Titolo:
Vincit Amor
Autrice:
{ Dima } (sul forum
di Gold Insanity), ayay (qui)
Presentazione:
Inizia col
dolore di Milo dopo la morte di Camus, e con Orfeo che piange
Euridice. E poi prosegue fra salite e discese, dagli Inferi o verso
di essi, o lungo le scale del Santuario...
L'ultima parte è basata sull'anime
(tipo: la
puntata più bella e straziante dell'universo),
anche se Camus ha
i capelli rossi com'è giusto che sia.
Personaggi/Pairing:
Milo/Camus, Orfeo/Euridice
Rating:
giallo
Warning:
angst, shonen-ai, het
Soundtrack:
Just
Let The Sun
Disclaimer:
“il mare color del vino” e “Aurora dalle
rosee dita” sono
espressioni prese da Iliade e Odissea e non sono roba mia. Grazie
mille, Omero.
I personaggi
sono di Kurumada, l'angst pure.
La canzone è
di Skin.
Il mito di
Orfeo ed Euridice è qui quello descritto da Ovidio nel
decimo libro
delle Metamorfosi.
Morendo di
nuovo non ebbe per Orfeo parole di rimprovero
(di cosa avrebbe dovuto lamentarsi, se non d’essere amata?);
per
l’ultima volta gli disse ‘addio’, un
addio che alle sue
orecchie
giunse
appena, e ripiombò nell’abisso dal quale saliva.
Menzione
speciale al il meraviglioso contest di Gold Insanity.
Qui
potete trovare il giudizio ricevuto e tutti i linkini carini che
volete.
I. Alba
I walked
into the sea
Those waves
they came for me
Egged on by
scarlet sun
(But) I
will never burn
Aurora dalle
rosee dita si affacciava nuovamente sulla Terra gravida di cordoglio,
schizzando di rosa pallido il mare e il cielo.
Aurora dalle
rosee dita illuminava indistintamente gli scogli e i marmi, gli occhi
bagnati di lacrime e le armature vuote.
Aurora dalle
rosee dita accarezzava i capelli biondissimi del giovane uomo seduto
sulla riva del mare, senza sapere di aver prestato il proprio nome a
ciò che gli aveva portato via l'amore.
Aurora
Execution.
A Milo pareva in quel momento crudelmente bizzarro il fatto che la
morte per il suo Camus avesse avuto lo stesso nome della divina
fanciulla che precedeva Apollo nel cielo immenso.
Eppure era pur vero che la sua tecnica finale, trasmessa all'allievo,
non poteva che essere delicata, quasi gentile. Non sarebbe mai stata
rossa come il tramonto, come il mare color del vino che preannuncia
tempeste, o come lo Scarlet Needle.
Uno zefiro gentile gli portò il profumo della salsedine, che
Milo
accettò come un dono, assaporandolo col respiro interrotto
dai
singhiozzi che ancora si rifiutavano di uscire. Sentiva sulle labbra
il sapore del sale delle lacrime non versate, e attendeva che quella
natura amica quietasse il suo dolore.
Attese, Milo, attese a lungo.
~
A lungo
sotto la volta del cielo la pianse il poeta
del
Ròdope
Incredulo,
Orfeo taceva.
Taceva la
sua lira, consolatrice ed amica, che sempre aveva accompagnato il suo
canto nella gioia e nel dolore, nella solitudine e nell'amore.
Incredulo,
Orfeo, taceva e scopriva la solitudine dopo l'amore,
e la scopriva amara.
Gli morì la poesia nel cuore, e più non volle
cantare il sorgere
del sole, lo sbocciare dei fiori, lo scorrere delle acque sacre alle
Naiadi. Su quelle stesse acque si chinò invece per piangere
e
lasciare che le sue lacrime scorressero verso il mare, pregando gli
dei tutti di avere pietà del suo dolore.
[...] per
saggiare anche il mondo dei morti,
non esitò
a scendere sino allo Stige per la porta del Tènaro:
tra folle
irreali, tra fantasmi di defunti onorati, giunse
alla
presenza di Persefone e del signore che regge
lo
squallido regno dei morti.
