Ad personam:
Cara Melisanna, che piacere sentirti! Grazie mille per il link al concorso sullo steampunk, sto pensando cosa potrei portare. Cara Lux, in questa puntata sapremo qualcosa di più sui retroscena della brutale repressione, e su come Phobos inizia a considerare i suoi cittadini. Probabilmente il pugno di ferro non faceva parte dei suoi propositi iniziali, ma le cose stanno gradualmente peggiorando. Le avventure terrestri di Miriadel e le sue opinioni su quanto vi trova sono una delle parti cui sono più affezionato. Cara Silen, grazie mille per le recensioni al capitolo 9 e 10, e grazie per averli a suo tempo riletti (sarà un anno fa? O quasi?). Interessante l'origine di Cedric, vero? Mi sono scervellato un po' per costruire una storia coerente attorno a un personaggio che spicca per la sua diversità perfino tra l'eterogenea popolazione del metamondo. Questa volta c'è la continuazione. Miriadel e Alborn... due personaggi dal ruolo straordinario, che però costituiscono la coppia più normale di tutta la storia. Cara Blackmiranda, che bello, una nuova lettrice di questa storia! Sono felicissimo che tu l'abbia letta con tanta passione, e spero che resti all'altezza delle tue aspettative fin alla fine. Sì, i primi tempi di WITCH sono stati davvero memorabili. Cara Sol, ti ringrazio moltissimo per i tuoi commenti ai capitoli precedenti. Sono sempre interessato a sapere cosa si pensa della storia e dei suoi personaggi, anche se non condividi i valori etici che ho attibuito ai meridiani. Comunque ti invito a non giudicare frettolosamente i familiari di Jonatludr, nel seguito si vedrà quanto tengano a lui e quanto ciò costerà loro. Non sottovalutare ciò che ha fatto Phobos alla regina: imponendosi su di lei, l'ha delegittimata di fronte ai cittadini, mostrando quanto i suoi poteri mentali si fossero indeboliti, e questo può aver contribuito al disastro di Rivolta, in cui qualcuno ha osato chiamarla 'mummia'. Sì, l'esperimento di Jonatludr è scientificamente riuscito, e in futuro i suoi perfezionamenti gli assicureranno una fama... passata. Due parole su questo capitolo. In primo luogo vedremo da vicino due
personaggi che qualcuno avrà riconosciuto nella puntata precedente:
il grosso Vathek, fedele collaboratore di Cedric per i prossimi
undici anni, e che poi nel fumetto lo abbandonerà per schierarsi
con la resistenza a Phobos, e Frost il cacciatore, il potente cavaliere
del rinoceronte, che invece resterà fedele a Phobos fin oltre la
sua caduta, cercando di vendicarsi delle WITCH a Heatherfield. Per entrambi,
ho immaginato un passato di ufficiali nell'esercito regolare di Meridian.
Buona lettura
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Capitolo 11
Inchiesta
Meridian, palazzo reale, sala delle riunioni
“Si accomodi lì, capitano Vathek”.
Il gigante azzurrognolo si siede a disagio sulla poltroncina
a destra, troppo stretta per la sua mole. Gocce di sudore freddo gli scorrono
sul viso mentre osserva, uno per uno, i membri della commissione. Sente
i loro occhi penetranti, e non riesce ad affrontare a lungo quegli sguardi.
Il primo, un uomo tarchiato dalla pelle color terra,
è il colonnello Tracon, il suo comandante di battaglione. Gli ha
già detto che lo trasferirà ad altro incarico, ma cercherà
di evitargli di peggio.
Al suo fianco c’è il comandante della guardia
di palazzo, slanciato e dalla pelle verde. Il colonnello… Alborn, gli pare.
Il suo sguardo non sembra troppo interessato a lui, come se aspettasse
qualcun altro.
Il terzo è un giovanotto biondo, calmo e autorevole,
il cui viso rosato è interrotto da una banda rossa sugli occhi,
quasi una mascherina. Un Escanor, possibile? Ma chi?
Il quarto è un anziano alto e magro, dalla pelle
verde e le spalle curve da studioso, ma con uno sguardo di rabbia mal trattenuta
che, per fortuna, dirige rapidamente verso la porta. Deve essere Lord Senes,
capo del Consiglio dei Veglianti di Meridian.
Infine entra il suo coimputato: Frost il cacciatore, il
cavaliere del rinoceronte. Il viso duro, il passo deciso, lo sguardo diretto
e aggrottato: tutto in lui comunica sfida.
Si pone in piedi davanti alla commissione, dritto e fiero.
