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Autore: mery_wolf    28/06/2010    3 recensioni
Edward. Alfons. Un passatempo che sarebbe meglio non fare.
Una HeiEd. Perchè sì. Perchè l'ho sempre saputo che avrebbero regnato. (?)
[Per effe_95, mi conosce da così tanto che dovrebbe sapere che son capace di scrivere cose diabetiche :D]
Genere: Romantico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Alphons Heiderich, Edward Elric
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Misfortune and Fortune of a "Ghost"'
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Un Superstizioso

(Non per il Puzzle, per carità)

 

Non riusciva a dormire.

Era l’unica cosa che riusciva a pensare senza che la sua bile si contorcesse. Era l’unica cosa innocua, ma non abbastanza da lasciargli chiudere gli occhi.

Ripensava a troppe cose e spegnere anche solo per un attimo il cervello gli avrebbe fatto del male.

Quindi fissava la finestra chiusa, dalle imposte storte e mal resistenti.

Faceva caldo.

Che male avrebbe fatto aprire un po’ quella finestra che non sarebbe mai riuscita ad essere chiusa correttamente?

***

Sudava freddo come ogni volta che faceva un incubo.

Si era messo a sedere in un guizzo e solo dopo essersi accertato di essere nella realtà aveva aperto gli occhi. Pioveva a dirotto, e di certo Al non gli avrebbe permesso di farsi una bella doccia gelata all’aperto.

Certo che, per essere un’armatura, aveva più sensibilità del dovuto...

Si guardò attorno e rabbrividì per gli spifferi glaciali che venivano dalla finestra. Credeva che le gocce di sudore sulla nuca si potessero trasformare in brina.

La voglia di stringere qualcosa fra le braccia si fece schiacciante, immensa e temette che Al avrebbe potuto percepirla come una presenza.

Non avrebbe potuto stringere lui, la matassa di acciaio di cui era composto avrebbe di sicuro contribuito al congelamento del suo corpo.

“Non puoi restare con solo quella canottiera addosso, fratellone.” Sentenziò Alphonse, d’improvviso, senza voltarsi a guardarlo. “Poi ti ammali e dovrai fare le punture, per guarire.”

Si strappò l’elastico dai capelli e scosse la testa con veemenza. “Ma sta zitto, che non è vero!” sbottò, sentendosi un bambino a tutti gli effetti, quando afferrando il cuscino, se lo caccio in mezzo alle gambe incrociate e lo stritolò al petto con cattiveria. “Piuttosto, che cosa stai facendo, tu? Sembri assorto.”

Allungandosi, intravide sul tavolino tanti minuscoli pezzettini colorati, dalle forme irregolari.

“È un puzzle.” Lo informò, dopo una lunga pausa. Prese un pezzo con decisione e lo incastonò con un altro.

“Un che...?”

“Un puzzle: è un passatempo che serve a distrarti.”

“Ha l’aria di essere noioso.”

“Infatti ci vuole pazienza – è una cosa che ti è abbastanza estranea, vero? – e un mucchio di tempo libero.”

Pensò che sì, ad uno come Al sarebbe servito quel rompicapo. “...Già.” Fece una pausa, vedendo suo fratello che univa altri due pezzi in un atto silenzioso e solenne. “Dove l’hai preso?”

“Me l’ha dato il colonnello Mustang. Ha sentito dire che completarli porti sfortuna e allora non l’ha voluto più. Io, sinceramente, non sono così superstizioso.”

“Beh, ma non è assolutamente il caso di dire ‘non ho niente da perdere’, no?” rise senza entusiasmo.

Al si voltò verso di lui e si lasciò scappare un rumore simile ad un risolino. Edward si era sentito scoraggiato e allora tentò di cambiare discorso: “Cosa rappresentano tutti quei colori?”

“Se lo completi esce un paesaggio. È una novità, perché è una fotografia che puoi vedere crescere mano a mano.

Puoi aiutarti con l’immagine guida che c’è sulla scatola che lo contiene; io preferisco farlo da solo.”

Lo guardò a lungo e notò che, in tutta la nottata, aveva solo composto la cornice di un blu intenso. Forse c’era solo un immenso cielo, da costruire.

“È come capire com’è fatto il mondo.” Disse poi, dopo un lasso indefinito di tempo piatto. Edward, in piedi, credeva che non ci fosse più niente da capire. “E a te, che sei un tipo curioso, dovrebbe piacere anche.”

