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Autore: Sidereal Space Seed    16/06/2010    5 recensioni
[ -Star Trek TOS- ] Si dice che alcuni conflitti nascano da una verità sepolta nell'inconscio, non traducibile nella realtà, che diventa poi motivo di litigio. Ma che succede quando un evento inaspettato, in grado di mettere TUTTO in ballo, fa crollare il castello di illusioni?
Signore e signore, ecco a voi la SPOCK/MCCOY da tempo immemore promessa. Devo sottoscrivere l'ovvio: questa one-shot, è dedicata ad Eerya&Rowen, e anche a tutte coloro che simpatizzano questa coppia. Fatemi sapere, voglio crescere laddove non ero ancora mai giunta prima... :D
Genere: Malinconico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Leonard H. Bones McCoy, Spock
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Be’, che dire… avevo promesso, qualche tempo fa, che avrei scritto e dedicato proprio questa fan fiction alle amanti o simpatizzanti del pairing Spock/McCoy!

Come ormai tutti sapranno, io sono una Kirk/Spock, ma devo questo mio diverso tentativo a Eerya e Rowen, che con la loro dolce raccolta mi hanno spinta ad esplorare altri punti di vista, mettendo così alla prova anche la mia caratterizzazione di questo pairing per me ancora sconosciuto =)

Il pezzo che andrò a narrare, viene soprattutto estratto dall’episodio “The Immunity Syndrome”, il famoso La Galassia In Pericolo. Perché questo episodio? Perché racchiude forse il miglior confronto fra i due amici/antagonisti, che io ritengo essere uno dei più significativi delle serie.

Se ciò che leggerete sarà di vostro gradimento, e me lo auguro davvero, sarò contenta di tentare ancora :)

Bando alle ciance.

A voi la lettura e a voi il verdetto!

 

 

~ x ~ x ~

 

 

Non era cominciato affatto tutto all’improvviso: sempre che un solo giorno potesse essere definito diversamente ma, di certo, non si era trattato di un lampo fatale che ti rapisce alla svelta e ti fa perdere totalmente la testa: piuttosto, era stato senz’altro un fulmine a ciel sereno proveniente dall’inconscio, dove il cielo sereno era l’abituale routine e l’abituale battibecco giornaliero, e il fulmine… be’ il fulmine, era stato realizzare.

C’era stata l’Intrepid, c’erano stati 400 morti, una spaventosa ameba di dimensioni cosmiche che rischiava di moltiplicarsi e…

 

«…cosa c’è Spock, si sente male?»

Che strano che era stato quel suo punto di domanda. Non c’era stato il solito sarcasmo, la classica rivalità, la più che conosciuta amicizia decisamente ben celata.

Al contrario, c’era stata pura e vera preoccupazione, quando McCoy si era avvicinato alla console scientifica assieme a Jim per comprendere per quale motivo il vulcaniano soffrisse piegato sui propri strumenti.

E poi, quell’assurda dichiarazione…

«Capitano… l’Intrepid. So che è… finita.»

Testuali le parole del razionale vulcaniano, che come perso nel vuoto e quasi smarrito comunicava quella sua esperienza che sfiorava l’incredibile.

«Venga Spock, scendiamo in infermeria.»

Stavolta era stato molto più determinato il tono del medico: forse perché, dopo quel che aveva detto Spock, si era ritrovato a sollevare scettico il sopracciglio?

«Dottore… lo so con certezza.»

Si permetteva più pause della norma, il fragile vulcaniano.

Ma non bastò la sua certezza riguardo la fine dei 400 membri vulcaniani, non bastò la sua silente ma egualmente cortese protesta: quel primo round, si vide concluso col generoso ausilio di uno scorbutico medico di campagna, che incoraggiò il cammino di un quasi shockato Spock verso l’infermeria.

 

Round Two

«Le assicuro dottore che sto benissimo, il dolore è stato…»

Per come poteva apparire, il tono ora molto più greve e serio di Spock stava forse rivolgendosi al vento, in quanto il testardo dottore altro non era che concentrato sul monitor e sul suo tricorder.

Pochi accertamenti, poi McCoy prese una via d’intercettazione verso un fulmineo Spock che già s’era rimesso in piedi, e davanti gli si parò: «Spock, come fa ad essere sicuro che l’Intrepid sia andata distrutta?» Appena un poco scettico; forse indagatorio?

«L’ho sentita morire.» Serio il tono, seria la postura, serio lo sguardo. Di pietra.