“Sedetevi lì, capitano Frost”, invita il misterioso
giovanotto biondo. “Per chi non mi conoscesse, io sono Lord Cedric. Allora,
sapete già tutti che nei disordini di ieri si sono contati trentatre
morti…”.
Mentre l’altro parla, i pensieri di Vathek si
perdono in quei momenti orribili. Questa notte, le immagini del disastro
non lo hanno lasciato un attimo, assieme ai suoi rimorsi: come ha potuto
lasciare incustodito Drakkar, il suo sarvak, per andare a questionare con
quei vigliacchi?
Restò stupito ed incredulo quando vide Frost
spingere il suo rinoceronte tra la folla: cosa stava succedendo?
Il vero terrore scoppiò con lo stridio aquilino
di Drakkar, che partì verso di lui senza controllo, aprendosi la
strada con la forza brutale delle sue tre tonnellate, dei suoi denti, dei
suoi artigli lunghi come pugnali, incurante del suo comando disperato:
“No, Drakkar, fermo!”.
Quando il bestione giunse davanti ai cacciatori, non
li considerò dei semplici ostacoli; nelle loro divise mimetiche
vide cenci di banditi, e nelle loro spade sguainate vide una minaccia.
In qualche lunghissimo istante, Vathek osservò
le fauci dell’animale chiudersi sul torace di uno di loro, sollevarlo agonizzante
scrollandolo a morte, poi scagliarlo via per avventarsi, in rapida successione,
su altri tre di quegli sciagurati, mentre la folla gridava in preda al
panico e fuggiva calpestandosi.
Restò incredulo a guardare mentre il sarvak,
mordendo e spintonando chi capitava, gli arrivava vicino e si avvolgeva
attorno a lui a proteggerlo col suo corpo, come una madre protegge i suoi
cuccioli.
Incapace di fare alcunché, Vathek si rese conto
del sangue che gli macchiava i vestiti: era dell’animale, ed usciva copioso
da numerose ferite da taglio; i suoi stridii, da fortissimi, si facevano
man mano più deboli.
Lui restò incredulo, accarezzando e chiamando
il suo fedele Drakkar finché la luce della vita si spense lentamente
nei suoi occhi gialli.
La voce dell’anziano Senes vibra di indignazione, richiamando
la sua attenzione al presente: “Questo disastro ha dei colpevoli. Le testimonianze
sono chiarissime: questo assassino - indica Frost - e i suoi tagliagole
hanno ucciso con piena intenzione decine di cittadini, molti dei quali
assolutamente pacifici”.
Il poderoso Frost si alza, ricambiando con il suo sguardo
d’odio quello del suo fragile ma deciso interlocutore. “A chi dici assassino
e tagliagole, vecchio? Ieri ho perso sette uomini, e non tutti sono stati
sbranati dal sarvak di quell’imbecille”, ringhia alludendo a Vathek con
un gesto sprezzante. “Non parlereste così se vi trovaste in viaggio
in qualche luogo dimenticato dagli Dèi: boschi o valichi di montagna
in cui imperversano i briganti”. Scuote il viso sdegnato. “Certo, forse
non avete mai sentito di briganti in queste vostre città civili,
dove sensitivi e poliziotti invisibili sorvegliano ogni pensiero e ogni
azione. Ma gli uomini non diventano buoni solo perché sono sorvegliati.
La feccia che non trova spazio qui se lo cerca lontano dai vostri mille
occhi e dalle vostre mille orecchie, nei boschi e sulle montagne, e vive
di rapina”. Riprende fiato, mentre nessuno osa interrompere. “Decine di
villaggi ci devono la loro sicurezza. Villaggi troppo poco importanti per
meritare la visita di un grande mago. Troppo poveri perché valga
la spesa di mandarci una centuria. Gli abitanti di questi villaggi non
ci chiamano certo assassini e tagliagole”.
Cedric interviene con calma: “ Capitano Frost, non sono
in questione i vostri meriti sul campo”.
Il cavaliere allunga un braccio possente verso la sua
destra in un ulteriore gesto di disprezzo. “E allora perché sono
qui a sedere fianco a fianco con quest’imbecille?”.
Imbecille, si ripete il gigante umiliato, perdendosi
di nuovo…
Quando Drakkar chiuse gli occhi per l’ultima volta,
Vathek tentò di riscuotersi: decine e decine di feriti agonizzavano
attorno a lui, mentre gli ultimi scontri proseguivano in una via laterale,
dove i cacciatori stavano inseguendo la folla che cercava di fuggire. Come
ha potuto succedere questo?
