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Autore: Shichan    26/06/2010    3 recensioni
[Aoba centric]
Però, nello stesso momento in cui quel “che incapaci” era scivolato via fra le sue labbra, qualcosa si era malignamente insinuato nella sua mente.
E adesso?
E adesso… cos’è che dovrei fare?

[Personaggi: Kuronuma Aoba, Ryuugamine Mikado e vaghi accenni a Izumii Ran e genitori]
Genere: Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Occhieggiò la lavagna, la frase in inglese portata come esempio dal docente che recava degli elementi grammaticali oggetto della lezione cerchiati

Attenzione: la fanfiction si basa su un personaggio della light novel, e in quanto tale si basa sugli avvenimenti della stessa (nei pochi casi in cui vi fa qualche riferimento). Nel materiale finora letto, non ho trovato particolari introspezioni o descrizioni dei genitori di Aoba, pertanto tutto ciò che vi troverete non è altro che una mia supposizione.

 

 

 

 

Occhieggiò la lavagna, la frase in inglese portata come esempio dal docente che recava degli elementi grammaticali oggetto della lezione cerchiati.

Poteva notare i compagni di classe prendere appunti – Mairu Orihara ad uno dei primi banchi della fila centrale, Kururi poco più dietro nella sua ormai classica tuta e con lo sguardo impersonale rivolto alla lavagna.

Lui lasciava vagare il proprio da quasi venti minuti, il gomito poggiato sul banco vicino al proprio quaderno e la mano a sorreggere il volto, annoiato.

La voce del professore arrivava monotona con le sue nozioni; portò lo sguardo fuori dalla finestra, vicino alla quale era posizionato con il banco, poco più avanti della metà della fila.

Il cortile era vuoto, segno probabilmente che se c’era qualcuno in quel momento impegnato nell’ora di ginnastica, doveva essere in palestra anziché occupato nei soliti giri di campo esterni.

Sospirò, mentre il discorso fatto durante la pausa conclusasi ormai quasi un’ora prima, tornava in alcuni momenti a ripetersi, in un angolo della sua mente: non era tipo da legarsi troppo alle parole, in realtà, specialmente quelle dei compagni.

A meno che non si trattasse proprio di una persona importante, tendeva a lasciare che intere frasi scivolassero via, o arrivassero alle sue orecchie senza riuscire a raggiungere il cervello; era un modo comodo di ascoltare, dopotutto. Non doveva particolarmente impegnarsi a ricordare finché erano chiacchiere tipiche dei “banchi di scuola”, quelle che un’importanza vera e propria non l’avevano.

Eppure non avrebbe saputo dire per quale motivo, di preciso, ancora ci stesse pensando.

Kuronuma fa il “bello e dannato”, così rimorchia!

Era stata un’osservazione come se ne potevano fare tante altre, fra compagni, fra maschi nella fattispecie: c’era sempre, tipica, quella sottile competitività maschile, no?

Alle superiori si amplificava persino, rispetto alle medie.

Ma lo disturbava; al momento non avrebbe saputo spiegare perché ma… lo disturbava da morire.

 

 

«Aoba-kun?» si sentì chiamare e sbatté un paio di volte le palpebre, voltandosi all’indirizzo della voce, l’espressione forse ancora un po’ persa.

Incrociò l’espressione di Mikado, fra il preoccupato e l’offeso dal fatto di non essere ascoltato probabilmente: «Sicuro che va tutto bene?» gli sentì domandare. Annuì nell’immediato, rivolgendogli un sorrisetto colpevole: «Scusa, senpai, mi sono distratto. Ma ora sono tutto orecchie!» assicurò.

Mikado non parve molto convinto, e non replicò subito; portò un boccone del riso del proprio bento alle labbra e ne approfittò forse per fare una pausa e soppesare cosa dire.

Una volta che ebbe ingoiato, gli si rivolse nuovamente: «È da ieri che sei strano.» osservò, non con tono d’accusa, ma lasciando intendere che non si sarebbe bevuto una risposta come “è solo una tua impressione, senpai”.

Probabilmente Aoba lo colse piuttosto facilmente dal suo tono, dal momento che sospirò quasi rassegnato: «Non è nulla di importante, davvero. Solo una cosa che mi ronza per la testa, ma non è grave. Domani me la sarò già dimenticata di sicuro.» lo tranquillizzò, pronunciando quelle parole con noncuranza, come se davvero non interessasse nemmeno a lui che era il diretto interessato.

Nonostante la scelta del tono però, Mikado non parve ancora particolarmente dissuaso su quella questione.

«Hai problemi con qualche compagno, Aoba-kun?» domandò con cautela, senza voler apparire indiscreto.

Il più giovane spostò lo sguardo su di lui, in parte sorpreso: ultimamente si chiedeva se Mikado stesse diventando terribilmente sensibile ai livelli di un esper come ogni tanto sentiva blaterare a Kida-senpai per prenderlo in giro, o se fosse lui che iniziava a perdere colpi e non saper nascondere più le cose.

«Non li definirei problemi. Perciò non preoccuparti.» fu la semplice e banale risposta che gli diede.