II. Mezzogiorno
You take it
easy
You walk on
your own
Look for
the sunshine (you’ll) find (your) way home
Just let
the sun
Find your
way home
“Come il
sole”, gli aveva detto una volta Camus.
“Ti scaldo
bene?”, aveva chiesto Milo.
E lui,
tranquillo come un lago di montagna, uno di quelli che non vedono
un'onda da almeno mezzo secolo, aveva risposto: “Come il
sole”,
poi gli aveva accarezzato il capo, “Come il sole, e anche un
pochino meglio”.
Il sole era
sorto anche quel giorno, e Milo si era deciso ad abbandonare
l'abbraccio dell'orizzonte per risalire verso i templi, tutti i
singhiozzi ancora stretti nel petto, tutti i ricordi ancora stretti
nei pugni che non aveva avuto il coraggio di spalancare nell'acqua
fredda.
Più saliva
i gradini e più Milo si sentiva riavvolgere, come un nastro,
come un
filo di Arianna gettato attraverso la propria vita, e tornava ad
essere un gomitolo. Gli sembrava che nel tornare a casa ogni cosa
sarebbe tornata al proprio posto, come frammenti di uno specchio
rotto che avrebbero smesso di tagliare e sanguinare e avrebbero
ripreso a riflettere. A riflettere una realtà bella.
Più saliva
i gradini e più Milo sentiva i ricordi come se fossero stati
ancora
lì.
Eccolo,
nella Terza Casa, ecco Saga dei Gemelli!, buono come un dio, bello
come un angelo, affettuoso e severo come un padre. Eccolo, com'era
prima di tutta quella storia crudele. Ed ecco avvicinarsi a lui due
bimbetti, uno ridente e l'altro più serio. Bizzarro: quello
col
visino compunto e quasi accigliato è il biondino, che di
solito
turbina per il Santuario così veloce da rendere praticamente
impossibile distinguere la sua espressione. L'altro, poco
più minuto
e coi capelli color tramonto, se la ride beato.
“Saga,
Saga!”, chiama il piccolo Milo, tirando per la manica il
ragazzo
più grande, già un uomo ai suoi occhi,
“Diglielo tu a Camus che
Scilla e Cariddi sono molto, mooolto più forti del suo
Kraken.
Questo mostro che dice lui è solo un calamaro
gigante!”, spiegò
imbronciato e per natura diffidente delle bestie che non apparivano
nei miti familiari e conosciuti della sua terra.
Il Milo
ventenne, che al potere del kraken ormai credeva, chiuse gli occhi e
si portò due dita alle tempie, poi alzò i tacchi
e faticosamente
continuò a camminare, sentendo dolere i muscoli delle cosce
come se
avesse avuto pesanti cippi ai piedi.
Attraversò
la casa vuota del Cancro, e poi si fermò di fronte a quella
del
Leone. Aiolia non c'era. Forse era andato anche lui a cercare nella
solitudine una qualche consolazione, o spiegazione.
Una risata
argentina riecheggia fra le colonne. Sul primo scalino, Aiolos sta
facendo il solletico al fratellino. L'armatura di Leo, appena
assegnata, riposa solenne lì accanto.
“Ahahah!
Mi arrendo! Ti prego, lasciami!”
“Che razza
di cavaliere sei? Ci si arrende così?”
“Ma il
solletico è sleaaaaale!”, protesta indignato il
piccolo,
assolutamente convinto che in un vera battaglia, nessun nemico serio
userebbe mai un simile metodo.
Ma per
fortuna in difesa del neo cavaliere giunge Shura, che gli porge una
mano e lo aiuta a sgusciare via dalle grinfie del fratello. Poi
sorride ai due, uno sorriso caldo e sereno che rivolge solo a loro e
che gli illumina gli occhi scuri.
Un ragazzino
dell'età di Aiolia arriva correndo, scintillante d'oro e
d'orgoglio.