Coperto di sangue non suo, andò incontro al
suo drappello, rimasto all’imbocco della via dove lo aveva lasciato. Decine
di civili, terrorizzati dalla furia dei cacciatori, cercavano scampo presso
questi soldati, giurando a gran voce che non erano stati loro a levare
le spade, e accettavano senza proteste di distendersi a terra a faccia
in giù, restando immobili sul selciato lurido.
Cercò di riprendere un atteggiamento consono
al suo ruolo di capitano, e tentò con voce incerta di dare ordini,
che i suoi soldati ignorarono con fastidio.
Si rese conto lentamente che sei di loro non erano
lì; cercandoli, ne vide due distesi a terra o appoggiati al muro
in un vicolo vicino, e solo quando vide avvicinarsi dei barellieri lungo
la strada in salita realizzò che i suoi uomini erano stati investiti
dall’ultima carica di Drakkar, e ora ne davano la colpa a lui.
Si riscuote dai suoi pensieri mentre quell’Alborn chiede
al suo comandante: “Ho qualche domanda, Tracon: quali ordini avevi dato
al capitano Vathek? Lo avevi autorizzato tu a portare un sarvak in centro
città? E poi, il ruolo di comandante del drappello e quello di controllore
di un animale del genere sono compatibili?”.
Il comandante di legione risponde con imbarazzo: “Gli
ordini a Vathek… beh, qualcosa tipo ‘restate lì vicino e state pronti
a intervenire in caso di bisogno’. Immaginavo che lì ci sarebbe
stato qualche ufficiale della guardia cittadina a controllare la folla,
ma a quanto pare non c’era nessuno”.
Senes interviene: “Ci era stato ordinato di ritirare
le guardie cittadine, senza spiegazioni”.
Alborn annuisce. “Noi eravamo a difesa del palazzo”.
Si volta verso Cedric: sa benissimo che lui era in prima fila ad osservare,
ma forse non è prudente dirlo a tutti in questo momento.
Questo, infatti, riporta l’attenzione su Tracon: “E per
quanto riguarda il sarvak?”.
L’altro si stringe nelle spalle, a disagio. “Nelle operazioni
in campagna non ci aveva mai dato problemi, e ho pensato che sarebbe stato
un deterrente fortissimo… indubbiamente, il fatto che il capitano lo abbia
lasciato solo per questionare con la folla è stato un grave errore”.
“E’ stato imperdonabile”, ammette Vathek. “Io sono un
rozzo campagnolo, non so muovermi in città. Ma quando ho sentito
quegli insulti così volgari verso la dinastia, verso la Regina e
il Principe Phobos… mi dispiace, non ci ho visto più. Prima di allora,
non ho mai sentito parole meno che rispettose per la Luce di Meridian.
Sì, ho anche sguainato la spada, ma non la avrei mai…”.
“Grosso imbecille!”, lo interrompe Frost guardandolo
con odio. “Noi abbiamo cercato di tirarti fuori dai guai, e la tua belva
ha fatto a pezzi quattro dei nostri. E tu, a piagnucolare sul corpo di
quel mostro… Se non li avessi tenuti, gli altri ti avrebbero fatto pagare
con la tua inutile vita!”.
Senes si schiarisce la voce. “Capitano Frost, come diceva
che vi chiamano, in quei villaggi sperduti?”.
“Tu!!! Vecchio…”.
“Signori, basta!”, interrompe con decisione Cedric. “Capitano
Vathek, capitano Frost, ci siamo già fatti un’idea chiara delle
vostre posizioni. Voi due potete ritirarvi”.
“Sissignore”. Frost si alza deciso, ed esce marziale
dalla stanza.
Più lentamente, anche Vathek saluta percuotendosi
il petto in una moscia parodia di saluto militare, per poi andarsene a
spalle curve.
Quando è uscito dalla riunione, il gigantesco ufficiale
azzurrino è l’ombra di sé stesso. Forse dovrebbe dimettersi,
tornare nella fattoria dei suoi a fare il contadino…
L’uomo dal viso crudele e dai lunghi capelli biondi si
volta verso di lui per un’ultima occhiata rancorosa: “Io tornerò
tra i miei cacciatori e le mie foreste, lontano da questa città
ipocrita che si autodefinisce civile. Ma tu sei finito, incapace! Spero
che non ti facciano più alzare il culo da dietro una scrivania…
capitano Vathek”, finisce con disprezzo.
Dopo che ha sceso lo scalone, i suoi passi irati risuonano
ancora per qualche secondo, chiusi da un sonoro ‘…fanculo’ forse diretto
alle sentinelle dell’ingresso.