«Ma credevo che dovesse stabilire un contatto fisico col soggetto.» Poca inclinazione vocale, non era stata una domanda quanto non era stata un’affermazione, ma ciò che era certo era un ora conclamato scetticismo, sbandierato dalla più che cristallina, molteplice e appena accennata processione di indizi facciali.

Scetticismo perfettamente captato, in quanto Spock fu quasi ipersonico nel rispondere: «Dottore, persino io vulcaniano per metà ho udito le grida di morte di 400 menti vulcaniane, nonostante l’enorme distanza.»

Piano: quella non era solo serietà. Che fosse… irritazione?

Ah!, ma fu ancor più palese il rovescio del dottore, che non solo non si trattenne dallo sfoggiare il suo esorbitante atteggiamento contrariato, ma si preoccupò persino di sottolineare un particolare…

«…ma è impossibile che un vulcaniano senta morire un’astronave!»

C’era quasi sconcerto negli occhi sempre vispi di Spock. Sconcerto che si evolse in qualcosa di molto più vicino all’irrazionale, che al logico…

«Lei dottore è padrone di credere o non credere alle mie parole,» un attacco, sguardo severo «ma io so, che nessuno, nemmeno un computer a bordo dell’Intrepid sapeva cosa li stesse uccidendo,» una realtà, oggettiva «è la mia natura vulcaniana a dirmelo.» punto.

«Ma 400 individui sono tanti!» furore egregiamente celato.

«Ho già notato questo in voi umani,» occhi umani di medico quasi sgranati in ascolto «vi è più facile piangere la morte di una sola persona, che la morte di un milione.»

Una pausa, e ora un rimprovero: «Lei parla sempre dell’insensibilità del cuore vulcaniano… ma che poco spazio sembra esserci… nel vostro.» una difesa.

Oh, come lo guardava l’emotivo dottore… faceva forse finta di non capire, sfoggiando quello sguardo, o magari manifestava quello che era un reale stupore a quelle così appassionate parole, ma McCoy seppe solo che non ebbe abbastanza tempo per ribattere. Spock era di pietra, e come una pietra gli diede le spalle, pronto a congedarsi senza una parola, prima che lo stesso McCoy, forse in un tentativo di rivincita –o chissà, magari comprensione?— bloccò lui la strada con una domanda retorica: «Soffrire per la morte del vicino, eh Spock?» sorriso strano, appena accennato, un’espressione quasi di sfida «…è quello che noi non sappiamo fare, vero?» con la piccola aggiunta, nel fondo, di un pizzico di cosciente amarezza che mai sarebbe stata dichiarata.

«Se ne foste capaci, la vostra storia sarebbe un po’ meno sanguinosa.» fu la placida quanto neutra risposta; non c’era più traccia di irritazione, ne di passione, e nemmeno di giudizio nella sua voce: era semplicemente neutro: era semplicemente sulla difensiva. Non avrebbe rivelato più nient’altro.

Rimase un pensoso McCoy, lì nell’infermeria.

 

Round Three

“Ma... quale di questi amici… devo condannare a morte?”

~

«…mi dispiace Signor Spock.»

Eccolo lì: uno sguardo glacialmente neutro, ed uno forse un poco tronfio –ma ansioso, soddisfatto—.

«B-bene!, e… vado a prendere quel che mi serve e—»

«Non lei Bones…»

Pietrificato, interdetto: si volta verso il capitano.

«…mi dispiace Signor Spock. E’ lei il più adatto a questo compito.»

Ah!, che dire?

Ciò che vide il capitano, fu uno Spock che riassettava la propria colonna vertebrale in modo da rimpettirsi con estrema dignità, e un dottor McCoy che aveva già puntato i suoi occhi scrutatori all’indirizzo di questo, scocciato.

Ma poi Bones allacciò le mani dietro la schiena, e quasi guardò a terra.

 

Round Four

«…adoperi l’analizzatore del DNA, le consentirà di raccogliere il maggior numero possibile di informazioni, anche l’analizzatore enzimatico le sarà di grande—»

Venne interrotto quasi bruscamente davanti i pannelli che avrebbero aperto le porte dell’hangar.

«So quali sono gli strumenti necessari dottore.»

McCoy bloccò la mano di Spock che andava verso il pannello, serio.

«Stiamo sprecando tempo, la capsula è già pronta.»

Un’insinuazione ironica: «Lei è decisissimo a volermi escludere vero?»