Probabilmente non si è tolto l'armatura nemmeno per dormire
da
quando l'ha ricevuta, nemmeno l'elmo che, con quella specie di coda
con un pungiglione in fondo, agli occhi del pragmatico Aiolia sembra
veramente scomodo.
Milo non
riuscì a sorridere al ricordo di se stesso bambino, e anzi
gli venne
voglia di rincorrere quella piccola peste per urlargli contro tutto
quello che stava passando in quel momento, per riversare su
quell'innocenza di fanciullo unita a quella fierezza di guerriero
tutto quello a cui la guerra l'aveva portato. Ma erano solo ombre,
ricordi, e il Milo ventenne che saliva quella scale affaticato come
un vecchio non poteva raggiungerli.
“Milo,
aspetta.”
Si voltò,
per trovarsi di fronte un Aiolia scarmigliato e pallido, che sembrava
non dormire da giorni. “Vuoi restare qui?”,
domandò, al tempo
stesso offrendo e cercando un po' di quel conforto di cui avevano
entrambi bisogno.
“Grazie.”,
sussurrò, e seguì l'amico dentro casa.
“Mi sento
come se l'avessi ucciso io.”, disse poi fissando le spalle
forti di
Aiolia
L'amico si
voltò di scatto, come morso da un serpente. Il suo volto
parve per
un momento contrarsi in uno spasmo di rabbia. “Di
cosa avrebbe dovuto lamentarsi, se non d’essere amato? Hai
lasciato passare il Cigno: nessuno di noi l'avrebbe fatto,
perché
nessuno di noi sapeva quant'era importante per lui. Avremmo fatto il
nostro dovere, e
avremmo sbagliato.”
~
Avrei
voluto poter sopportare, e non nego di aver tentato:
ha vinto
Amore! Lassù, sulla terra, è un dio ben noto
questo;
se lo sia
anche qui, non so, ma almeno io lo spero:
se non è
inventata la novella di quell’antico rapimento,
anche voi
foste uniti da Amore.
Dopo essere
disceso lungo ignoti sentieri, il cuore come morto ma il passo svelto
di speranza, Orfeo si inginocchiò, umile, di fronte al
signore degli
Inferi e alla sua sposa.
Umile, Orfeo
non lo era stato mai. Ma aveva imparato anche quello, per Euridice.
Le anime
intorno piangevano la sua sventura e la bellezza del suo canto, che,
negato alla terra dei vivi, si levava ora in quelle
profondità.
“Se anche
voi conoscete la dolce ferita dell'arco di Cupido, vi prego,
ascoltatemi.”
Persefone
annuì e gli concesse di continuare.
“Se anche
voi conoscete il tormento di vedervi strappato l'amore, vi prego,
siate clementi.”
Ade distolse
lo sguardo, ma non poté non udire le note dolcissime che
accompagnavano parole tanto disperate. Lo conosceva bene, quel
tormento! Ah, quante volte l'aveva provato nel corso dei secoli?
Quanti infiniti anni si erano susseguiti identici fra la gioia di
avere accanto la propria sposa e il tormento di doverla perdere ogni
volta per lunghi mesi?
“Vi
prego.”,
sussurrò Orfeo, e
suonò la più bella delle sue melodie,
accompagnando l'arpa e la
voce in un accordo perfetto.
Cessarono i tormenti per i dannati, si volsero piangenti le anime
più
abbiette come i loro carnefici e ogni cosa tacque.
Tutto vi
dobbiamo, e dopo un breve soggiorno in terra,
presto o
tardi tutti precipitiamo in quest’unico luogo.
Qui tutti
noi siamo diretti; questa è l’ultima dimora, e qui
sugli
esseri umani il vostro dominio non avrà mai fine.
Anche
Euridice sarà vostra, quando sino in fondo avrà
compiuto
il tempo
che gli spetta: in pegno ve la chiedo, non in dono.