Avvilito, il gigante azzurrino si incammina giù
per il grande scalone, quando si sente richiamare dall’alto. “Capitano
Vathek?”.
Il giovanotto biondo dal fare autorevole gli sta sorridendo.
“Lord … Cedric? ”.
“Vorrei parlarti, mentre scendiamo le scale”. Lo raggiunge
senza fretta. “Il tuo comandante mi ha detto che sarai trasferito. Sai
già dove sarai assegnato?”.
“No, signore”.
“Credo che faccia male a rimuoverti: sbagliando si impara,
e tu ora sei l’unico che non ripeterebbe più questo errore”.
“Grazie, signore, ma temo di aver perso ogni fiducia
dei miei uomini, e per un ufficiale questo è tutto”.
Cedric annuisce comprensivo. “Ieri ti ho osservato dall’alto
di un tetto. Nonostante tutto, una cosa mi è piaciuta molto: il
coraggio con cui hai difeso il buon nome della dinastia. Anche il principe
Phobos lo ha notato”.
“Davvero?” chiede incredulo.
“Per questo, noi crediamo che tu possa diventare un uomo
di fiducia per nuovi incarichi”.
“Fiducia…” ripete il gigante, trasognato, “Darei tutto
me stesso per essere all’altezza”.
“Proprio ciò che cercavo” risponde soddisfatto
Cedric mentre arrivano nel grande atrio. “Da questa parte” dice indicando
la scalinata, più modesta, che porta verso il piano seminterrato.
“Dove stiamo andando?” chiede Vathek incerto. Il palazzo
reale è del tutto nuovo per lui.
“Nel mio ufficio” risponde dirigendosi verso una porticina
che, al tocco del suo dito, si apre da sola. Al di là, una ripida
scala a chiocciola si inerpica verso l’alto.
“Dev’essere un ufficio… ben nascosto”, bofonchia il gigante
dubbioso, stringendosi per passare nel vano tutt’altro che spazioso.
“Sì e no. Ci siamo passati davanti: è esattamente
sotto la sala delle riunioni, due piani sotto la sala del trono”.
“Ma allora perché…”.
“Per non dare nell’occhio” risponde Cedric arrivando
finalmente a un’altra porticina metallica in cima. “Il nostro lavoro si
svolge nell’ombra. Io sono il comandante dei Servizi Segreti della Luce”.
“Oh!”.
La porticina di ferro si spalanca da sola, rivelando
un breve corridoio disadorno su cui si aprono quattro altre porte, sempre
metalliche.
Cedric dischiude una di queste toccandola con un dito,
e lo precede dentro la stanza, sedendosi ad una grande scrivania avvolgente.
“Accomodati lì, Vathek”.
“Grazie, Lord”. Si siede su una poltroncina, guardandosi
attorno. La stanza è tappezzata di armadi chiusi metallici; una
bacheca blindata espone, in buon ordine, decine di grossi cristalli tutti
uguali che sembrano pendenti da lampadario, e quella che sembra una collezione
di strani strumenti con impugnature di legno e canne di metallo nero. “Che
cosa sono?”.
“I cristalli sono gemme di memoria. Quelli sotto sono
cimeli della Terra che appartenevano al mio predecessore. Mi sono installato
qui da poco, e non ho ancora cambiato niente”.
Il gigante annuisce. “Volete sapere qualcosa di più
su di me, lord Cedric?”.
Lui scuote il viso. “Non serve. Conosco già la
tua storia”.
“Come?” chiede incerto.
“Te lo spiegherò quando verrà il momento
giusto” risponde con un sorrisino enigmatico. “Tanto per curiosità,
hai già sentito parlare di me prima d’ora?”.
L’altro ci pensa un attimo. “Ho già sentito il
nome Cedric da un commilitone, ma non riferito a voi. Mi è stato
descritto come un grande uomo-serpente dai poteri spaventosi”.
“Sono sempre io” rivela compiaciuto, “E’ una delle mie
possibili forme, forse quella che mi è più cara”.
Il gigante resta sbalordito. “Ma… questo che avete non
è il vostro vero aspetto?!?”.
“Anche questa è una delle mie forme”.
La rivelazione è accolta con un silenzio stupefatto.
“Sorpreso? Se lavorerai per me, non ti dovrai meravigliare
più di niente”.
“Ma… scusate l’ardire… Lord Cedric è il vostro
vero nome?”.
“E’ quello che uso sempre”, risponde con indifferenza.
Poi, con un’ombra; “Molto tempo fa mi chiamavano con un altro nome, ma
ora non lo ricordo più”.
