Nader siede in silenzio
sulle mie ginocchia e guarda fuori dal finestrino con aria disinteressata. Una
signora bionda, aggrappata al palo di sostegno, poco distante da noi, ci guarda
male. Disapprova la mia mano sulla gamba di Nader o forse la sua pelle
olivastra, non so. Non m'importa.
«È strano sentirti tacere.» sussurro al
suo orecchio sporgendomi in avanti fino a che il mio petto non tocca la sua
schiena.
«Sono solo stanco, Pietro. Lo sai.»
Certo che lo so. È così dopo
tutte le partite. Non importa se vince o se perde. Esce dal campo sfibrato e
rimane tranquillo per un po'. Ma di solito non tace.
«Ci guardano tutti
male.» commenta poi. Ad alta voce, come fa sempre. Alcuni, che fino a pochi
secondi prima avevano gli occhi fissi su di noi, si voltano in fretta in un
altra direzione. L'autobus prosegue rombando la propria corsa e anche Nader
continua: «Che maleducati.»
«Ti guardano perché sei bello.» lo prendo in giro
soffiando piano sul suo collo.
Sorride e si lascia andare all'indietro. Si
appoggia a me e chiude gli occhi.
«No.» risponde tranquillo. «Ci guardano
perché io sono un ragazzo e sono seduto in braccio a te, che pure sei un
ragazzo.»
«E allora? Ti dà fastidio?»
«No.»
Argomento chiuso, allora.
Non c'è bisogno di aggiungere altro. Che guardino, se è quello che vogliono.
Dov'è il problema?
Nader si agita un po'. Si muove in fretta, si gira di
lato, appoggia la schiena alla parete dell'autobus, mi prende il volto con le
mani e mi bacia. Io ricambio e quando si allontana da me gli sorrido.
Sento
qualcuno che borbotta un Che indecenza, quindi mi sporgo di nuovo verso
Nader e stavolta lo bacio io. Ma questa volta con un po' di passione in più. Lui
ride contro le mie labbra e sta al gioco. Ma poi, dopo un po', si allontana e
mette su un cipiglio severo che mi ricorda tanto quello di suo padre.
«Sei
davvero un cattivo ragazzo, Pietro jan!»
«Tu ci sei stato.»
«Io
ci sto sempre.»
Ride di nuovo e dopo non si muove più. Non gli interessano i
commenti della donna bionda che si sta rivolgendo a un'altra passeggera e fa
notare la nostra incredibile mancanza di rispetto. Proprio in quel momento
l'autobus si ferma e sale una vecchietta tutta ossa con le sporte della spesa.
Si guarda un po' intorno, in cerca di un posto, ma nessuno si muove. Faccio per
chiedere a Nader di alzarsi, ma lui è già in piedi ed è già filato a recuperare
la nonnina. Le prende le borse e l'accompagna accanto al sedile su cui ero
sistemato e l'aiuta a sedersi senza sbilanciarsi per le brusche frenate
dell'autobus, poi poggia le borse a terra, vicino a lei.
«C'è gente incivile
a questo mondo, nay?» mi domanda dopo aver rivolto un sorriso alla
donna. «Nessuno che si alza per far posto a una signora anziana!»
Sento dei
movimenti da alcuni dei sedili alle mie spalle. Mi pare di sentire anche
l'imbarazzo di chi si sente chiamato in causa. Ottimo.
«La gente è
ignorante.»
«Sicuro. Non capisco proprio come si faccia a non sentirsi in
colpa.» Si rivolge alla signora e procede: «Prende spesso l'autobus?»
«Oh,
sì.» conferma lei con aria grave. «Ma nessuno ha più rispetto. Fanno finta di
non vedermi se mi fermo vicino a loro.»
«Tremendo.» Commento. Nader annuisce
e subito dopo prenota la fermata.
«Signora,» continua prima di avviarsi verso
le porte d'uscita «lasci perdere questa gente ignorante e se deve sedersi lo
chieda chiaro e tondo. Magari ascoltano di più.»
Non aspetta nemmeno una
risposta e si allontana. Io lo seguo, trascinandomi appresso il suo borsone. Non
so cosa ci tenga dentro ma pesa tantissimo.