«Mh.» contraccambiò Mikado, senza voler insistere troppo se l’altro non aveva piacere di parlarne – e poteva dire che non ne avesse voglia, a giudicare da come eludeva le sue domande senza nemmeno darsi la pena di mascherare quel suo sfuggire da esse.

Rimasero in silenzio per un po’, tempo durante il quale non fecero nulla più che mangiare pigramente ognuno il proprio pranzo.

«Prima ti stavo chiedendo» riprese ad un certo punto Mikado, senza preavviso «la tua classe cosa organizza per il festival della cultura?» domandò. Non poté che ridacchiare, prima di rispondergli: «Vogliono organizzare una recita. Siccome molti del primo anno hanno puntato il bar-caffè, una classe è composta quasi interamente da componenti di club sportivi ed una che ha molte matricole di quello di musica si occuperà del concerto che c’è sempre verso la fine del festival. Ah, e la B fa una casa degli orrori mi sa.» concluse con quell’ultima aggiunta.

Mikado, il bento ormai finito, chiuse il contenitore e rivolse poi completamente l’attenzione sul più giovane: «Tu non sei in un club sportivo, Aoba-kun?» chiese perplesso. Ricordava qualcosa in proposito, anche se non i particolari, perché ne avevano parlato praticamente quasi di sfuggita o forse altrettanto per caso lo aveva sentito dire addirittura da qualcuno che non era Aoba.

«Sì, ma il club di Kyudo1 non è qualcosa di… da festival, insomma. Quindi non farà nulla. Il capitano ha detto che al festival della cultura c’è qualcosa di sportivo solo per i club come basket, o pallavolo. Una dimostrazione di Kyudo è monotona, no?» gli fece presente, stiracchiandosi poi.

Mikado annuì leggermente, anche se non avrebbe saputo dire se fosse davvero d’accordo o meno; sorrise, comunque: «E quale recita porterete?» chiese, incuriosito.

Aoba ridacchiò: «Non lo so, ma di sicuro io rimarrò dietro lo quinte!» assicurò divertito.

 

 

«A votazione, ecco la decisione dei ruoli principali degli attori: Suzuki, la nutrice. Kugimiya e Shirae, le due protagoniste femminili. Uzuki e Kuronuma quelli maschili. Gli altri, si divideranno fra ruoli secondari ad estrazione, scenografie, costumi, suono e luci. Buon lavoro a tutti quanti!» concluse il rappresentante di classe e nello stesso istante in cui concluse la frase dovette dare parola allo studente che aveva alzato una mano in quell’istante.

«Sì, Kuronuma-kun?»

«Preferirei non recitare e lavorare dietro le quinte se possibile.» asserì abbozzando un sorriso leggero, di quello che rivolgeva falsamente ai compagni giocando al bravo ragazzo.

Il capoclasse parve spaesato: «Non ti piace il ruolo, Kuronuma-kun? O è, ehm… ansia da palcoscenico?» tentò quello, probabilmente preferendo trovare una soluzione in quel modo che non dover ripetere parte delle votazioni da capo.

«Non amo recitare, e non riuscirei nel ruolo lo stesso. Perciò—»

«Kuronuma-kun, saresti bravissimo nel ruolo di Elliot!» sentì obiettare ad una ragazza della sua classe – ma probabilmente, si disse, ciò che lo inquietò di più fu cogliere per caso Orihara Mairu che assicurava che “avrebbe fatto del suo meglio con i costumi”.

Ecco, quello non era affatto un bene.

Ma nemmeno che qualche altro compagno o compagna stesse dando manforte alle parole appena dette dalla ragazza che aveva obiettato, era una cosa buona.

Sospirò, imponendosi tutta la cortesia possibile anche se la cosa lo stava già seccando troppo per i suoi gusti: «Non lo dico per falsa modestia, davvero non sono abituato a recitare.» ammise – bugiardo, proprio lui che recitava ogni istante della sua esistenza ad eccezione del tempo passato fra i Blue Square, forse.

«Ascolta, Kuronuma-kun.» sentì riprendere al capoclasse: «Facciamo qualche prova, ti va? Se proprio non te la senti, o vediamo che non riesci, cambieremo i ruoli, va bene?» tentò, il più democraticamente possibile.

Tanto che persino lui si ritrovò con le mani legate; se avesse risposto troppo bruscamente quando l’altro era stato tanto accurato nello scegliere le parole e la soluzione migliore, sarebbe suonato fin troppo strano.

Specialmente da parte sua, che era di un’educata cortesia con tutti.

Suo malgrado, non poté fare proprio nient’altro che annuire.

 

 

 

«Acchan! Sono tornata!» si sentì chiamare dall’ingresso, ma non si mosse dalla sua posizione.

Fermo nella stanza che fungeva da salotto, seduto sul tatami2 , le piccole mani muovevano avanti e indietro il camion giocattolo.

Di spalle rispetto all’ingresso, non si voltò quando la madre ormai entrata del tutto lo richiamò di nuovo; notando l’atteggiamento strano, Atsuko posò le buste della spesa e si avvicinò al figlio. Una volta che lo ebbe raggiunto, si inginocchiò facendo attenzione a sistemare la gonna del tailleur che indossava per lavoro.

