexander si
accorse che avevano un ché di familiare: erano di
Dirk. Stette per svenire. La nausea lo colpì come una pallottola d’argento in
un licantropo. Stavano trapiantando qualcosa nel cervello dell’amico. Oltre
alla testa e alle braccia era tutto metallo, gambe, busto…e doveva esserlo
anche il cuore. Gli occhi erano aperti. Sembrava sveglio, ma
incapace di parlare, come se non avesse più il controllo dei propri muscoli.
- E anche questo
fatto. Gli avete inserito bene i dati? - chiese Walford setacciando ogni centimetro di quel corpo ormai
privo di vita propria.
- Certo,
Signore. Il numero 4508 è perfetto, possiamo metterlo
nella stanza con gli altri – rispose prontamente uno scienziato.
Cosa?!Vuol dire che ce ne sono altri come lui?! Si chiese Alexander ormai al limite della
ragione e del controllo. Si sentiva svuotato, si sentiva
consumare dentro, come se tutta la malignità e la pazzia di quegli esseri al di
fuori dell’umanità gli infliggessero continue pugnalate.
Avrebbe voluto
urlare, ma la voce gli mancò. Stava soffocando di orrore e di paura. Chiuse la porta
senza badare all’allarme che stava dando e si mise subito a correre verso le
scale, ma quegli uomini sembrarono accorgersi della sua presenza e attivarono
un dispositivo che fece ruotare il corridoio più volte e che fece chiudere la
porta di ogni stanza. Era intrappolato, ma non si diede per vinto. Doveva
vivere. Doveva farlo per vendicarsi dei suoi amici. Doveva nascondersi in modo
che potesse avere almeno il tempo di chiamare la polizia. Decise di chiudersi
in una delle stanze destinate ai pezzi danneggiati delle macchine. Corse verso la porta ignorando le continue rotazioni del corridoio
che lo facevano scivolare e girar la testa. Aprì la stanza. Era quella
giusta. Chiuse senza fare il minimo rumore. Si sedette e tirò fuori il
cellulare. Aveva il respiro affannato e sentiva il cuore esplodere. Stette
quasi per urlare quando vide che non ubbidiva ad
accendersi. Forza! Forza, accenditi stupido aggeggio! Mormorò a denti stretti.
Il ronzio si faceva sempre più forte. Doveva essere il rumore che facevano quelle macchine umane. Era sempre più forte. Sempre
più vicino.
Ad un tratto Alexander sentì un gemito. Era nella stanza. Non era solo, c’era qualcun altro. Lentamente girò la testa
mordendosi così forte il labbro inferiore da farlo quasi sanguinare. Si sarebbe
messo a ululare di gioia ma in quel momento si sentiva
vuoto dentro: proprio davanti a lui era raggomitolata Helen.
Si teneva le ginocchia strette in petto e lo guardava, piangendo.
- Helen! Sei salva! – sussurrò il
ragazzo sfiorandole il braccio con delicatezza, quasi per la paura di farle
male.
Non ottenne
risposta. La ragazza pareva sotto choc.
- Alex – lo abbracciò debolmente – hanno
fatto delle cose terribili a Dirk e a Martha. Sono dei mostri! Siamo
condannati, non lo capisci?! Saremmo macchine anche
noi – pianse.
- NO, non lo
permetteremo! Dobbiamo resistere, Helen,
dobbiamo farlo per loro, Dirk e Martha. Dave
…? – chiese con il cuore in gola.
- Non so dove
sia. Io sono riuscita a nascondermi qui e, cercando una via d’uscita ho visto
Dirk e Martha in quel laboratorio… Dave deve esser scappavo, ma non ne sono sicura…- mormorò tristemente.
Passarono secondi
interminabili di angoscia e dubbio, poi, finalmente Alexander fece la domanda fatale.
- Cosa facciamo? Se usciamo di qui – rabbrividì – sappiamo ciò
che succederà e se restiamo qui ci scopriranno prima o poi
– mentre lo diceva sentiva come una forza che lo demoralizzava, lo rassegnava.
Solo allora si
accorse che qualcosa si muoveva nell’oscurità. Un sacchetto nero, come quello
che aveva visto nelle prime stanze che aveva perlustrato si alzava leggermente,
con regolarità. Alexander si avvicinò. Poteva esserci
di tutto, forse anche il suo amico Dave, ma poteva
anche esser una macchina di morte. Alexander provò ad
aprire il sacchetto. Sentì il cuore smettere di pulsare e un’angoscia
consumargli l’anima. Quello che aveva d’avanti era un animale. Sembrava un
cane, ma doveva esser stato incrociato con qualche altra specie, perché
possedeva delle zampe cortissime, quasi inesistenti. Il corpo era
sproporzionato confronto alla testa che pareva una pallina da tennis. Helen, che se n’era stata in disparte impaurita, ora, alla
vista di quel mostro, sembrò non esser più presente: i suoi occhi si
svuotarono, come se fosse stata cieca e le gambe si piegarono debolmente,
facendola seder per terra, con le braccia che toccavano il pavimento.