«Questa non è una competizione dottore, e poi la mia dignità non mi consentirebbe di lasciarmi andare a simili rivalità.»

Imbronciato, quasi sospettoso: «La dignità vulcaniana… le assicurò che è qualcosa che proprio non capisco.»

«E allora mi auguri semplicemente… buona fortuna.»

Cosa si era detto dei fulmini a ciel sereno?

Non c’era dubbio che tutto quel che era accaduto sino a quel momento altro non era stato che il loro personale, privato, intimo ciel sereno.

Ma negli occhi di Spock si rifletteva ancora l’esitazione che aveva usato nel pronunciare la semplice affermazione “buona fortuna”, e il fulmine, e se non lui, ma tuoni in lontananza, furono lo sguardo di McCoy.

McCoy, che lo guardava quasi con aria di sfida, quando in realtà, semplicemente non trovava un modo per rispondere. Semplicemente non trovava il coraggio di farlo.

Quella era la sua Nemesi.

Un’ingarbugliata rete di neuroni perennemente attivi e forse chissà, anche in sovraccarico, che si nascondevano dietro la maschera di un volto del tutto neutrale e solo rare volte incrinato da umana incomprensione.

Ma Spock aveva già capito. E come aveva fatto quello stesso giorno in infermeria, non s’era sprecato in parole di protesta degli usuali battibecchi, non aveva sfoggiato quelle sfaccettature di umana curiosità o umana incomprensione. Semplicemente, nel gelido dolore della difensiva, dopo aver visto gli occhi limpidi e azzurri del medico abbassarsi, aveva chiuso i propri, e dato per la seconda volta le spalle alla sua personale nemesi.

Fu McCoy stesso ad aprire il portello, e ancora lo inchiodava con gli occhi, mentre Spock dissimulava il suo stesso rifiuto sollevando il sopracciglio, e spariva poi inghiottito nell’hangar.

Spariva dove McCoy seguì ogni suo passo verso la navetta, prima di trovarsi ora davvero solo, ancor privo di coraggio, quando le porte si chiusero e pronunciò quel mai detto ma dovuto “buona fortuna”, che non era più un augurio, ma solo rimpianto.

 

E cosa accadde dopo?

Niente.

Niente perché Spock non era lì, niente perché quel mostro gigantesco era stato abbattuto, niente perché quando McCoy sorrideva sul ponte ad ogni nuova notizia della sopravvivenza di Spock, il vulcaniano non era lì. Niente contava, se non poteva farlo davanti a lui.

Ma quel fulmine alla fine giunse, proprio quando la navetta entrò nell’hangar, quando McCoy sorrise Raggiante per l’ultima e girò intorno alla sedia del capitano, guardando a terra, distratto, o forse guardando le proprie mani, le proprie dita, che si torturavano a vicenda.

 

Come trasformare quel rimorso che era sfuggito all’evoluzione a rimpianto in qualcosa che potesse contare veramente?

McCoy non lo sapeva, perché McCoy era emotivo e impulsivo.

Ma se c’era qualcosa di cui poteva vantarsi, era la testardaggine, quella parte della determinazione priva di raziocinio ponderato, che portava avanti le idee senza aver prima fatto… un apposito piano.

E fu difatti senza un piano che McCoy approcciò gli alloggi di Spock.

Che fare?

Stava lì, col dito a mezz’aria, incerto sul se segnalare la propria presenza o meno, indugiando, esattamente come aveva fatto davanti quelle porte dell’hangar.

Eppure, non voleva cancellare il rimorso?

Cliccò. Le porte si aprirono.

E, senza preavviso, il processo del fulmine a ciel sereno si completò in quell’ultima visione.

Quando entrò, e vide il volto calmo, serio, ma ricco di chissà quale altra diavoleria mezza umana-mezza vulcaniana di Spock, il dottore percepì a pieni ritmi il rombo del tuono.

E lì, realizzò.

Realizzò perché, mentre le porte scivolavano alle sue spalle chiudendosi, lui rimaneva immobile e quasi sconvolto davanti il vulcaniano tranquillamente seduto sulla sua sedia.

Si pose la domanda più saggia del mondo: davanti a quale emozione non si è in grado di avere il coraggio di dire semplicemente “buona fortuna…” –“perdonami…”— …?

Quale, se non la più potente.

La mia nemesi?

Si dovrebbe parlare d’astio, in questo senso.