Dopo un attimo di silenzio apre un cassetto, estraendone
carta, penna a pennini e un calamaio. “Tornando all’accampamento per raccogliere
le tue cose, consegna questa al colonnello Tracon. Accertati che sia solo
con te quando la legge, e poi che la bruci immediatamente”. Scrive velocemente
e con precisione anche mentre parla. “Non raccontare a nessuno ciò
che ci siamo detti: limitati a lamentarti che sei diventato il galoppino
di un burocrate di palazzo, con tono abbastanza annoiato da scoraggiare
ogni domanda”. Dopo una passata con un tampone assorbente, ripiega la lettera,
la inserisce in un’anonima busta grigietta e la porge a Vathek. “Và,
e dà l’ultimo addio alla tua vecchia vita”.
Appena la porticina metallica si è richiusa alle
spalle del gigante e Cedric pensa di essere rimasto solo in ufficio, una
voce femminile accanto a lui lo sorprende. “Ma quello era il grosso idiota
di ieri!”.
Accanto a lui, non vista prima, c’è una donna
con le braccia conserte.
“Ehi, Miriadel! Non t’avevo notata neanch’io! Stai diventando
sempre più brava”.
“Grazie. Ma perché hai assoldato quel bestione?
E’ vero che abbiamo perso due uomini ieri, ma erano di tutt’altra pasta”.
Cedric prende tempo prima di rispondere. “Miriadel, i
tempi stanno cambiando, lo sai anche tu. Una volta il principale requisito
degli agenti era l’attitudine ai poteri. Dopo le defezioni che abbiamo
subito, questi passano in secondo piano, dietro alla lealtà”. Indica
verso la porta da cui Vathek è uscito. “Mezz’ora fa quell’uomo aveva
distrutto la sua carriera e perso ogni fiducia in sé. Io gli
ho dato una nuova fiducia e un nuovo scopo. E’ sufficiente per essere certi
della sua obbedienza”.
Poco dopo, nuovamente solo, Cedric trova finalmente il
tempo per perdersi nei suoi pensieri. Le domande di Vathek gli hanno smosso
ricordi lontani, confusi, sepolti.
Non ricorda il suo nome originale: lo ha voluto dimenticare.
Apparteneva ad un esserino minuto dal torso di bambino e dal bacino di
serpente, un disgraziato rifiutato dalla sua stessa madre, considerato
un mostriciattolo anche in un mondo dove la parola ‘umanità’ è
intesa in modo così estensivo da aver quasi perso ogni significato.
Ricorda vagamente che, per tutta la sua infanzia,
si trascinò sulla coda e sulle mani, leggendo il mal celato disprezzo
anche nel sorriso forzato della brutta donna dal cuore d’oro che gestiva
l’orfanotrofio. Sa vagamente che gli davano appellativi umilianti, ma non
ricorda più quali fossero, come non ricorda più quali scherzi
crudeli gli abbiano amareggiato i giorni e le notti.
Una notte, qualcosa cambiò. Dopo l’ennesima
crudeltà, strillò ad un compagno di andarsene all’inferno,
con tutta la convinzione e il rancore accumulato in quei pochi anni. Ricorda
ancora, ed è il suo primo ricordo chiaro, di quando lo sguardo di
costui si fece vuoto ed uscì lentamente, come in trance, dalla camerata.
Non gli è chiaro cosa successe poi, ma quel bambino scomparve dalla
sua vita per sempre.
I compagni presero a temerlo: gli scherzi si fecero
rari, ma sempre più crudeli e assolutamente anonimi; in qualche
modo, però, lui riusciva a dare un volto e un nome ad ogni azione,
e altri degli aguzzini scomparvero.
L’alone di paura che si era creato attorno a lui era
tale che, una notte, i suoi compagni cercarono di soffocarlo nel sonno.
Ricorda che si svegliò con un cuscino premuto con forza sul viso,
e mani che bloccavano le sue esili braccia e la coda. Quando la fame d’aria
si fece insopportabile, sentì il fuoco nei polmoni e nel petto.
In quegli istanti disperati fece appello alla sua volontà, e qualcosa
accadde. Il suo corpo crebbe in pochi secondi, ma non ebbe neppure bisogno
della sua nuova forza per liberarsi: mentre attorno a sé vide vesti
vuote afflosciarsi a terra, i pochi che non gli avevano messo le mani addosso
si ritraevano terrorizzati. Anche loro avrebbero pagato, se la donna dell’orfanotrofio
non fosse accorsa a implorarlo.
Era incredulo di essersi liberato delle stimmate dell’impotenza,
anche se non da quelle della mostruosità. Il suo corpo, cresciuto
in pochi istanti, era grande, forte, a suo modo perfino bello. Era come
avrebbe voluto essere ogni volta che qualcuno di quei due gambe lo umiliava!