Di fronte al figliò, si chinò appena in avanti per sbirciarne l’espressione: quasi se lo fosse aspettato, trovò sul viso del piccolo un broncio in piena regola e le sopracciglia appena aggrottate. Una di quelle facce che non si addicevano molto ad un bambino di sette anni.

Sorrise indulgente: «Che succede, Acchan?» domandò, osservandolo. Il bambino scosse appena la testa senza dire nulla, continuando a far fare avanti e indietro al camion giocattolo.

Atsuko sospirò, come se fosse abituata a quelle piccole prese di posizione infantili; ad un’occhiata più accorta, però, notò qualcosa in corrispondenza del braccio del figlio che catturò completamente la sua attenzione.

Gli posò gentilmente una mano sulla piccola spalla per voltarlo appena, riconoscendo la traccia di quello che era senza dubbio un livido, sul braccio minuto.

«Acchan, cos’è successo?» domandò nuovamente, il tono morbido ma in qualche modo più serio. Lui fermò la mano che muoveva il giocattolo, ma non alzò lo sguardo sulla mamma.

«Abbiamo litigato.» bofonchiò, guardando per terra. Atsuko sospirò, appena sollevata: se parlava di litigio, era più probabile che si riferisse ad un bambino della sua stessa età che non ad un rimprovero particolarmente aspro del padre.

«Con chi?» chiese comunque, cautamente.

Aoba non rispose subito: non era la prima volta che il fratellone si arrabbiava così tanto con lui, quando gli chiedeva di giocare insieme o di fare i compiti con lui.

E anche le altre volte Ran gli aveva detto che, se lo avesse detto alla mamma o al papà, loro gli avrebbero dato del bugiardo e lo avrebbero mandato via; e lui non voleva che succedesse, per quello non aveva mai detto niente.

«A scuola.» borbottò piano, lo sguardo chiaro ancora rivolto al tatami come se ci fosse qualcosa di bellissimo da vedere lì. Atsuko sospirò nuovamente, portando entrambe le mani sotto le braccia del figlio e tirandolo facilmente su, avvicinandoselo. Se lo sistemò sulle ginocchia, piano, tenendolo vicino a sé in un abbraccio leggero; aveva fatto attenzione affinché, nonostante la posizione, potesse guardare in viso il figlio.

In quel modo, direttamente di fronte a lei, poté notare l’ematoma già individuato in precedenza: con chiunque Aoba avesse litigato a scuola – probabilmente era un bambino più grande di lui – doveva averlo spinto e il figlio doveva aver battuto da qualche parte cadendo.

Gli sfiorò delicatamente la guancia con la mano, l’espressione preoccupata: «Acchan, lo hai detto alla maestra?» domandò, osservandolo.

Aoba scosse appena la testa, il broncio che ancora permaneva. Atsuko se lo strinse appena di più addosso: «Acchan, quando qualcuno alza le mani su di noi, se non è giusto dobbiamo dirlo. Nel tuo caso, quando sei a scuola, alla maestra. È più corretto questo, che alzare le mani per rispondere, anche quando è per difesa. Lo sai, vero?» gli fece presente, senza note di rimprovero nella voce.

Il bambino annuì: «Io non gli ho fatto niente, davvero.» mormorò piano e Atsuko riconobbe senza alcuna difficoltà quella smorfia leggera che preannunciava il pianto del minore dei suoi due figli.

Aoba era sempre stato così, anche da piccolissimo: ogni volta che si faceva male o combinava qualcosa e veniva sgridato, guardava per terra mortificato e alla fine piangeva irrimediabilmente.

Anche se cercava palesemente di trattenersi.

Si distrasse da quelle osservazioni, sentendosi tirare appena la manica. Abbassò lo sguardo su di lui, ritrovandosi davanti gli occhi lucidi del più piccolo e un principio di singhiozzo: «Acchan…?» chiese interrogativamente, con pazienza, passando la mano sulla schiena del piccolo.

Lui però non disse nulla, limitandosi a poggiare il viso contro il petto della mamma, le piccole mani che andavano ad intrappolare fra le dita la stoffa della camicia; Atsuko lo sentì strofinare leggermente il viso contro di lei e con un moto di tenerezza portò la mano fra i capelli scuri del figlio, carezzandoli appena.

«Va tutto bene, Acchan.» assicurò: «Va tutto bene.» ripeté piano, come una ninna nanna per calmarlo.

 

 

 

«…chan! Acchan!» si sentì chiamare e alzò intontito la testa dal tavolo della cucina, cercando con lo sguardo la fonte della voce ed individuando facilmente l’unica altra figura lì con lui.

Portò una mano a stropicciare un occhio mentre sbadigliava – effettivamente senza coprire la bocca con la mano, ma tant’è.

Atsuko rise, vedendolo: «Ti ho detto un sacco di volte di non restare sveglio ad aspettarmi quando rientro tardi dalla redazione.» lo rimproverò bonariamente, aprendo il frigo in cerca di qualcosa da mangiare per una cena veloce.

Ripresosi dal torpore del sonnellino che si era involontariamente concesso, Aoba la fermò: «C’è la cena nel microonde.» le comunicò, vedendola voltarsi.