La creatura aveva
gli occhi aperti e pareva morto, ma il suo addome si alzava e si abbassava.
Respirava.
Doveva esser
stato un esperimento fallito, una cosa andata male, ma lasciata viva per pura
crudeltà, indifferenza, insensibilità, pazzia.
- Sono tutti pazzi – mormorò
piano Alexander, vinto dall’orrore.ora gli pareva difficile anche respirare e si sentiva
sanguinare ovunque, per quanto era sfinito.
Avrebbe voluto
piangere, ma nemmeno le lacrime avevano spazio in un
posto assurdo come quello.
Ad un tratto Alexander sentì i timpani rompersi per il ronzio che ormai
aveva quasi raggiunto la stanza dove si trovava. Tra qualche secondo sarebbe
stata la fine. La porta si spalancò di botto con un’esplosione e in un secondo
i robot entrarono con in mano le loro armi di un
modello che Alexander non conosceva. Erano tre, i
robot. Erano loro, i suoi amici. Helen svenne. I
robot si avvicinarono ad Alexander che non capiva
neppure più come mai si trovava lì. Sapeva solo che i suoi amici Dirk, Martha e
anche Dave si stavano dirigendo verso di lui, con un
corpo che non era il loro. Ma, tra tutto quello quel
ferro che corazzava gli ex-ragazzi, Alexander poté
notare una cosa che lo fece affliggere ancora di più e allo stesso tempo,
arrabbiare con Alfred Walford
e colui che lo aveva istigato a comportarsi da pazzo criminale. Erano i loro
occhi che lo sorpresero. Sembravano presenti. Lo fissavano, ma non con rabbia e
determinazione, ma con qualcosa che sembrava... tristezza. Tutto il resto del
viso era fisso e immobile, ma gli occhi…quelli esprimevano un’angoscia mortale,
come se l’anima dei compagni persistesse ancora.
- Sono io, Alexander, so che mi sentite! – urlò alla
macchine che continuavano ad avanzare.
Ma
nulla. Puntavano le armi verso di lui. Gli occhi sembravano piangere. Alexander tentò invano di raggiungere la porta, ma le
enormi creature gli si piantarono davanti, minacciose e imponenti.
Alexander
si buttò a terra, cercando di non pensare, di finire tutto senza guardare gli
occhi penosi degli amici costretti ad ucciderlo. Ed ecco la micidiale scossa di elettricità. Alexander cadde a
terra.
- Ecco, ne ho
trovato uno enorme! – esclamò Alexander intravedendo
un fungo di considerevole dimensione.
- Mi dispiace
dirtelo, ragazzo mio, ma mi sembra velenoso. Eh, sì, pare proprio velenoso, ma
ne troveremo altri, vedrai – lo rassicurò suo padre
adottivo, il signor Robby Elson.
Erano passati due
mesi dall’avventura assurda di Alexander.
Dopo essersi svegliato tra sirene della polizia e le urla di Alfred Walford che veniva
arrestato, un gentile vecchio si era offerto di tenerlo a casa sua. Il tutto si
era risolto grazie alla figlia dei vicini, Rose, che
aveva capito cosa stava succedendo, o meglio, aveva intuito qualcosa, qualcosa
di così forte da aver chiesto alla polizia di indagare. I genitori di Alexander avevano un chip nel
cervello che li aveva resi pazzi e che non si poteva estrarre pervia di un
pericolo mortale. Era stato difficile accettare la morte degli amici e la
separazione dai i genitori, ma alla fine era riuscito
a cancellare il proprio passato. Aveva cambiato scuola e cercava di non legare
troppo con nessuno. Non voleva più soffrire.
Alexander , dopo aver
percorso pochi passi, intravide un gruppetto di piccoli funghetti che raccolse
ed inserì felicemente nel sacco. Era da un’ora che stavano vagando per il
bosco, cosa che facevano ogni domenica, prima di
andare al lago a pescare.
Alexander,
dopo aver aiutato il padre adottivo a salire per delle scalinate rocciose,
intravide qualcosa di colorato nascosto in un cespuglio che inizialmente
identificò come un altro fungo, idea che cancellò quasi subito.
Solo allora si
accorse del leggero ronzio che squarciava il silenzio del bosco.
- Che c’è che non va, caro mio? – domandò il vecchio
sorridendo come un ossesso.
Alexander
rabbrividì.