***

Si alzò dal letto lentamente, guardandosi attorno.

Frugò tra gli scaffali, nello sgabuzzino e persino nell’armadio di Alfons – doveva dire che si vergognava alquanto, a rovistare fra le sue cose.

Alla fine lo adocchiò, in cima all’imponente armadio, in mezzo agli scatoloni della vecchia roba: quello che cercava.

Fissò l’immagine giuda che ritraeva una spiaggia, il punto in cui le onde si mischiavano con quei granelli di composizione mista e poi l’orizzonte blu intenso, che si univa col mare tramite una striscia sottile di nebbia.

Edward lo portò sulla scrivania, lo aprì con serietà, rovesciando tutti i pezzi sulla superficie di legno scuro.

Provò un senso di smarrimento, perché beh... non sapeva da dove iniziare.

Ma, era o non era un tempo un passatempo per annullare tutti i pensieri? Non ci sarebbe stato gusto, se avesse saputo già come iniziare e come finire.

Prima di iniziare a dedicarsi completamente alla massa informe e colorata che lo aspettava sulla scrivania, aprì la finestra, lasciando entrare l’aria gelida: così, per soddisfazione.

 

Si era aspettato di entrare e sentire quel bel calduccio che lo accoglieva sempre, dopo che i fendenti glaciali del vento avevano provato il suo corpo, che pareva sensibile a tutto quello che era minimamente aggressivo. Invece, lo avvolse la stessa temperatura delle strade e per poco non sobbalzò, sorpreso.

Cercando di fare mente locale, per ricordarsi se aveva lasciato libero il passaggio a qualche spiffero, fece il suo ingresso nella camera che dividevano lui ed Edward e lo trovò lì... così... maledettamente ignaro, assorbito in modo assolutamente completo da... da cosa?

Avvicinandosi per scoprirlo, si rese conto che anche se i suoi piedi scricchiolavano sul pavimento, Edward era come diventato sordo.

Gli mise una mano sulla spalla, per evitare che fosse calamitata anche quella verso il basso e finalmente l’altro si risvegliò dal suo sogno ad occhi aperti. “Cosa fai?” gli chiese gentilmente interessato, ma avrebbe voluto cancellargli dalla faccia quell’espressione smarrita.

Respirò con fatica, tentando di calmarsi e lo vide rabbrividire. “È un... p...”

“Un?” lo incitò, e si mise a ridere della difficoltà che aveva Edward nel pronunciare il nome di tutti i pezzettini sparsi sulla scrivania.

“Pu... Pa... Pe... Argh, qualcosa che inizia con la P! Ecco.”

“Ah, vuoi dire un puzzle!” esclamò. Come se non avesse visto da sé di che si trattava...

“Sì, quello!” sorrise imbarazzato, anche se non c’era niente di cui imbarazzarsi.

Poi Alfons chiese: “Ma dove te lo sei andato a pescare?”

“Ehm, io, beh—credevo che...” balbettò qualcosa d’incomprensibile; Alfons capì la ragione di tutto quell’imbarazzo. Rise di nuovo, più forte, tenendosi una mano al petto.

“Ma cosa c’è da ridere, eh?!” sembrava che potesse rizzare i capelli come avrebbe fatto un gatto con il pelo. Le sue guancie avevano preso un colore vagamente più acceso del candore naturale del suo viso.

“Ed.” gli disse, per rassicurarlo. Voleva posargli una mano sulla spalla – guancia, petto, gamba, tutto, gli sarebbe andato bene tutto, tutto –, ma forse era troppo. Bisognava essere attenti, con quelli come lui: era come un animale selvaggio, mezzo addomesticato, e le cose le si doveva fare a piccoli passi, per abituarlo. Per convincerlo che quello sarebbe dovuto essere il suo nuovo habitat. “Guarda che questa è anche casa tua. Non mi arrabbio, sai, se tu frughi un po’ in questa vecchia catapecchia.”

Edward annuì, anche se poco convinto. Rabbrividirono entrambi e Alfons si accorse che la finestra era ancora aperta: la chiuse con urgenza e senza nemmeno che passò un minuto, l’altro starnutì.

Alfons si tolse il cappotto che non aveva osato sbottonare nell’ingresso, e lo poggiò sulle spalle di Edward, con lentezza. Poi gli diede una leggera pacca, sorridendo. “Faccio un po’ di caffè, sì?”