Prima dell’alba di quella notte di riscatto, un uomo
si materializzò nell’orfanotrofio in un tenue alone di luce. Il
suo sguardo autorevole non mostrò nessuna paura, nessuna esitazione.
Si presentò come Lord Luksas, un fiduciario della Regina venuto
dalla lontana capitale. Parlò per ore con lui delle sue paure e
dei suoi rancori. Poi gli disse che gli era data la possibilità
di rifarsi una nuova vita, cancellando il suo orribile passato, se avesse
voluto mettere le sue capacità al servizio della Luce di Meridian
e accettare la sua guida.
Accettò subito, entusiasta di questi insperati
riconoscimenti.
Il quel momento, Lord Luksas gli diede il nome di
Cedric, facendogli dimenticare quello vecchio, e sfumando i suoi ricordi
precedenti con un pietoso velo di oblio.
Passò giorni e giorni con lui in un luogo sotterraneo
e segreto, alternandosi con altri istruttori per educarlo al controllo
delle passioni e all’etica del Servizio.
Cedric non volle mai abbandonare del tutto il suo
nuovo aspetto, per quanto spaventoso fosse; era quello che lo aveva salvato,
che lo aveva riscattato da una vita che non valeva la pena di vivere.
Provò dapprima, senza convinzione, a trasformarsi
in un banale ragazzo verde con la coda; questo aspetto non lo entusiasmava,
anche perché era ordinario come quelli dei suoi compagni di orfanotrofio.
Oltretutto, abituato a strisciare e trascinarsi sulle
mani, era completamente privo delle concatenazioni motorie per restare
in piedi o per camminare, così che per mesi dovette aiutarsi con
stampelle, come un invalido.
La svolta avvenne quando Lord Luksas lo fece assistere
ad una cerimonia pubblica nella capitale, e lui vide da vicino la famiglia
reale. Erano nobili, distinti… bellissimi! Ecco un aspetto che avrebbe
sfoggiato con soddisfazione!
Cambiare ispirandosi a loro fu facile, dopodichè
raddoppiò i suoi sforzi per camminare e curare il portamento, e
alla fine fu coronato dal successo.
Passò più di un anno prima che Lord
Luksas lo ritenesse pronto per essere presentato ai reali.
Ricorda il sorriso caldo di Adariel, la Luce di Meridian,
che si appassionò subito alla sua storia. Più freddo fu il
principe Phobos, che obiettò subito quanto fosse sconveniente che
qualcuno estraneo alla dinastia assumesse un aspetto fasullo simile al
loro. Dopo qualche discussione, la banda rossa sugli occhi fu considerata
un compromesso accettabile.
Però Cedric non smise mai di amare, al disopra
di tutte le altre forme che il suo lavoro di agente segreto lo costrinse
ad alternare, quella che segnò il giorno del suo riscatto.
Meridian, palazzo reale, sala delle riunioni
Ancora seduti al tavolone, il comandante Alborn e il colonnello
Tracon abbassano gli occhi, imbarazzati: hanno ben capito perché
Cedric glissasse il discorso ogni volta che si avvicinava al punto di chi
aveva dato l’ordine di ritirare le guardie cittadine dall’abitato.
Anche se il loro rimbombo si è esaurito, le ultime
parole scandite da Lord Senes prima di lasciare la sala pesano ancora nell’aria.
Le proteste del Capo del Consiglio dei Veglianti per
questa decisione erano assolutamente fondate, ma ha osato troppo: è
ovvio che l’ordine è partito da Phobos, e ogni tentativo di rimarcare
la cosa è una critica al principe.
E’ probabile che, nei prossimi giorni, al Consiglio dei
Veglianti verrà imposto un nuovo capo.
Alborn rompe il silenzio per primo: “Andiamo via anche
noi?”.
L’altro si stiracchia in modo molto poco militaresco:
“Ancora qualche minuto, vecchio mio. Io sono abituato a caserme e accampamenti,
e non ho spesso l’occasione di sedere su poltrone così comode”.
Decisamente informale, pensa Alborn, un po’ indisposto
nel sentirsi chiamare ‘vecchio mio’ da un parigrado di vent’anni più
anziano. “Permettimi una domanda, Tracon. La situazione nelle campagne
è davvero così tragica come l’ha descritta Frost?”.
Il rustico colonnello riflette un attimo, prima di rispondere.