«Grazie, tu hai già mangiato?» domandò, ricevendo un semplice “sì” come risposta. Un monosillabo nel quale parve leggere chissà quale frase o dal quale sembro dedurre chissà cosa. Dopo aver avviato l’elettrodomestico per riscaldare il piatto all’interno, recuperò un paio di bicchieri e riempì la brocca di acqua dal rubinetto.

Infine, si sedette di fronte al figlio: «Cosa c’è Acchan?» chiese, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Aoba sbatté un paio di volte le palpebre, perplesso forse; non avrebbe mai capito con quale capacità sua madre aveva il potere di anticiparlo sempre, anche quando lui di essere scoperto ne avrebbe fatto a meno.

«Niente di che, perché?» bofonchiò alla meno peggio in risposta.

Atsuko sospirò quasi rassegnata, mentre il segnale acustico segnalava che il microonde aveva finito. Si alzò per recuperare la cena riscaldata, dopodiché tornò a sedersi.

«Perché non mi aspetti mai se non succede qualcosa.» replicò con semplicità.

«Non è vero, ti aspetto per cenare insieme.»

«Non quando torno così tardi.»

«Mamma, sono le dieci e mezza e non ho più otto anni, che non riesco a star sveglio oltre le nove.» le fece notare.

«A parte che erano le otto e un quarto, il tuo orario limite. Comunque ti assicuro che la faccia che hai è la stessa di quando da bambino tornavi con qualche livido nuovo a casa.» rimbeccò lei, con l’aria furba di chi sa che ancora può uscire vincitrice da uno scambio verbale col figlio adolescente.

Lui la osservò, per un attimo perso a riflettere su altro.

Anche a distanza di anni, ogni volta che era uscito quel discorso, non le aveva mai detto di Ran; non le aveva mai raccontato, nemmeno dopo l’arresto del fratello, del fatto che era proprio quest’ultimo a procurargli i lividi – non tutti, ma la maggior parte, come quello del sogno che si sarebbe volentieri risparmiato.

Non avrebbe saputo dire nemmeno lui con esattezza perché, anche se qualche volta ci aveva pensato.

Forse, si era detto, era perché avere un figlio in galera era già abbastanza pesante senza aggiungerci che malmenava il fratello minore finché questi non si era ribellato.

O magari, era perché sapeva che se Ran era stato arrestato era sua la colpa – o il merito – e sapeva che sua madre, da madre appunto, aveva pianto quando l’aveva saputo.

Perché era sempre suo figlio.

Esattamente come per Aoba Ran sarebbe sempre rimasto “suo fratello”; anche se non avrebbe voluto, anche se avrebbe dato parecchie cose in cambio pur di cancellare quella parentela indesiderata, anche se gliele aveva fatte scontare tutte con gli interessi, anche se gli aveva rovinato l’esistenza, non sarebbe cambiato nulla.

Ran rimaneva Ran.

 

«Nii-chan, giochiamo?»

Lui non… aveva detto nulla di male, in fondo.

 

Sospirò, osservando sua madre mangiare mentre gli dava il tempo di decidere di parlarle del problema, qualunque esso fosse.

«Devo recitare al festival della cultura.» bofonchiò, ben poco entusiasta.

Al contrario di quanto gli occhi che brillavano suggerivano riguardo lo stato d’animo di Atsuko dopo quelle parole.

«Recitare? Cosa? Che ruolo?» chiese come una bambina – effettivamente ogni tanto a lui il dubbio veniva, sui loro ruoli in famiglia.

«Una di quelle storie dove c’è lei, innamorata di lui, ostacolata dall’altro. Comunque alla fine muoiono tutti e tre.» tagliò corto. Atsuko parve illuminarsi ancora di più: «Aw, una di quelle storie che alla tua età amavo letteralmente andare a vedere quando erano rappresentate!» esclamò.

E Aoba avvertì una sensazione che gli suggeriva quanto si stesse scavando la fossa da solo man mano che parlava – d’altra parte, tendeva a dimenticare che sua madre in quanto tale era stata una ragazzina adolescente.

Gravissimo errore, non tenerlo ben presente.

«C’è qualche problema con la recita?» la sentì chiedere, vedendola poi portare un boccone alle labbra: «Non voglio recitare.» tagliò corto lui.

Atsuko masticò con tutta calma: «Motivazione?» domandò pacatamente.

Lui la fissò guardingo quasi, prima di rispondere: «Non mi piace la parte.»

«C’è una scena d’amore, ho capito.» rimbrottò lei, lasciandolo stupefatto: «Ma come…?» iniziò, zittendosi quando la sentì ridacchiare e la vide poi fargli l’occhiolino complice.

«Acchan, ricordati sempre che sono tua madre. Per alcune cose, sei alla stregua di un libro aperto. Un libro illustrato, tra l’altro.» gli fece notare in una sottile e bonaria presa in giro sul finale.

Lui si chiuse nel silenzio per qualche istante: a volte aveva la sensazione che sua madre sapesse anche dei Blue Square, mentre altre come in quel momento con quel “per alcune cose” che non le sapesse affatto.