Ricambiò anche Ed, e mentre si allontanava in cucina, tentava di nascondere il timore che potesse trovare, un giorno, quello che lui cercava di nascondere. Quello che più cercava d’infilare nei calzini e nelle tasche delle camicie e più diventava gonfio, evidente, e straripava da tutte le crepe di quella vecchia casa.

 

Porgendogli la tazza bollente, si accorse che suo il cappotto grosso e scuro faceva sembrare Ed uno gnomo.

Un piccolo, adorabile gnomo dai capelli dello stesso colore che avrebbe avuto un tesoro dei pirati.

Voleva abbracciarlo per dimostrargli che sarebbe stato come una stufa a cui attaccarsi quando faceva troppo freddo.

Edward fissava i pezzettini colorati con rancore, mentre beveva lentamente il caffè. Alfons avrebbe semplicemente essere quel caffè che sfiorava le sue labbra.

“...Cosa c’è che non va?”

“È che non so come continuare. Sapevo già che bisogna prima completare i bordi, ma poi? Che si fa?”

Finendo tutto d’un sorso il liquido senza zucchero – si era scottato anche la lingua, che diavolo – gli si avvicinò e prese un pezzo a casaccio, con fare metodico.

Doveva contare anche il fatto che, quando si erano incontrati, Edward non sapeva per davvero come andare avanti... andare avanti a vivere, s’intende.

La parte certa con suo fratello l’aveva vissuta, era finita e non aveva più promesse da mantenere, cose da riportare indietro. E aveva avuto bisogno delle indicazioni di Alfons per continuare la sua vita; a volte gli sembrava che lo dovesse accompagnare passo per passo.

...E, sinceramente, non gli dispiaceva così tanto.

Ragionò sopra il pezzetto con tre punte ed una rientranza, poi lo incastonò ad un altro e vide che combaciarono perfettamente. Edward sorrise come un bambino, strabiliato da quello che poteva sembrare un gesto da poco, ma che per uno come lui era senz’altro qualcosa di straordinario.

“Ehi, ma come hai fatto?”

Gli occhi d’oro liquido sembravano raggiungere i mille mila gradi centigradi, e lui si sentiva le ginocchia sciolte in due piccoli budini tremolanti. Pensò che quell’occhiata gliel’aveva rivolta poche volte.

Poteva dirgli che aveva fatto quel puzzle miliardi di volte e quindi sarebbe stato come un mago che svela il suo trucco, si sarebbe sfatato in quattro e quattr’otto.

Preferiva fargli credere quello che voleva e farsi guardare con quel minimo di adorazione che desiderava., però. E rise, abbagliato.

“Ci vuole solo un po’ di pazienza.”

Restarono in silenzio: Alfons si chiedeva se aveva insinuato qualcosa di sbagliato; Edward domandava al cielo come mai quella situazione fosse, in qualche modo, simile ad una già vissuta.

Poi starnutì ancora, più forte e fece volare la maggior dei pezzettini informi sul pavimento, tutti sparsi qua e là.

Mentre mugugnava qualcosa sulla potenza del suo starnuto, Alfons si calava a raccogliere qualche pezzo di cielo e un due di sabbia, ridendo e scatenando anche l’ilarità di Edward, che si rilassò sulla sedia. Si sedette a terra, incrociando le gambe, e mandando tutto all’aria.

Che gliene fregava: lui rideva e tanto gli bastava. Era anche meglio che raccogliere quei pezzi informi.

“Li lasciamo a terra, che ne dici?” ci scherzò Edward, inclinando la testa da un lato.

“Sì, che me ne frega.” Stai ridendo e tanto mi basta. “Mia nonna diceva che porta male completarli, quindi che possano rimanere a marcire.”

“...L’ho sentito dire anch’io. Ma, ehi, tu sei uno scienziato! Non dovresti essere così superstizioso.” Lo additò, poi prese due pezzi da terra e provò ad unirli senza nessun risultato.

“Io costruisco i razzi, è diverso.”

“Comunque sei un uomo di scienza, non dovresti credere a cose del genere.”

“E tu ci credi?”

Edward esitò un attimo, studiando una risposta evasiva. Poi si accorse che non aveva molte bugie da dire quindi si limitò ad un “Forse” secco.