«Spero che tua madre abbia
cucinato qualcosa di buono.» mi dice mentre camminiamo verso casa. «Sto morendo
di fame.»
«Un giorno o l'altro ci ridarai i soldi di tutto quello che hai
mangiato in questi anni?»
«Nemmeno per sogno!» esclama. Ride ancora.
«Non ne ho così tanti.»
Si rabbuia un attimo, riflette, poi mi guarda
serio e mi chiede a voce più bassa:
«Stai dicendo che sono
mozahem?»
«Non so se sei mozam, so solo che mangi
tantissimo.»
«Mozahem.» mi corregge con un sorriso. Si è rilassato
e adesso cammina guardando il cielo che si sta facendo scuro.
«Invadente.»
«Ah!» esclamo. Sì, me l'ha già detto qualche volta, ma io me lo
dimentico sempre. Lui e il suo maledetto farsi. Conosce solo qualche parola e le
ripete in continuazione, come se questo potesse aiutarlo a ricordare quella
lingua che non ha mai saputo. La madre, a quanto mi dice, che è nata a Kabul e
vive in Italia da più di vent'anni, non gli ha mai parlato davvero in farsi.
Solo qualche parola buttata qua e là, che lui però ha imparato e che ha deciso
di usare.
Mi fa infuriare.
«Parla in modo che possa capirti, Moretto!» gli
dico, stizzito.
«Ehi, non arrabbiarti.» apre le mani davanti al petto in
segno di resa e sorride. Sa che basta questo.
Quando arriviamo al condominio
sembra rinascere. Fa le scale a tre a tre e mi lascia arrancare dietro di lui.
Al settimo piano sono senza fiato, lui è fresco e riposato come se avesse
volato.
«Ti odio.» gli comunico ansimando.
«Non ci credo neanche un
po'.»
«Faresti bene a crederci.»
«Se mi odiassi non mi avresti baciato
davanti a tutti, nay?»
Lo dice mentre apro la porta e mio padre è
proprio lì davanti, e ha sentito tutto. Saluta entrambi con un gesto della mano,
afferra la borsa di Nader dalle mie mani e la poggia in un angolo.
«L'hai
baciato davanti a tutti per davvero, Pietro?» mi domanda sollevando un
sopracciglio.
Io annuisco, mi avvicino al divano e mi siedo con
malagrazia.
«Qualcuno, in autobus, commentava l'indecenza del nostro
rapporto.»
«Ah,» fa lui con aria comprensiva «sì, immagino che una
dimostrazione pratica del vostro affetto fosse il modo migliore per metterli a
tacere.» sbuffa e commenta a bassa voce: «Sei identico a tua madre.»
Ed è
sfortunato a dirlo nel momento esatto in cui lei esce dalla cucina, lo guarda
male e poi si rivolge a me.
«Ti sta facendo un complimento, credimi.» Si
volta poi verso Nader e continua: «Vuoi farti una doccia? La cena è pronta tra
mezz'ora.»
«Volentieri!» approva Nader. Trascina il suo pesante borsone
in bagno e allontanandosi fa un piccolo inchino a mia madre.
«Sei una donna
meravigliosa, Liliana.»
Mia madre annuisce con le labbra tese in un piccolo
sorriso e gli fa cenno di sbrigarsi.
«Davvero dicevano che la vostra
relazione è indecente?» mi domanda poi, accigliata.
«Sì.» rispondo con
leggerezza. Sono commenti che non mi fanno nessun effetto. Che dicano quello che
vogliono! Chi se ne frega.
«Alla gente piace parlare, Lilly.» cerca di
placarla mio padre, ma già è troppo tardi. «Lasciali dire, qual è il
problema?»
«Il problema è che non capisco come mai alle persone piaccia
commentare la sessualità degli altri. Cosa gliene importa, a loro, del sesso
delle persone con cui mio figlio va a letto?»
Ed era precisamente qui che
non volevo arrivare... Fa sempre un brutto effetto sentirle dire certe cose.
Anche perché, e la conosco e lo so bene, comincerà presto con la sua tirata
sulla naturalezza dell'omosessualità e tutte queste cose che mi ripete da quando
ho otto anni. E ancora non ha capito che, davvero, non m'importa di quello che
dicono gli altri.