“Dipende dalla zona. Fuori dalle città il brigantaggio è
una realtà da sempre, ma una volta eravamo affiancati da più
maghi di oggi, e di più alto livello. In un’occasione, all’inizio
della mia carriera, vidi all’opera lo stesso Principe Phobos”.
“Davvero?” chiede incuriosito Alborn, “Raccontami!”.
L’anziano ufficiale sembra spremere un po’ le meningi,
poi inizia: “Era alle pendici del monte Jalfus. Lì, i primi allarmi
di brigantaggio risalivano a tre mesi prima, poi si erano intensificati
gradualmente fino a diventare intollerabili. Noi avevamo circondato il
monte, e avevamo preparato una tenda per l’arrivo di un personaggio illustre.
Ad un certo punto, si materializzò lui. Lo ricordo, anche nell’aspetto,
più giovane di adesso. Ci fece qualche domanda e poi si ritirò
nella tenda, lasciandoci l’istruzione di non disturbarlo. Meno di un’ora
dopo, i briganti cominciarono ad uscire dal bosco, uno per uno, come privi
di volontà. Noi ci limitammo a metter loro i ceppi, e portarli
ai lavori forzati in una cava di pietra”.
Alborn annuisce, impressionato. “E poi?”.
“Fu l’unica volta che vidi in azione un personaggio di
tale livello. In seguito, i maghi inviati ad aiutarci usavano metodi diversi:
alcuni controllavano mentalmente sciami di vespe, altri lupi o sarvak.
Questi snidavano i briganti, ma poi catturarli era affare nostro, armi
alla mano. E poi, pian piano questi maghi si sono fatti più difficili
da trovare, tanto che in diversi casi ci siamo dovuti arrangiare, rastrellando
i boschi da noi e talvolta subendo perdite”.
Alborn storce il viso. “Come mai, sempre meno maghi?
Eppure, a parte la famiglia Escanor che rischia l’estinzione, in città
ci sono maghi per tutti i gusti”.
Il colonnello sbotta, gesticolando: “In città,
hai detto bene. Ho visto la pubblicità di guaritori, indovini, ispettori,
telepati, giudici, psicoterapeuti, esperti in teletrasporto o trasmissione
dei pensieri, e ho pensato: ma perché non prendono anche uno solo
di questi signori, anche il più scarso, non gli fanno studiare le
magie che servono a noi, e non lo mandano in permanenza presso la nostra
legione?”. Lascia cadere le braccia. “Non so quale sia il prestigio di
cui godono a Meridian le guardie di palazzo, ma nel caso delle truppe da
campagna non sembra molto maggiore di quello degli accalappiacani”.
Alborn resta imbarazzato per questo sfogo: da parte sua,
non ha mai sentito questa mancanza di considerazione sociale. Forse dipende
dal fatto che le guerre, e con loro il concetto di patria, sono spariti
da milleduecento anni?
Il colonnello continua, amaro: “E poi ci hanno chiamati
qui a Meridian, in un’operazione di ordine pubblico. All’inizio non capivo
se c’era qualche spaventosa emergenza, o se ci avevano in qualche modo
rivalutati. Quasi lo speravo. E poi… va beh, è stato un bel disastro,
e noi abbiamo fatto la nostra parte in questo”. Si stringe nelle spalle.
“Io immaginavo che avremmo dovuto supportare le guardie cittadine, invece…
E’ chiaro a tutti: noi eravamo impreparati per questo compito”.
Un po’imbarazzato, Alborn preferisce tornare sul discorso
originale. “E cosa mi racconti di Frost? E’ davvero indispensabile come
dice?”.
Tracon si stringe nelle grosse spalle. “Tante volte il
costo di muovere un centinaio di soldati regolari e qualche bestione in
zone impervie supera il valore dei danni che i razziatori possono fare.
Così, in questi luoghi vengono inviati Frost e il suo gruppo, grazie
alla loro abilità nel muoversi inosservati, di notte. Sono indipendenti
dal supporto logistico di una grande unità militare e, a quanto
pare, molto efficaci”. Con una smorfia ambigua, prosegue “Nessuno è
andato mai a indagare sui loro metodi, ma scommetto che non sono migliori
di quelli dei briganti che sono chiamati a combattere, per quanto lui si
sia detto un salvatore della povera gente”. Scuote piano il viso. “Mi sono
meravigliato moltissimo di trovare anche lui in città. Era il meno
adatto per questo lavoro, e si è visto”. Si alza, stiracchiandosi
rumorosamente. “Andiamo a berci qualcosa di forte, Alborn. Questi ultimi
due giorni sono stati davvero da dimenticare”.