O meglio, che avesse capito che c’era qualcosa ma che per scelta forse avesse deciso di non cercare di capire cosa fosse, lasciandogli i suoi spazi e soprattutto i suoi segreti.

Lo confondeva un po’, e supponeva che fosse il motivo per il quale l’unica facciata che sapeva tenere su con sua madre fosse quella limitata di chi dimostra di non avere altro che la sua monotona vita di studente delle superiori senza un problema al mondo o quasi.

Incrociò le braccia sul tavolo con uno sbuffo: «In ogni caso, non voglio recitare.» concluse.

Atsuko bevve il resto della zuppa che nel frattempo aveva praticamente finito, posando con cura e attenzione nei gesti la ciotola sul tavolo e le bacchette accanto ad essa.

«Sei sempre stato un bambino timido Acchan, ma suvvia, sei un ragazzo delle superiori, ora. Come farai a dichiararti davvero se non riesci per una recita?» gli fece presente.

«Non si pone il problema, visto che non devo dichiararmi dal vivo.» sottolineò.

«Adesso forse, ma in breve dovrai. È l’età, non si scampa.»

«Detta così sembra una condanna.» le fece notare, la madre che ridacchiava a quelle parole, alzandosi per mettere i pochi piatti sporchi nel lavabo.

«A volte, da come ne parli Acchan, sembra che per te sia davvero qualcosa che somiglia ad una condanna, voler bene a qualcuno.» disse, nel tono una sfumatura di preoccupazione che con un po’ di attenzione poteva essere notata abbastanza facilmente.

Sebbene sua madre fosse di spalle, Aoba portò ugualmente lo sguardo su di lei, indecifrabile ma inconfondibilmente più freddo di quello che da bravo figlio annoiato dalla sua vita di liceale le rivolgeva.

Non avrebbe voluto dirlo, di fronte a lei.

E normalmente non sarebbe stato così incauto; però era stanco, di quelle che a lui arrivavano come insinuazioni belle e buone. Come il fatto che si atteggiasse a “bello e dannato” per piacere di più, o come il loro dare per scontato che uno stupido damerino innamorato al punto da essere poco meno di un fesso fosse la parte a cui lui certamente avrebbe reso giustizia.

O anche quelle uscite di sua madre.

Come se voler bene a qualcuno fosse una cosa vitale che dovevano provare tutti, lui compreso, e che se non provavi allora non eri normale.

Non eri adatto.

 

Sua mamma gli scompigliava sempre i capelli a quel modo,

da quando aveva memoria.

«Ne, kaa-san? Perché fai così?»

Aveva chiesto poi una volta.

«Ma come, Acchan! È perché la mamma ti vuole bene!»

E detto da lei sembrava davvero ovvio.

 

«A che serve?» mormorò piano, fin troppo serio.

Atsuko si voltò, perplessa: «Cosa, Acchan?» chiese, quasi sovrappensiero.

«A che serve, impegnarsi tanto per una cosa stupida come la ragazza? A voler essere proprio pignoli, non dovrebbe essere la famiglia il nucleo affettivo più forte? E guarda noi com’è che siamo finiti!» sbottò – non se lo era mai permesso, perché lo sapeva quanto il ricordo a sua madre facesse ancora male.

Sia di Ran, che diveniva col tempo sempre più distante da lei, e poi suo padre con cui c’erano state sempre più incomprensioni.

E poi lì, com’era finita, come si poteva vedere anche adesso: un divorzio, una separazione dei beni quanto dei figli, il ritorno del cognome da nubile ed infine uno dei due figli che finiva in carcere dopo essere stato sorpreso invischiato fino al collo in quella storia delle gang colorate che sembravano uno stupido gioco per bambini o adulti che non volevano crescere – ma non c’era nulla di ammirevole in loro, a differenza della favola di Peter Pan.

Sapeva che non avrebbe dovuto dirlo, eppure…

«Papà sarà chissà dove, magari per le strade di Tokyo e ho un fratello maggiore in galera!» concluse aspramente.

Eppure, anche sapendo perfettamente che in parte era colpa sua… la rabbia contro suo fratello era stata, per molto tempo, l’unica cosa che aveva avuto.

«Che me ne faccio di una ragazza, o di questo fantomatico qualcuno a cui volere così bene?» aggiunse, duro.

Atsuko non aveva fatto né detto nulla: non era mai stata il tipo di madre che schiaffeggiava il figlio per una cosa simile – avrebbe potuto se avesse avuto ancora stima del marito per un qualsiasi motivo, ma era mancata tanto tempo fa, troppo forse perché in momenti come quello potesse dire con sincerità “porta rispetto a tuo padre”.

La vide asciugarsi le mani nel panno da cucina, dopodiché aggirò il tavolo fino a passare proprio di fianco al figlio per recarsi nell’altra stanza; allungò una mano, sì, ma per nessun motivo oltre il posarla sulla testa di Aoba e scompigliarne appena i capelli con dolcezza.

«Proprio per non diventare come Ran e tuo padre. Potrebbe essere una ragione sufficiente per te, Acchan?» fu l’unica cosa che pronunciò, guardandolo a metà fra gentilezza e preoccupazione, passando oltre.