«Non vedo come possa interessare loro se mio figlio bacia
un ragazzo o una ragazza. Cosa c'è di sbagliato? L'omosessualità dipende
da...»
«Da un insufficiente apporto di testosterone al centro
dell'accoppiamento, che si trova nell'ipotalamo, e che regola il sesso da cui
una persona sarà attratta.» recito alzandomi dal divano quando sento che Nader
ha chiuso l'acqua della doccia. «E dato che la frequenza dell'omosessualità è la
stessa della combinazione di capelli rossi e lentiggini è la stessa, non capisci
perché la gente si stupisce di due ragazzi che si baciano ma non di Pel di
Carota con la faccia piena di lentiggini.» M'interrompo e sbuffo. «Lo so, mamma,
e apprezzo il tuo interessamento.»
Mi dirigo verso il bagno e apro la porta.
Nader non chiude mai a chiave, anche se non è casa sua, e mi guarda con un
sorrisetto soddisfatto. È nudo e coperto di acqua che gocciola sul pavimento e
che asciugherà poi, come sua abitudine; tiene in mano l'asciugamano che si è
portato da casa e sembra essersi ripreso dalla partita.
«L'ho sentita parlare
di testosterone.» mi comunica mentre inizia ad asciugarsi. Mi siedo sull'orlo
del bidet, lo guardo e annuisco.
«Mi ha spiegato di nuovo perché sono gay e
perché non capisce come mai la gente si stupisce se ci vede mentre ci
baciamo.»
«Sai, io credo che sia un po' fissata. Che dici?»
«Le piace
affrontare il lato scientifico delle situazioni.»
«Sì.» annuisce lui
infilandosi i pantaloni. «Ma quando una mi chiede se voglio del monossido di
di-idrogeno...»
«È soltanto acqua. Ormai dovresti averlo imparato.» sbuffo.
«Lo sai che è fatta così.»
«Se tu dopo tre anni non hai ancora capito cosa
vuole dire mozahem, allora non vedo perché io dovrei sapere che il
monossido di di-idrogeno è acqua.»
«Tu hai dieci in chimica!» protesto
ancora, indignato. E ti rifiuti di passarmi i compiti, aggiungerei, ma
taccio perché so che una frase simile può guastargli l'umore per il resto della
giornata.
«Certo che ho dieci in chimica, mancherebbe anche che non fosse
così! Papà mi ucciderebbe e sai che è capace di farlo.»
Ma certo che l0 so.
Il suo terribile padre super-chimico, che lavora in una super-casa farmaceutica
americana e ritiene che io sia un super-rompiballe. Me l'ha detto miliardi di
volte.
«Sì, sì.» lo guardo mentre afferra la maglia pulita che si è portato
da casa e continuo: «Ma è mai possibile che ti ci vogliano ore per vestirti? Se
non ti sbrighi mia madre butta giù la porta e viene a recuperarti così come
sei.»
Mi lancia un'occhiata ammonitrice e chiude gli occhi.
«Mi riesce
difficile vestirmi se tu continui a guardarmi. E poi, non posso fare due cose
per volta.»
«Infatti.» esclama mia madre che, come supponevo poco fa, è
venuta a vedere che cosa stiamo combinando. «Il tuo cervello è programmato per
fare una cosa sola alla volta, dato che possiedi un basso numero di connessioni
fibrose tra i due emisferi cerebrali.»
Nader mi rivolge un'occhiata eloquente
e mia madre, purtroppo, la intercetta.
«È giusto sapere le cose come stanno,
Nader. Comunque, la cena è pronta. Sbrigati a vestirti, dai. Pietro, vieni
via.»
Obbedisco senza nemmeno provare a protestare, perché quando mi rivolge
quello sguardo deciso so che è meglio non contraddirla.
Trotterello dietro a
lei fino alla cucina, sperando che abbia cucinato qualcosa di buono.
«Pizza!» esclama Nader congiungendo le mani, estasiato, dopo averci
raggiunti. Si siede raggiante accanto a me, mio padre gli sorride e scuote la
testa.
«Allora Nader,» inizia mia madre dopo qualche minuto che stiamo
mangiando. Pronuncia Nader con quella sua r dal suono tondeggiante e marcato che
la contraddistingue sempre quando parla «come è andata la partita? Avete
vinto?»