III. Notte
Just let
the sun
Shine on
your face
Only
the darkness blinds your way
Dolce è il
chiarore dell'astro diurno, ma solo la pallida luna con mano
straziante e divina sa strappare i cuori e tenerli con sé,
sa
offrire una pungente consolazione.
Una
consolazione vera, Milo non l'aveva ancora trovata, e le lacrime che
gli gravavano sul cuore non avevano ancora trovato la via per i suoi
occhi, che, secchi e arrossati, fissavano il cielo scuro come ormai
quasi ogni notte.
Eppure
qualcosa inaspettatamente l'aveva sostenuto. Era stato il pensiero di
Hyoga. Non l'aveva ucciso, macchiandosi le mani di un vero tradimento
nei confronti della dea, e più ancora nei confronti di Camus.
Camus, che
era sempre stato forte e deciso.
Camus, che
sapeva sorridere come nessuno al mondo.
Camus, che
era stato capace di amare fino al sacrificio.
Camus, che
era ai suoi occhi il più perfetto fra i cavalieri.
Camus, che
l'aveva amato, e tanto doveva bastargli.
[...] Né
ebbero cuore,
regina e
re degli abissi, di opporre un rifiuto alla sua preghiera,
e
chiamarono Euridice. Tra le ombre appena giunte si trovava,
e venne
avanti con passo reso lento dalla ferita.
Orfeo del
Ròdope, prendendola per mano, ricevette l’ordine
di non
volgere indietro lo sguardo, finché non fosse uscito
dalle
valli dell’Averno; vano, se no, sarebbe stato il dono.
Non ebbe
eguali il suo strazio quando, abbassando lo sguardo da quella luna,
incontrò gli occhi ciechi di colui che era stato il custode
dell'Undicesima casa e del suo cuore.
Non ebbe
uguali il suo strazio quando fu costretto a scoprirne il tradimento,
segnato sulla sua pelle dal nero profondo di una surplice infame.
Eppure
guardandolo avanzare con passo malfermo per le molte ferite qualcosa
in lui soffrì per ciò che Camus aveva sofferto, e
Milo si odiò per
questo. Se traditore era, come tale meritava di essere trattato, e
non avrebbe avuto nessuna pietà, come non ne aveva avuta nel
colpire
Kanon fino alla certezza della sua redenzione.
Ma Camus.
Camus aveva compiuto il cammino opposto, e da esempio di
virtù era
caduto così in basso, cedendo alla lusinga di una vita
nuova,
offerta però in cambio della sudditanza al loro
più grande nemico.
Milo scacciò
il dolore e la compassione dal proprio animo e dimenticò
ogni cosa
mentre combatteva. Mentre ignorava le leggi della sua stessa dea per
colpire, insieme a Mu e Aiolia, quei tre infami.
In un
silenzio di tomba s’inerpicano su per un sentiero
scosceso,
buio, immerso in una nebbia impenetrabile.
Ma
trascinandolo, per ordine di Atena, su per quelle scale
improvvisamente meno familiari, improvvisamente minacciose, si
sentì
rifluire dentro come una marea l'amore e l'odio, e i ricordi sin
troppo vividi che gli evocavano quei capelli rossi che il vento gli
spingeva sul volto.
Come
aveva potuto?
Era un puro di
cuore, era la persona più nobile sulla quale Milo avesse
avuto
l'onore di posare gli occhi! Era Camus, che diamine!
E con lui Saga, che era morto pentendosi dei propri errori, e Shura,
che nel nome di Atena, o almeno credendolo tale, aveva ucciso colui
che gli era stato maestro e amico.
Persone simili avevano tradito. E Milo si sentì minuscolo,
infinitesimale di fronte al male del mondo, e l'armatura che
indossava gli parve solo un inutile orpello. Come poteva cercare di
resistere, lui, che era sempre stato immensamente fiero del proprio
ruolo e sicuro della propria forza ma che in fondo non si sentiva
molto diverso da un qualunque altro essere umano?