Si morse il labbro inferiore.

Dannato stupido.

 

Poi, si era spiegata meglio,

scompigliandoglieli ancora di più.

«È un gesto d’affetto, Acchan.»

 

 

«Bene, un ottimo lavoro da parte di tutti!» decretò il capoclasse, guardando sorridente i presenti in aula – ossia gli attori, fra personaggi principali e secondari: «Facciamo una pausa, così chi deve provare ancora i costumi per gli ultimi ritocchi può farlo con calma e avere anche il tempo della pausa pranzo. Ci rivediamo tutti qui dopo mangiato.» comunicò organizzato, ricevendo l’assenso dei presenti, compresi gli addetti ai costumi che erano sistemati nella parte in fondo dell’aula e vi erano rimasti per tutto il tempo in cui le prove si erano svolte nella zona della cattedra e dei primi banchi.

Aoba sospirò, rilassando le spalle; come minimo sarebbe rimasto per tutta la pausa pranzo da qualche parte della scuola dove nessuno della classe potesse trovarlo per chiedergli della recita.

Alla fine, con tutte le difficoltà del caso – dimenticava irrimediabilmente qualche pezzo, o meglio: così sembrava. In realtà aveva semplicemente continuato a bloccarsi sullo stesso punto da farlo pensare senza che ci fossero troppi sospetti.

Lasciata l’aula insieme alla maggior parte dei propri compagni, si diresse verso il giardino; sarebbe stato inutile cercare di mangiare in pace sul tetto, che sembrava essere sempre uno dei posti più gettonati di tutta la Raira dove passare la pausa pranzo. Lui aveva spesso optato, nei giorni in cui non aveva proprio alcuna voglia di mangiare con i compagni, per un angolo del cortile, sul retro.

Mangiò lì, approfittando della tranquillità del punto scelto, le voci dei compagni che pranzavano nel cortile vero e proprio attutite dalla distanza.

Richiuso il contenitore del bento, occhieggiò indeciso il copione con l’aria di chi preferirebbe essere accerchiato durante una rissa da tre persone tutte insieme piuttosto che recitare o anche solo aprirlo nuovamente quando per tutta la mattina non aveva fatto altro.

Sospirò, trovando facilmente il punto con la scena dell’ormai fantomatica dichiarazione; la lesse per l’ennesima volta, l’espressione contrariata.

«”Di questo, sono assolutamente certo, poiché in verità dal primo momento in cui mio sguardo si è posato su di voi, ho avvertito… ho avvertito il sentimento…» si interruppe.

Ennesima pausa.

Ennesima smorfia.

Ennesimo sbuffo.

«…Aoba-kun?» sentì e trasalì, voltandosi di scatto, l’aria di chi ha già pronta la pala per scavarsi da solo una fossa in cui seppellirsi, preferibilmente prima di sentirsi rivolgere la classica ed imbarazzante domanda “cosa stai facendo?”.

E riconoscere Mikado non lo fece sentire meglio, per niente: che razza di figura.

Abbozzò un sorrisetto nervoso, cercando di mascherarlo invece con uno di quelli che gli rivolgeva sempre: «Come mai qui, senpai?» chiese, tentando da subito di deviare l’attenzione su un argomento totalmente diverso da quello a cui qualsiasi domanda di Mikado avrebbe potuto portare.

Lo vide sorridere: «Ti cercavo e qualcuno ha detto di averti visto andare sul retro, o che così gli era sembrato. Allora sono venuto a vedere.» spiegò pacatamente l’altro.

Annuì appena, giusto per dar segno di aver capito, e fece per togliere di mezzo il copione che ancora teneva fra le mani: «Ho saputo che la tua classe si occuperà di una recita. Stavi provando la parte?» chiese, palesemente incuriosito.

Aoba deviò lo sguardo sui gradini della scala antincendio esterna, dove aveva posato il contenitore del bento vuoto: «Ah, più o meno.» borbottò rimanendo sul generico.

«Deve essere divertente.» osservò Mikado, casualmente, come un commento qualsiasi.

«È solo una grande rottura di scatole invece.» replicò d’istinto.

Non era da lui, nemmeno questo. Kuronuma Aoba non agiva lasciandosi guidare dall’istinto: aveva sempre calcolato tutto, ogni minimo atteggiamento, ogni sguardo, ogni parola.

Da quando era stato chiaro quanto, facendo così, tutto fosse più semplice.

Da quando aveva capito che un sorriso ti aiutava a comprarti la simpatia delle persone molto più facilmente, e nel caso di alcuni anche la loro fiducia; e averla era importante, perché quelle persone diventavano utili, all’occorrenza.

E i compagni di classe non avevano mai fatto eccezione.

Però con Ryuugamine Mikado era come una sorta di scambio; da quando era stato in grado – o in qualche modo fortunato abbastanza da vederlo – di conoscere quel lato che invece nascondeva a tutti, era stato come se in risposta a quella fiducia o assenza di cautela da parte del compagno più grande, lui fosse stato in dovere di rispondere nello stesso modo.

Mostrando quella parte di sé che non aveva mai mostrato a nessuno; quella pessima, subdola, che sapeva sfruttare ogni situazione e muoversi nell’ombra senza mai sporcarsi davvero le mani.

