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Autore: Viiola    16/06/2010    1 recensioni
Nei suoi occhi riconobbi la paura. Aveva paura di me. In un secondo la mia sicurezza si era infranta, e anche il filo che ci legava l'un l'altra si era rotto. Il gelo dei miei occhi aveva fatto spegnere il fuoco che ci univa. Si spezzano milioni di vite al giorno, e in quel momento se n'era spezzata una sola. Ma aveva provocato l'infrangersi di altre due in parte. Il mio passato aveva distrutto il mio futuro. E il mio passato rideva in faccia al presente e a me compresa, sentendomi distrutta dentro. Il nostro legame non era uno comune, avevamo scelto di accettarci così come eravamo, e si era dimostrato troppo. Anche il viso più angelico, nasconde un demone.
Genere: Romantico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Bill Kaulitz, Tom Kaulitz
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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The Revenge is a dish served Cold

Mi parve molto strano mentire alla polizia.

“Non lo so, non mi ricordo niente, è tutto buio”.

I ricordi sono qualcosa di complicato e i miei erano vividi e pieni di rancore, scolpiti a ferro e fuoco nella memoria, ma avevo scelto di mentire.

Mi alzai dalla sedia e finsi di piangere, e il tremore dovuto alla rabbia mi fu d'aiuto per camuffare tutto in fragilità.

“E' stanca, è stravolta, è.. lasciatela un po' stare, tornerete a parlarle domani”, sussurrò una docile e ingenua dottoressa scossa da singhiozzi di compassione, che si era mimetizzata in un qualche angolo della stanza fino a quel momento.

Strisciai fino al lettino e mi ci buttai sopra. Guardai il soffitto, mi dilettai a impressionare la vista con quelle luci smorte e biancastre tipiche di tutti gli ospedali.

“Ciao”, una signorina, con occhiali fini e una pettinatura un po' sconvolta da quella lunga giornata di lavoro mi si avvicinò, con tanto di tailleur e bloc-notes.

Mi limitai a guardarla spostando lo sguardo, restando immobile, col mento in su e tanta voglia di silenzio.

Si schiarì la voce per incitare un mio saluto, e io battei due volte le palpebre. Quella era la massima reazione che avrebbe ottenuto. Volevo sapere cosa volesse da me e perché non se ne fosse già andata di fronte alla mia acidità.

“Va bene..” esortò rassegnata. “Comincio io”. Assunsi un impercettibile aria perplessa. “Io sono la dottoressa Gallemberg e sono qui per aiutarti”.

Non mi serve nessun aiuto.

“So che in questo momento sei un po'.. anzi, molto scossa e non vorrai certamente parlare con una sconosciuta signora che ti si è seduta accanto..”

Tu, non sai un bel niente.

Cercò goffamente di sembrare simpatica per sollecitare una mia reazione positiva per poi firmare il suo cartellino etichettandomi come “Caso normale concluso”. Non era mio compito aiutarla. Non ero proprio in voglia di aiutare il prossimo alle due del mattino di una giornata andata e cominciata male.

“Okay, vedo che non sei di molte parole. E' comprensibile, è tutto normale, non devi spaventarti, è naturale che tu..”

“Naturale!?” sbottai. Voleva una qualche reazione..? Okay, perfetto. L'avrei volentieri accontentata. Ma a modo mio.

“Eh..”, mugolò qualcosa a sua discolpa, anche se probabilmente non afferrava il suo errore.

“Normale, naturale, comprensibile?! Ma in che mondo vive? Queste sono le cose 'normali' per lei? Dica un po', si dice che per capire qualcosa bisogna averla vissuta. Lei ha vissuto un'esperienza simile? E dico così perché so che potrei sconvolgerla descrivendo l'evento nei minimi dettagli senza scoppiare in lacrime. Vuole andare a casa e considerare questo caso risolto, vuole che io la ringrazi per le belle parole e per l'aiuto dato così che lei possa timbrare il cartellino e andare da suo..” mi soffermai sulle mani, e non notai una fede al dito. “..da chiunque la stia aspettando e sentirsi appagata per aver aiutato un'altra vita?! Bene. La ringrazio, mi ha cambiato la vita, ora mi lasci in pace, voglio uscire di qui.”. Detto ciò sorrisi e scoppiai a ridere. Tornai seria e la guardai negli occhi, rivolgendole uno sguardo gelido. Scoppiai a ridere di nuovo. Speravo di averla confusa a sufficienza tanto da togliermela dalle scatole.