Spesso si ritrovavano a guardare il cielo dalla finestra, assieme. Nello stesso istante. Alfons credeva che fosse una specie di segno del destino, come per dire: siete perfettamente assortibili. Non era così, purtroppo: il Destino non esisteva e, in più, aveva scoperto che Edward fissava il cielo per motivi ben diversi dai suoi.

Lui voleva solo trovare un modo per ritornare a casa, il cielo pareva l’unica via d’uscita, ecco da cosa differivano.

“Tu non ci credi nel Destino, vero?” gli domandò, d’un tratto.

“Certo che no. Sono io l’artefice di tutte le cose che mi accadono, che ne sia consapevole o meno.”

Si era toccato il braccio destro, nel dirlo? Non era riuscito a capirlo.

Alfons era arrivato a credere che il merito di vivere con uno come Ed era senz’altro di quest’ultimo. Lui voleva un mezzo per raggiungere il cielo e i suoi razzi erano quello più vicino.

Perché non riusciva anche lui, a sentirsi artefice della propria vita?

“E poi quelli che credono a superstizioni del genere sono tutte creduloni. E idioti, anche.” Sputò, con asprezza – a cosa stava pensando? Poi lo guardò e aggiunse: “Non voglio offendere tua nonna, eh.”

Si mise a ridere. “Oh, non preoccuparti. Mi piacciono le tue teorie.” E i tuoi capelli, le tue sopracciglia, le tue unghie e le tue labbra. Specialmente le tue labbra. “...E poi ho sempre creduto che mia nonna fosse un po’ fuori di testa, quindi è un’opinione più che fondata.”

“Io voglio finirlo.”

“Coraggioso, da parte tua...”

“Per il bene della scienza. Dimostrerò che queste dicerie sono assolutamente false.” Rise, divertito dal suo stesso comportamento. Quando mai avevo riso così tanto? “Gli Elric sono sempre stati, uhm, coraggiosi.”

Continuava a provare a far combaciare quei due pezzi, con testardaggine. Alfons se ne stava in silenzio, per testare quanto a lungo ci avrebbe provato ancora.

“Come mai mi sembra di star parlando ad un muro?” si voltò verso di lui, improvvisamente teso. “Te ne stai lì, zitto...”

Questa volta nessuno rise. Erano quei momenti – quelli così rari – che Alfons amava: ognuno sondava il silenzio dell’altro, in perfetta complicità.

Ma era sempre Edward, che non sopportava mai troppo a lungo quel peso, ed era sempre lui a spezzarlo: “A cosa pensi?”

Si alzò e lo raggiunse alla scrivania, prendendogli i due pezzetti che Edward si ostinava a unire senza che coincidessero. Glieli tolse dalle mani calde e poi le strinse tra le sue.”Pensavo ad una cosa...”

Solo un attimo, gli bastava solo un attimo per stingerli le mani. Un altro solo, un altro.

Lasciò la presa prima che Edward potesse respingerlo. Prese fiato. “Posso baciarti?”

Parve rifletterci a lungo, se dargli quel consenso.

Non era la prima volta che glielo chiedeva – e né la prima che lo avesse accontentato o scansato – e, beh, ci era abituato a quegli strani sfioramenti di labbra che gli attivavano la libido. Nel senso che non si stupiva più, ecco.

E sapeva anche che fosse un po’ sbagliato, perché loro erano due uomini, sì, e su questo non ci pioveva. Ma che gliene fregava, infrangere le regole era diventato quasi un hobby, quindi...

Sorseggiò il suo caffè, indugiandoci con le labbra e poi gli porse la tazza, ancora mezza piena.

“Tieni” annunciò, risoluto. “Un bacio indiretto.”

Alfons la prese dubbioso e posò solamente la bocca dalla parte in cui aveva bevuto Edward, senza staccare gli occhi dai suoi.

E lui ricambiava con quel cipiglio orgoglioso, e forse cercava solamente di essere serio per nascondere l’imbarazzo.

Non sorrideva mai, in momenti come quelli, nossignore. Era assurdo, col suo broncio adorabile.

Alfons non riusciva a staccare gli occhi da lui; sarebbe potuto finire il mondo e non l’avrebbe mai fatto.

 

Era venerdì e non aveva nemmeno avuto il tempo di uscire dall’edificio, che Edward era corso dal droghiere a comprare non sapeva bene cosa.

“Cosa sono?”