Ma la sola parola nemesi, non era mai stata sufficiente a McCoy per descrivere quel che Spock era per lui.

E se prima lo ignorava sebbene lo percepisse, ora lo comprendeva a pieno, senza negarlo più.

Distolse lo sguardo, vagando per la stanza.

Sapeva che gli occhi del vulcaniano lo seguivano.

Era così calmo… sapeva già tutto?

Osò sbirciare nella sua direzione, e vide solo due occhi scuri e profondi, di una tristezza quasi infinita.

Possibile che Spock fosse così dannatamente adamantino, e così dannatamente cristallino dai soli occhi?

Ogni lato del suo essere, era una continua contraddizione in termini.

Pensava questo il dottore, mentre perso nel turbine dei pensieri lasciava che stavolta fosse Spock a concedergli il beneficio della sconfitta, il beneficio di non dover raccogliere coraggio e dire semplicemente ciò che era. E gli si avvicinò con tranquillità, dapprima camminando con le mani dietro la schiena, per poi scioglierle quando fu davanti la sua nemesi, che si tormentava i pensieri guardando a terra, solo apparentemente pensoso, e il labbro con le proprie dita.

Come convincere un uomo spaventato di ciò che aveva appena scoperto ad abbandonare tutti i dubbi, le paure, i timori e permettere che la sua attenzione si convogliasse davvero all’unica cosa che adesso avesse un senso?

Be’, Spock lo sapeva.

«Leonard.»

Come poteva Leonard sottrarsi a quell’incantesimo?

Sollevò gli occhi, smise di torturarsi il labbro.

La guardava davvero adesso, la sua dolce nemesi. E non sapeva ora grazie a quale miracolo conosceva le parole da pronunciare.

Fece un altro passo avanti, e con lo sguardo di chi nasconde un rimorso appena nato nel cuore, semplicemente disse: «Sai cosa ho fatto appena le porte dell’hangar si sono chiuse…? Ho detto—»

«Lo so, Leonard.»

Anche ora, era neutrale. Ma stavolta non si difendeva più. Non c’era alcun nemico da cui difendersi.

Per anni, tante discussioni, tanti battibecchi, tanto orgoglio e tanta sfacciataggine: tutto per cosa? Per l’unico motivo plausibile che spingeva due creature, che fuggivano dall’ovvio, a nascondere la realtà.

Ed era servita un’ameba gigante, per farglielo capire.

«…perdonami.» Avevi ragione. Per me, sarebbe stato più facile piangere la tua perdita, che quella di un milione…

Non si accompagnò con le semplici parole. Le sue braccia non erano più schiave della forza di gravità, ora levitavano verso la figura austera di un nemico fantasma: in un abbraccio, caldo, di scuse eterne, di imbarazzo di anni, di ammissione.

Lo abbracciò chiudendo gli occhi, ed emotivamente, stringendo quanto più poteva. E nella sua naturale meccanicità, anche Spock rispose, non con lo stesso impeto, ma anche lui strinse.

E quando semplicemente si slegarono, rimanendo faccia a faccia, non c’era più bisogno di fuggire o scappare; la conoscevano entrambi ora, la Verità.

Perciò, visto che non v’era più un motivo per fuggire, un motivo per nascondere qualcosa che ormai era alla palese luce del sole, McCoy il coraggio lo trovò: senza abbandonare le spalle di Spock e lasciando i propri palmi su quelle spalle magre, non ebbe timore dell’evidenza.

Leonard baciò il suo nemico, e il suo nemico baciò Leonard.

Un bacio fra nemici, perché amici non erano mai stati davvero: semplicemente, eran stati molto di più.

E partirono con garbo e prudenza, perché troppo fulminante era stata la scoperta, e tutto in quella situazione necessitava di dolci movimenti delle labbra, di occhi chiusi e persi, di ricerche volute ma caute, ricerca languide di lingue, e di profondità.

Quel bacio potevano essere le scuse e la fine delle ostilità, oppure…

Quando Leonard lasciò a malincuore quel morbido calore, questa volta lo guardava negli occhi senza nessuna sfida, ma solo con una silente domanda…

«E adesso…?» chiese lui, mentre una sua mano poggiava appena su una porzione di guancia, e un ciuffo di capelli neri e serici.

Spock non mutò espressione, e si sporse nuovamente verso il dottore per posargli un altro casto bacio sulla bocca, innocente e fugace, e infine, lo soddisfò: «Adesso, avremo un vero motivo per litigare.»

 

  
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