E ormai
non erano lontani dalla superficie della terra,
quando,
nel timore che lei non lo seguisse, ansioso di guardarla,
l’innamorato
Orfeo si volse: subito lei svanì nell’Averno;
cercò,
sì, tendendo le braccia, d’afferrarlo ed essere
afferrata,
ma
null’altro strinse, ahimè, che l’aria
sfuggente.
Giunti al
cospetto di Atena, Milo, Mu e Aiolia lasciarono cadere sprezzanti i
loro fardelli. Che finissero pure faccia a terra, meritavano forse
altro?
Eppure fu la
dea stessa ad ordinare Kanon di tirare fuori quel pugnale maledetto,
e poi... e poi... a gettarsi su di esso, quasi come se -Milo si
maledisse ancora per quei pensieri che brancolavano folli nel buio
dell'incomprensione- fosse stata ella stessa complice di quel
complotto.
Non poté
fermarla, ma solo stare a guardare le mani di Saga che seguivano
impotenti la sua caduta.
Cercò, sì,
tendendo le braccia, di afferrare il collo di Camus per far esplodere
infine la rabbia e sfogare il dolore che l'aveva trafitto come fosse
stato anch'esso un pugnale d'oro, concreto e spaventoso. Strinse le
dita, sentendo sotto i polpastrelli la pelle sul punto di cedere. Lo
sollevò sopra di sé con un scatto, fissandolo
davvero in volto per
la prima volta dalla sua resurrezione.
E gli mancò
il coraggio di terminare l'opera.
Si era fatta
strada in lui la consapevolezza del fatto che no, Atena non poteva
certo essere complice di Ade e che, forse, ma dico forse, c'era una
ragione dietro al suo agire apparentemente sconsiderato.
Eppure esitò
ancora un momento prima di mollare la presa. Se Camus aveva tradito,
meritava quella sofferenza e altre. Se non l'aveva fatto, allora
meritava anche di peggio per non avergli detto niente.
Per la
milionesima volta, Milo lottò contro se stesso, comprendendo
quanto
fosse egoista quell'ultimo ragionamento.
Vacillò e
cadde, in ginocchio. E con la testa sul petto inguainato di nero
dell'antico amante -traditore o no, ora e per un istante non contava-
pianse tutte le lacrime che non era riuscito a versare da quando gli
era stato strappato.
~
Orfeo saliva
rapido, la cetra quasi dimenticata in mano, l'animo teso fino allo
spasmo.
Euridice era
salva, era lì, dietro di lui, pronta a vivere. Era salva, e
lui
avrebbe fatto in modo che lo restasse. Stavolta l'avrebbe protetta,
non l'avrebbe abbandonata nemmeno per un momento, e la vita sarebbe
stata ancora più bella, ancora più brillante.
Pensava al colore del
cielo, Orfeo, in mezzo a quella notte eterna. Pensava a quanto
sarebbe stato bello rivederlo insieme ad Euridice. Che era
lì, era
salva, ed era proprio dietro di lui.
Non si voltò
per tutto il percorso, poiché aveva bene in mente il patto
col
signore dell'Averno.
Ma quando
iniziò a sentire la salita farsi più erta e
l'aria più pura, e si
seppe vicino all'uscita dovette farsi violenza per non voltarsi a
rivedere l'amato volto.
Bastò un
momento. Un bagliore che gli parve di sole. Si volse per regalare
alla sposa il più felice dei sorrisi.
Morendo
di nuovo non ebbe per Orfeo parole di rimprovero
(di cosa avrebbe dovuto lamentarsi, se non d’essere amata?);
per
l’ultima volta gli disse ‘addio’, un
addio che alle sue
orecchie
giunse
appena, e ripiombò nell’abisso dal quale saliva.
Era come se
l'avesse uccisa con le proprie mani.
O almeno
questo era quello che sentì Orfeo mentre il cuore gli cadeva
in
pezzi nel petto e le ginocchia gli cedevano.
Restò
immobile a lungo, e attese fissando la tenebra.
Poi, dopo
aver maledetto la crudeltà dei numi dell’Averno,
si ritirò
sull’alto Ròdope e sull’Emo battuto dai
venti.