“Vitamine: sono stanco di vederti così fiaccato da una stupida tosse e allora se prendi queste ogni giorno, ti sentirai quantomeno meglio di prima.”

“Mh.”

Lo guardò sorpreso, forse perché non le aveva ancora prese dalle sue mani, quindi era come se le avesse rifiutate. “A-...!” lo raggiunse correndo sulla strada di ghiaia scricchiolante. “...Perché è una stupida tosse, vero?”

Alfons aspettò un momento prima di voltarsi. “Ma certo.” Confermò, sorridendo e raddrizzando la schiena.

Gli mise davanti al naso il sacchetto bianco che conteneva quello che, per Edward, sarebbe stata un’ancora di salvezza. “Prendile. Muoviti.”

Non bastavano delle vitamine per far andare via la Tubercolosi.

Ma le afferrò per puro piacere di soddisfare lui e la sua voglia di prendersi cura di qualcuno.

“Sì, ma prenditi un gatto, se vuoi fare così, perché io non sono il tuo animaletto domestico: so badare a me stesso.” Lo disse un po’ aspramente, con la nausea che lo torturava, anche se non era da lui rifiutare qualsiasi cosa provenisse da Edward.

“Non si direbbe.”

“È solo che la mia salute è molto precaria. Qui a Monaco fa un freddo cane, se non te ne sei accorto e-“

Si parò davanti a lui, tagliandogli la strada e guardandolo male. “Senti, a me non sembra giusto.”

“Giusto cosa?”

“Che tu debba essere così... ah, non lo so! Come se dovessi nascondere qualcosa.” La Casa era riuscita a spifferargli nel sonno di quello che cercava di eclissare in tutto quello che avrebbe potuto coprire il rumore della sua malattia. E lui non era riuscito ad impedirlo.

Erano arrivati sotto casa ad ora di pranzo, le strade erano svuotate persino dal vento gelido. Edward rabbrividì lo stesso e Alfons si sentì schiacciato dal peso di volerlo stringere a sé, senza motivo.

“Io ti ho raccontato tante cose di me. Ora tu devi fare lo stesso.”

Ma perché era così ossessionato dallo scambio equo, o qualunque altro nome avesse?

“Penso che non lo apprezzeresti.” Lo ammonì, pensoso.

Sventolò una mano in aria, come a scacciare una mosca fastidiosa. “Sono l’ultimo individuo in terra che potrebbe biasimarti, tranquillo!”

Alfons prende la chiave e apre il portone di casa. Entrando nell’atrio un po’ meno gelido, lui vuole aggiungere un’ultima cosa: “Non te lo chiederei se non m’importasse. Visto che m’importa te lo chiedo perché voglio sapere chi sei davvero, quando mi fai quelle domande.”

Chi era davvero...

Non voleva altro che scavarsi una buca e sotterrarsi immediatamente. Eppure prese un respiro profondo e si rassegnò. “Ricordi quella cosa che ho detto sulla mia salute?”

“Sì, che era precaria.” Annuiva come uno scienziato, ma ci avrebbe scommesso che, dentro di sé, era esaltato come un bambino. E non c’era nulla, nulla, di cui esaltarsi.

Lo capì subito, Edward, quando Alfons si arrotolò il calzino sinistro – chissà perché il sinistro – e vi mostrò un blister con delle pasticche che riuscivano a diminuire la tosse e, a volte, anche il sangue che usciva ai colpi di tosse.

Le odiava, quelle pasticche, dal primo momento che il dottore gliele aveva sventolate sotto al naso. Le odiava ancora di più, ora che Edward le fissava intensamente, a bocca aperta.

Forse la sua mente geniale stava ricostruendo ogni singolo indizio, dato dalla vita quotidiana. Aveva già capito che non gli restavano che qualche anno da vivere?

“Perché?”

Gli sembrò una domanda stupida. “Lo chiedi a me?”

“Perché solo ora me le fai vedere?” si corresse. E non seppe rispondere.

Però disse: “Adesso ti senti condizionato dai puzzle?”

“Non lo so. Forse.” Deglutì. Continuò a fissare quel blister, finché non lo ricacciò nel calzino. “Tu?”

“Un pochino, ma ho imparato a conviverci.”

“Ti sei arreso o sei ancora incazzato?”

“Mi sono solo rassegnato all’idea.”

“Ma vorresti far morire qualcun altro, al tuo posto?”