Lui annuisce e fa per parlare, ma a me sembra davvero dispiaciuto di
dover abbandonare la sua pizza.
«Sì.» conferma. «Ma non ho giocato bene,
nay, Pietro?»
«Non molto.» ammetto io.
Nader annuisce.
«Sì,
infatti. Matteo il migliore in campo, direi.»
«Come sempre.»
«Pietro,»
commenta mio padre con tono sorpreso «non capisco. Perché dici queste cose a
Nader? Non è carino.»
«Dovrebbe mentire per fargli un piacere?» gli domanda
mia madre con aria severa. «Non è molto leale.»
«Lo so, però...»
E come
sempre si accorge che, forse, è meglio tacere. Lui e le sue strampalate idee. È
convinto, e fermamente, che per fare piacere alla persona con cui si sta insieme
bisogna mentire e dirle solo quello che vuole sentirsi dire. Diciannove anni di
matrimonio a quanto pare non sono riusciti a mettergli un po' di sale in quella
zucca vuota che si ritrova e a fargli capire che no, non funziona così.
Fortunatamente mia madre non è dello stesso parere, dice sempre quello che
pensa, soprattutto se sa che è vero, e mi ha insegnato a fare lo stesso. E Nader
lo ha sempre apprezzato.
«Ma è vero!» esclama infatti a mia difesa. «Nessuno
gioca come lui. E poi, io a pallavolo non sono proprio il massimo.»
«Molto
meglio nel salto in alto.» commento io, che l'ho visto in azione e so cosa è in
grado di fare quando è di buon umore.
«Sì, infatti. E poi, mi piace di
più»
«Allora perché giochi a pallavolo?» interviene mia madre, che non riesce
a concepire come si possa fare qualcosa che non piace. Ed è questo il motivo per
cui ha abbandonato la facoltà di giurisprudenza a cui l'aveva indirizzata suo
padre ed è diventata anatomopatologa.
«Non so.» risponde allegramente Nader.
«Mia madre un giorno mi ha visto che giocavo al parco con alcuni compagni di
classe, mi ha chiesto se mi sarebbe piaciuto provare a farlo in modo più serio e
io le ho risposto di sì.»
Mia madre ha un sussulto, come se qualcuno le
avesse gentilmente piantato uno spillo nel fianco, si sforza di sorridere e con
un voce imbarazzata commenta:
«Contento te...»
Nader non coglie la sua
perplessità e torna a concentrarsi sulla sua pizza. È di umore più che ottimo e
non smette di sorridere nemmeno per un secondo.
È solo dopo che mia madre ha
finito di lavare i piatti che lo invito ad andare nella mia stanza. Mi precede
lungo il corridoio e quando arriviamo si lascia cadere sul mio letto. Mi guarda
e sorride.
«Allora?»
Gli lancio il libro di matematica e mi siedo accanto
a lui.
«Ecco qui. Ellisse e iperbole.»
Mi guarda scettico, poi scuote la
testa.
«Non ancora, no!» esclama. «Non ne posso più di questa roba. Se solo
ti decidessi a studiare non sarebbe così complicato.»
«Studiare è
faticoso.»
Mi rivolge un'occhiata implorante e io mi riprendo il mio
libro.
«Traditore.» lo accuso. «Dovresti aiutarmi.»
«Non faccio i
miracoli, Pietro jan.» mi dice con la sua voce carica d'affetto. La usa
solo quando mi chiama in quel modo e a me non dispiace, nonostante gli abbia più
volte detto che mi dà fastidio. O almeno, glielo dicevo fino a quando non ha
smesso di chiamarmi così davanti ad altri.
«Non ti chiedo un miracolo, ma una
spiegazione.» ribatto allora.
«Quando si parla di te le due cose coincidono.»
Incrocia le braccia sul petto e mi guarda con un piccolo sorriso. «Non rompere,
Pietro jan.»
«Non sei autorizzato a chiamarmi così quando mi rifiuti
un favore, stronzo.» gli rispondo, ma non sono serio e lui lo sa.
«Se mi
chiami così non hai speranze.»
«Per favore!» torno alla carica allora.