Quella che lo rendeva ciò che era sempre stato fino a quel momento e, al tempo stesso, quella che rappresentava l’unica cosa sulla quale avesse sempre potuto rivendicare un qualche diritto.

I Blue Square.

Mostrarlo era… molto più scomodo di quanto non sembrasse.

Vide Mikado farsi serio in volto: «Aoba-kun, non è da te. C’è qualcosa che non va.» decretò e questa volta non era affatto una domanda, tutt’altro.

Aoba si morse leggermente il labbro inferiore: dal momento che si era lasciato sfuggire quelle poche parole che da sole potevano seriamente mandare all’aria quella facciata che aveva sempre mantenuto, l’unica cosa da fare a quel punto era assecondarle il minimo necessario a far sì che non destassero sospetti.

Bastava farle passare come uno sfogo raro, breve nel suo essere insolito, e che probabilmente non si sarebbe ripetuto mai più.

«Non mi piace che le persone mettano di mezzo gli altri senza preoccuparsi di cosa i diretti interessati vorrebbero fare. Hanno scelto gli attori con una votazione, e anche quando ho fatto presente che non mi sentivo all’altezza, per comodità e per non perdere tempo nel fare le votazioni da capo hanno detto “vediamo come va”.» ripeté riassumendo quelle che erano state le scelte del capoclasse.

Posò il copione accanto al bento, sedendosi qualche scalino più in basso, l’aria seccata: «E il risultato ora è che come avevo detto non sono in grado di recitare, ma è troppo tardi e quindi le cose rimarranno così. Bell’affare, alla fine va come volevano loro.» concluse, il tono di chi è palesemente infastidito.

Sbirciò l’espressione di Mikado, istintivamente: gli riconobbe un sorriso impacciato, di quelli timidi tipici di lui, ad incurvargli le labbra.

«Forza.»

«…Forza cosa?» fece eco Aoba osservando senza capire la mano dell’altro tesa verso di lui.

«Dammi il copione, ti aiuto a ripassare.» assicurò.

Lo fissò, per un attimo stupito; poi sorrise, ma non c’era gentilezza o divertimento nel gesto. Era più come se fosse una fastidiosa rassegnazione mista a qualcosa che non era facile da definire con chiarezza, ma che Mikado osservandola fu certo di non aver mai visto sul viso di Aoba.

«Lascia stare, senpai, non serve.» replicò, intuendo che da parte dell’altro stava per arrivare una risposta di rimando che però non sentì.

O, per meglio dire, non ascoltò perché troppo impegnato a perdersi in pensieri suoi che a Mikado come a chiunque altro erano inaccessibili.

«Non è un problema di memoria. È solo che non credo per niente in quello che devo pronunciare. E perciò, finisco con il bloccarmi: non è una cosa che lo studiare insieme può risolvere. Perciò… non conviene che io ti faccia perdere tempo, no?» gli fece notare, un sorrisetto leggero che non sembrava affatto né quello di qualcuno che è in qualche modo certo di trovare una soluzione, né quello di chi è davvero sollevato come vorrebbe far pensare.

Vide Mikado assumere un’espressione preoccupata, e si chiese perché mai quel ragazzo dovesse sprecare del tempo preoccupandosi anche di uno come lui.

Era probabile che anche nei suoi confronti, sarebbe arrivato il momento in cui lo avrebbe tradito voltandogli le spalle; non importava quanti segreti nel frattempo Mikado gli avrebbe potuto rivelare, o se in quel gioco in cui tutti usavano tutti lui sarebbe stato quello che ne sarebbe uscito vincente alla fine.

In realtà, non sapeva nemmeno per quanto tempo ancora quella sorta di alleanza fra Blue Square e Dollars sarebbe durata. Né, ancora, quanto tempo avrebbe potuto passare a combattere nell’ombra e alle spalle di Mikado con Orihara Izaya per salire al potere del gruppo dei Dollars – il motivo per cui, in fondo, tutto quello era iniziato.

Eppure Mikado si preoccupava come un senpai qualsiasi avrebbe fatto con un kohai3 qualsiasi.

A volte sembrava addirittura stare in pensiero… come avrebbe fatto un amico.

«Non sarebbe una perdita di tempo, se si trattasse di aiutarti Aoba-kun!» lo sentì esclamare, e Ryuugamine Mikado era un ragazzo timido che non alzava mai la voce, ed era sempre insicuro anche nell’esprimere le sue opinioni persino quando si trattava di farlo come capoclasse e perciò era in qualche modo strano sentirlo prendere posizione in quel modo.

O forse, visto com’era “l’altra faccia della medaglia” di Ryuugamine Mikado, poi tanto strano non avrebbe dovuto trovarlo.

Aoba, in silenzio, abbozzò un sorriso di scherno, ma non verso l’altro.

 

Forse i Blue Square erano davvero quello.

Proprio come aveva detto Yatsufusa4,

la loro gang non era che un insieme di persone,

ognuna con un piccolo territorio personale.

Quell’unico ”qualcosa” che possedevano,

non facevano che difenderlo disperatamente.