“No, in verità, non voglio che qualcun altro muoia per me. Mi va bene così, perché dopo aver conosciuto te, non c’è nessun’altra persona da incontrare e nessun'altra cosa da vedere.”

Era così sincero e così diretto che Edward non fece la minima fatica a credergli. Scommetteva di averlo lusingato: lo vedeva avvicinarsi impercettibilmente al suo corpo.

“Dici sul serio o è per farmi cadere ai tuoi piedi?” Non c’era niente da fare, non riusciva proprio a trattenersi da stuzzicarlo in quel modo.

“Sì, sul serio. E poi credo che te ne andrai, prima o poi, quindi sono felice di morire giovane, non decrepito e con un ricordo sbiadito di te.”

Gli stava dicendo tutte quelle cose? Oddio, eppure si era giurato di rinchiuderle a chiave in un piccolo cassetto della mente, convinto che fossero troppo...

Troppo esagerate.

Edward non negava che se ne sarebbe andato (prima o poi), ma sorrideva. Gli chiese: “E non hai nessun rimpianto?”

Alfons rispose fissandogli le labbra e il sorriso sul suo volto si allargò. “Oh, in questo caso dovresti sbrigarti. È stupido aspettare che succeda e basta. Sprechi solo tempo e questo tempo non potrai mai recuperarlo.”

Si trattenne dal correggerlo che no, il tempo non si recuperava nemmeno se avevi ottanta anni davanti, invece che cinque, al massimo. “Sbrigarsi a fare cosa?”

“A fare questo, ad esempio.”

Gli prese il cappotto, lo avvicinò a sé e fece cozzare le loro labbra. Con fretta, forza e in punta di piedi.

Si baciarono a lungo, in quell’atrio freddo e un po’ buio e quando Alfons aveva tentato di rispondere qualcosa di coerente, ma riuscì solo a dire “Non devi, se...”

Se...

Era quel “se” che domandava se lo stesse prendendo in giro, o se lo stesse facendo solo perché uno sfigato come lui dovrebbe avere un po’ di affetto.

Alfons non voleva assolutamente quelle cose. Aveva un orgoglio anche lui, dopotutto, preferirebbe ammazzarsi piuttosto che ricevere pietà da Edward.

“Dimentichi che sono l’ultimo che potrebbe storcere la bocca.” Ripetè le cose di prima con meno serietà di prima e lo baciò ancora, entusiasta. “Resta il fatto che tu non sia il solo a volerlo, Alfons. E non voglio sprecare tempo neanche io.”

“Davvero?”

“Davvero.”

Da quando era consapevole di essere malato, aveva sempre voluto maledire tutto, incazzarsi, bruciare i puzzle e bestemmiare. Glielo impediva il fatto che quello che lo aspettava rimaneva sempre scritto lì, davanti a lui.

E il fatto di non essersi mai sentito una persona normale, per tanti e tanti motivi, gli faceva sembrare così bizzarro il fatto di essere accomunato a qualsiasi essere umano, per quella impazienza così palese con cui continuava a baciare Edward.

Perché, beh, era una caratteristica che coglieva dappertutto: il pomeriggio, nei bambini che correvano al parco giochi o in chi doveva incontrare un amico che non vedeva da anni, alla ferrovia, o in qualsiasi altra persona. Gli sembrava bello essere comune a tutti gli altri, ma allo stesso tempo non voleva – si era abituato ad essere diverso, in fin dei conti.

Alla fine tanto valeva ammetterlo perché sì, Alfons aveva fretta. E allora poteva anche lasciarsi andare.


Note della pseudo-autrice della malora.

Ok. *coff* Questa è nata dopo aver visto cosa?: Il Curioso Caso di Benjamin Button. Dopo tanti pianti mi sono decisa a scirverla - e decidere di pubblicarla era un'impressa assai più ardua, ohssì XDD - perchè loro due sono bellissimi. è_é Questo non potete negarlo, visto che l'amore per loro due sta prendendo, pian piano, le briglie del fandom. \O/

E comunque, dai, ci voleva qualcosa un po' più felice della solita atmosfera angst. ;O;

E questa è dedicata ad effe_95 perchè lei ama Alfons quanto io amo Edward. XD <3 Ebbè, spucciateli, anche se questa cosa che ho scritto può sembrare insensata - lo è.

A voi gli insulti!

  
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