Stavolta lo supplico e spero davvero che ceda. Mio padre è stato chiarissimo al
riguardo: un'altra insufficienza in matematica e passerò tutto il tempo che
resta da qui al mio diciottesimo compleanno (centonovantasei giorni!) agli
arresti domiciliari.
«No, na fahmidi, non hai capito. Se non ti metti a
studiare come si deve, io non ti aiuto più.»
«Razza di bastardo!» esclamo
allora, furioso. «Ma l'hai capito che se non prendo almeno sei non posso più
uscire di casa?»
«Certo che l'ho capito.» risponde lui, serafico. Davvero non
gliene frega niente, al maledetto! «Vorrà dire che ti verrò a trovare a casa
tutti i giorni.»
«Non penso che ti vorrò ancora.»
«Allora me ne starò a
casa mia, nay? Nessun problema.»
Rimango zitto qualche secondo. Lo
guardo per bene per cercare di capire che cosa gli passi per la testa, ma con
lui è impossibile. Sorride ed è praticamente sdraiato sul mio letto. Tiene una
gamba stesa sulle coperte, con il piede che sporge oltre il bordo, l'altra
appoggiata mollemente al pavimento. La testa è poggiata sul braccio ripiegato e
con la mano libera gioca con uno degli spaghi del cappuccio della felpa che
indossa.
E in tutto questo, io sono qui a cercare inutilmente di convincerlo
a darmi una mano. Non che non abbia ragione, in effetti, ma non capisco la sua
mancanza di disponibilità. Ha sempre accettato di buon grado di aiutarmi con le
materie in cui ho delle difficoltà e la matematica non è mai stata un'eccezione.
Ma è la prima volta che rifiuta.
«Senti,» mi dice tirandosi a sedere quando
si accorge che non intendo mollare «voglio davvero che ti vada bene il compito.
Te l'ho già detto un milione di volte: sai quello che c'è da sapere. Devi fare
gli esercizi! Sei capace, ti ho fatto vedere come si fa.»
«Sì, sì, grazie
tante.»
«Non arrabbiarti...» sussurra. Mi si avvicina e mi dà un bacio sulla
tempia. «Lo faccio per te.»
Lo scosto con la mano e lo guardo
male.
«Sembri mia nonna, quando fai così.»
«Tua nonna è una persona
intelligente, allora.» ribatte lui alzandosi di scatto e incrociando le braccia.
Parla chinandosi in avanti verso di me, incredibilmente serio. «Pietro
jan, non ci sarò sempre io a spiegarti come funziona. Abbiamo già ripassato
ellisse e iperbole decine di volte e so che sai come fare. Se ti sento chiedere
un'altra volta di darti una mano, ti giuro che me ne vado.»
E quando fa così,
a me viene sempre da chiedermi se lo farebbe davvero. Ma desisto sempre. Questa
volta, però, mi ha fatto incazzare.
«Aiutami.» gli chiedo di nuovo.
Mossa
sbagliata. Si raddrizza, mi guarda male, afferra la borsa che mio padre ha
portato nella mia stanza ed esce. Sento che saluta garbatamente i miei genitori,
poi il rumore della porta di casa che si apre e si chiude.
Non scherzava. Se
n'è andato davvero.
Ebbene, è da un bel po' che ho questa storia nel
computer, e oggi ho deciso di provare a pubblicare il primo capitolo, così, per
vedere che effetto fa. So benissimo che ho altre due storie non complete, ma non
ho nessuna intenzione di abbandonarle, soprattutto "I segreti degli altri", il
cui prossimo capitolo dovrebbe arrivare entro il mese.
Ma questa storia mi
ispira parecchio e ci sto scrivendo un sacco, quindi... Per quanto riguarda le
parole in farsi: io mi sono affidata ai libri per confermare il loro
significato, che comunque è sempre spiegato, dal momento che Nader traduce
sempre quello che dice. Le ritengo importanti per il suo personaggio, quindi ho
deciso di tenerle, nonostante avessi pensato di eliminarle. Le uniche che non
vengono tradotte nel testo sono nay (no) e jan (suffisso che
significa "caro"), dal momento che comunque, considerate le frasi, sono
abbastanza intuitive.
Mi pare d'aver detto tutto.
Mi farebbe molto piacere sapere che cosa ne
pensate.
Baci,
rolly too