 

Che fosse un territorio.

Che fosse la persona amata.

Che fosse un oggetto, o una gang.

Che fosse se stessi.

 

Lui non aveva trovato altro.

Un giorno, per gioco aveva formato una gang con gli amici.

Erano tutti ragazzini, ed erano tutti cresciuti insieme; poi la gang si era ingrandita, e si erano unite anche persone adulte. E a quel punto, per convenienza, lui aveva lasciato il comando a suo fratello.

E poi, quando Ran era finito in galera e i Blue Square avevano praticamente cessato di esistere, quando Aoba non avrebbe dovuto fare altro che guardare il fratello dall’alto in basso soddisfatto di quello che aveva fatto, si era ritrovato a pronunciare parole sprezzanti verso quella gang che si era dato la pena di creare una volta.

Però, nello stesso momento in cui quel “che incapaci” era scivolato via fra le sue labbra, qualcosa si era malignamente insinuato nella sua mente.

 

E adesso?

E adesso… cos’è che dovrei fare?

 

«Perciò, aiutarti non è qualcosa che—»

«Ho capito, ho capito.» lo interruppe prima che Mikado si perdesse in un tentativo di spiegargli quello che intendeva, e che aveva già afferrato.

Sentendo quelle parole il più grande tacque, ancora poco convinto.

Aoba si alzò, prendendo il contenitore del bento con la mancina: «Non preoccuparti comunque, senpai. Va tutto bene, troverò il modo di impararla quella battuta!» assicurò, tornato in un lampo – troppo veloce per apparire naturale o sincero – l’Aoba che con Mikado-senpai sembrava un semplice kohai con, perché no, una certa ammirazione per il compagno più grande.

O una vera e propria adorazione.

Notando il piccolo sorriso che Mikado gli rivolse azzardò, quasi a volersi prendere gioco di tutti i pensieri e le considerazioni fatte fino a quel momento, e delle parole rivolte a sua madre.

Allungò una mano e scompigliò con falso fare saccente i capelli del moro: velocemente, senza nemmeno rendere il contatto effettivo insinuando le dita fra i capelli in un tipo di confidenza che in fin dei conti non avevano davvero.

Si sarebbe potuta dire più l’imitazione o l’ombra di quel gesto che sua madre gli aveva sempre rivolto.

Però, dopotutto, non era un inizio?

 

«È un gesto d’affetto, Acchan.»

 

«A dopo, senpai!» si limitò a pronunciare come congedo, sparendo in breve dietro l’angolo e dalla vista di Mikado che ancora seduto si era limitato ad alzare una mano a mezz’aria come per fermarlo senza però riuscirvi.

Sospirò, abbozzando un sorriso: forse, si disse, lui era semplicemente un po’ troppo apprensivo ed incline a preoccuparsi un po’ per tutti, sì.

«Mh?» fece, senza un significato particolare, notando il copione ancora sul gradino. Allungò una mano per prenderlo, aperto così com’era in corrispondenza del segnalibro.

Sbirciò il titolo del racconto messo in scena, ma non gli disse nulla. Diede uno sguardo veloce alle pagine su cui era aperto, un’occhiata generica che divenne più precisa quando riconobbe delle battute segnate con la matita che catturarono irrimediabilmente la sua attenzione.

Era la parte della dichiarazione, notò.

Poco più sotto, tuttavia, delle battute segnate nello stesso modo lo portarono a leggere – non era un documento privato, dal momento che lo avrebbero messo in scena davanti ad un sacco di persone al festival della cultura.

Lasciò scorrere gli occhi sulla parte interessata e lo sguardo mutò in uno sorpreso.

Per Aoba, pronunciare quella frase, era davvero un ostacolo così grande?

 

“Cael ha la mia completa fiducia!

Egli è, dopotutto, mio amico e mai la tradirebbe!”

 

 

«Non è un problema di memoria.

È solo che non credo per niente in quello che devo pronunciare.»

 

 

 

 

Note e sproloqui

 

1 Kyudo: tiro con l’arco giapponese

2 tatami: pavimentazione giapponese

3 kohai: il compagno più giovane a scuola o sul lavoro

4 Yatsufusa: si tratta di un personaggio nominato da Aoba nella novel, che sembra essersi occupato di dare un nome alla gang dei Blue Square, paragonandoli (mente contorta, a mio avviso XD) a degli squali perennemente invischiati in fondali bassi che posseggono un piccolo territorio che difendono in tutti i modi.

 

 

Penso sia superfluo dire che questa oneshot non mi piace per niente .__.

Era nata per essere un’introspezione di Aoba con un teorico e leggero sfocio nell’AobaMikado e invece non so nemmeno io cos’è; oltretutto non mi piace nemmeno come IC di Aoba. E come struttura grammaticale.

No, nemmeno il titolo si salva alla mia critica.

…Insomma, ho fatto violenza psicologica per non cestinarla XD

Sperando comunque che possa essere una buona lettura (o una lettura non così pessima XP), vi lascio ai ringraziamenti :3

 

Un grazie a chi ha letto e commentato “Di quella maschera che scivola un po’”, nello specifico angelyuzu e ShAiW <3

   
 
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