Cercò di ricomporsi, togliendosi quell'aria da ebete, chiudendo la bocca.

Fece un timido colpo di tosse e fece finta di niente, seguendo il protocollo.

“Ne vuole parlare..?”.

Mi misi seduta tirandomi su con le braccia e sbuffando.

“Lei, il suo schema, proprio non lo lascia, eh?”

“Io posso aiutarla, davvero”, mi ignorò una seconda volta.

“La spavento?” azzardai. “Altrimenti risponderebbe ai miei cinici attacchi. Invece no, lei mi ignora semplicemente. Non sono da protocollo, una argomento così complicato e che lei ormai sa gestire tanto bene le risulta difficile con una come me. Beh? Sono esperienze. Prova ad affrontare anche questa. Possiamo venirci incontro.” ancora nessuna reazione. Cominciavo a irritarmi.

“Possiamo parlare anche d'altro se non te la senti ancora di affrontare l'argomento” sussurrò guardando la finestra, evitando i miei occhi gelidi.

“Senta. Sono le due e trenta del mattino e lei sta facendo un grande sforzo per non scoppiare, perché in una situazione come la mia bisogna capire tutto e non può certo sgridare una nelle mie condizioni” iniziai a dire. Ormai iniziavo a credere anche io di star delirando. “Possiamo davvero venirci incontro. Io le parlerò brevemente di quello che è successo, lei dirà di capirmi e ce ne torneremo a dormire”

“Sei stanca? Vuoi riposare?”, chiese, come se stesse parlando con una terza persona invisibile che le rispondeva analiticamente alle domande che faceva.

“Sì”, dissi arrendendomi e abbandonando il peso della mia schiena sul cuscino con un tonfo.

“Bene, tornerò domani a mezzogiorno”

“Che cosa?! Sarò ancora qui domani a mezzogiorno?” sbraitai. Ora non stavo fingendo per farla impazzire e non sentirmi sola in quell'ospedale di matti, ma mi stavo davvero disperando a quella notizia.

“Sì, mi dispiace. Ma i medici devono tenerti sotto osservazione per vedere come stai fisicamente, anche se apparentemente non hai lesioni gravi. Se mi lasci il numero dei tuoi genitori li avvertirò di persona” continuò paziente.

“NO!” gridai. No, non potevano avvertirli. No, non poteva essere obbligatorio, loro non dovevano sapere niente o non mi avrebbero più fatta vivere!

“Come..? Non.. non vuoi che loro sappiano..?” chiese, ingenua.

“No. Assolutamente no. Non voglio. Perché dovrebbero? Ho diciassette anni, tra poco sarò maggiorenne e posso scegliere se non dirglielo o meno”

“Ma io non posso scegliere, mi dispiace. Devo farlo”

No. Stava scherzando?!

“Lei è una psicologa, può dire ai medici che è meglio per la mia salute che non siano avvertiti! Si inventi qualcosa!” insistei.

“Dammi il numero poi penseremo se chiamarli o meno”

Ubbidii, dandole il mio. “La prego, non li chiami”

“Non posso, mi dispiace. Vuoi dirmi perché non vuoi che lo sappiano?”

“Perché.. sono troppo apprensivi”

“Cerca di dormire, a domani”. Si congedò così e se ne andò.

Non avevo dato una risposta adatta, non era abbastanza forte da impedirle di avvertirli.

“Un momento..!”, mi illuminai.

“Sì?” chiese la dottoressa speranzosa.

“I miei effetti personali?”

“Quelli che sono stati ritrovati sono nel comodino”.

Annuii e lo aprii.

Venti minuti dopo il mio cellulare squillò. Mi ci fiondai sopra prima che la suoneria destasse qualche sospetto.

“Amore!” esordii “Sei tu?”, dissi imitando il tono di voce di mia madre quando è agitata.

“Ehm, salve, sono la dottoressa Gallagher”

“Come..? Dottoressa? E' successo qualcosa?”

“Sua figlia è qui da noi, sta bene”

“Oh mio dio!”

Recitai per il resto della chiamata e lei abboccò.

Attaccai e mi riaddormentai dopo qualche minuto.

Mi svegliai qualche ora dopo e mi alzai dal lettino, staccandomi tutti i fili dalle braccia. Ricevetti una chiamata.

“Ho saputo”

“Tutto?”

“Sì. Ti aspetto al solito posto”

Attaccai e sorrisi.

Mi rivestii e andai via, senza farmi vedere.

Uscire da quell'ospedale era stato troppo facile.

  
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