Meridian, palazzo reale, sala del trono
Non è ancora mezzogiorno, ma già il principe
Phobos trova insopportabile restare nella sala del trono, sia pur solo,
sia pur a porte chiuse, anche se questa è il simbolo della regalità
che lui desidera al disopra di tutto.
Da qui ha seguito, con le sue percezioni extrasensoriali,
tutta la riunione che si è svolta al piano di sotto, e anche i suoi
strascichi. Ora che è finita, non è più necessario
rimanere.
Purtroppo, questa splendida sala che sovrasta la città
è troppo esposta ai brontolii mentali della feccia, che tra ieri
e oggi lo hanno assediato. Già da tempo gli pesano i mille pensieri
inespressi, servili e meschini, dei suoi interlocutori di ogni giorno,
pensieri che la sua mente superiore non può far a meno di percepire.
Però, quest’oggi novantamila mugugni si sono
fusi in un unico brontolio rancoroso, opprimente e onnipervasivo come non
mai.
Lo disapprovano, lo sente. Tutti pensano che la colpa
di ciò che è successo sia sua, ma non osano dirlo apertamente
per vigliaccheria. Ma come restare indifferente a quelle ingiurie inaudite?
Lui, un ladro? Sua madre, una mummia? No, anche solo ascoltare quegli insulti
senza reagire è un crimine, e quasi nessuno, in quella masnada,
ne aveva preso le distanze. Perché mai lui avrebbe dovuto fermare
le mani che si sono mosse a vendicarlo? Perché avrebbe dovuto impedire
che, alla meschinità senza precedenti di quelle parole, facesse
seguito una reazione altrettanto senza precedenti nella città?
Eppure sono ben in pochi a vederla così. Uno
è Frost, quel coraggioso cavaliere, braccio della sua giustizia.
Merita una decorazione. Ma chi altro? Perfino i suoi ufficiali pensano
che abbia fatto male a ritirare la guardia cittadina per lasciare l’esercito
al suo posto. Ma che senso avrebbe avuto far sorvegliare dei cani da degli
altri cani? Da gente che avrebbe chiuso entrambi gli occhi pur di non colpire
parenti, amici e amici di amici?
Sua madre stessa non poteva essere più esplicita,
nella sua penosa scenata. Va bene che ormai è vecchissima e quasi
pazza, ma non si sarebbe mai aspettato quella sconfessione umiliante dopo
che lui aveva fatto difendere anche il suo onore.
Potrebbe allontanare da sé almeno una parte
di quelli che alimentano tutto questa cappa di rancore. Basterebbe far
sgomberare una parte di Meridian alta, la zona attorno a piazzale Sottocastello,
dai suoi abitanti attuali per alloggiarci i militari delle unità
venute da fuori. Non aveva mugugnato, quel colonnello Tracon, su quanto
poco si sentissero considerati? Questo potrebbe essere un modo per ingraziarseli,
alloggiandoli nella zona migliore della città.
Naturalmente questo sarebbe solo un palliativo per
creare un cuscinetto di pensieri fedeli e soddisfatti contro il mugugno
insopportabile della plebe.
Però in fondo, anche se portano le insegne
degli Escanor e seguono i suoi ordini, anche i militari non sono veramente
diversi dalla feccia che popola questa città imperfetta, un’accozzaglia
di esseri così eterogenei che non sembrano neanche umani.
Ma per il momento, con Adariel in vita, preferisce
non fare niente di tutto ciò. Lo ha sconfessato, lo ha maledetto,
ma in fondo è sempre sua madre. E non durerà ancora a lungo.
Phobos si alza dal trono: non c’è motivo di restare
ancora così esposto a quel ribollire di pensieri rancorosi quando
ha a disposizione un luogo molto più privato, l’unico che senta
veramente suo.
Con un luccichio accompagnato da un rimbombo profondo,
Phobos si teletrasporta nel folto del giardino.
Qui il greve mugugno è molto più lontano
dalla sua mente.
Si guarda attorno: nessuno. Il giardiniere è impegnato
da tutt’altra parte. Dovrà vietargli l’ingresso a quest’angolo di
paradiso durante tutto il giorno, non solo dopo il tramonto.
Ora è davvero solo con i suoi fiori profumati,
gli alberi maestosi, i rampicanti fluenti e il meraviglioso mormorio della
cascatella.
A volte sogna di ripulire la città da quella
masnada schifosa che la abita, per sostituirla con esseri nobili. Esseri
leggiadri e discreti, belli come le piante che ha tutt’intorno. Esseri
che non nascondano i loro veri pensieri dietro parole false e vigliacche.
Esseri per cui pensare e parlare sia la stessa cosa: un sussurro, un mormorio.