Era aprile inoltrato eppure lo coprì come se fosse il
più nevoso degli inverni. Sembrava un pulcino avvolto nel proprio nido di piume
e rametti. Era così piccolo che Ed poteva ferirlo solo guardandolo – ma non per
questo evitava di fissarlo, erano giorni che non dormiva e non distoglieva lo
sguardo dal suo viso, per lui non era un problema: aveva paura di perdersi il
primo respiro vero, la prima parola, il primo battere di ciglia.
Non si azzardava a toccarlo, non lo faceva da quando lo aveva
preso in braccio per portarlo a casa e posarlo sul letto: aveva paura di
spezzarlo, di graffiare la sua pelle così sottile, di spaccare quelle ossa che
sembravano fatte di carta. Lui, nella sua interezza, sembrava una bambola di
carta, come quelle che faceva Winry quando era piccola; si ricordava
perfettamente come era facile pestarle e rovinarle in un momento di
distrazione. E lui poteva dirsi tutto fuorché un ragazzo particolarmente
delicato.
Voleva essere lui ad avvolgerlo; voleva stringerlo al
suo petto, voleva che il suo cuore battesse dieci volte più veloce così da
poter sostenere anche quello di Alphonse, voleva che metà della sua vita
fluisse dentro le vene di Al, perché novant’anni non valevano niente se non
c’era lui.
Sospirò, inarcando la schiena contro la sedia,
distendendo le braccia dietro la testa; non era riuscito a dormire, e con
questa che stava passando erano esattamente cinquantasei ore che non chiudeva
occhio. Andava avanti a caffè e pizzicotti sulle cosce; aveva le gambe livide.
La costanza degli Elric era qualcosa di sicuramente non umano. Se abbassava le
palpebre, veniva talmente ricoperto di incubi (densi, spessi, soffocanti,
assassini) che voleva gridare fino a strapparsi le corde vocali e restare senza
occhi: quindi, per evitare di dare un altro peso a Winry e alla zia, evitava
direttamente. Intanto leggeva e leggeva e leggeva, si faceva portare un sacco
di libri che non aveva ancora letto, tomi che non aveva avuto il tempo neppure
di sfiorare col pensiero, li mangiava con una voracità che solo l’ansia gli
poteva provocare. Aveva il bisogno fisico di distrarsi, ma era convinto che
facendolo troppo si sarebbe perso qualcosa di fondamentale.
Saltava su ad ogni minimo movimento del letto; questo
significava che, da quando Al era in quel letto (dieci giorni, oramai, in cui
non aveva fatto altro che prendere passivamente acqua e frullati che gli
facevano ingollare con la testa alta per evitare di soffocarla) era saltato sul
posto solamente tre volte. La prima volta aveva aperto gli occhi, solo una
fessura, ma era un principio di speranza; la seconda volta le coperte avevano
avuto un leggero tremolio per un colpo di tosse, mentre la terza volta aveva
singhiozzato per un paio di secondi. Chissà che razza di incubi aveva. Ed avrebbe
voluto essere nel suo cervello per scacciarli tutti, avrebbe voluto renderlo
una lavagna e cancellare ogni cosa. Avrebbe voluto essere nel suo sangue per
disinfettarlo. Di certo il suo sonno doveva essere terribile, chissà cosa aveva
passato, là rinchiuso – unito, poi, a tutto quello che avevano vissuto assieme
(maledetto me). Gli venivano brividi
al solo pensiero. Avrebbe voluto essere fuso al suo fratellino per poterlo
guarire.
Si stiracchiò di nuovo, sbuffando di dolore; gli faceva
male da morire la schiena, ma non voleva alzarsi, lo faceva solo per i bisogni
più essenziali, e anche quelli cercava di consumarli in fretta. Si grattò la
testa, sbadigliando aprì la bocca talmente tanto che gli facevano male le
mascelle.
“Al, che dici? Non voglio
dormire, ma credo che il mio corpo ne abbia bisogno…”
Quando parlava col suo corpo addormentato sperava tanto
che lo sentisse. Lo faceva sempre, aveva preso la stupidissima abitudine di
leggergli le favole, ogni tanto; era come ricreare l’ambiente materno e dolce,
e mischiava la piccola speranza che un’aria del genere lo facesse risvegliare
presto. Se non erano favole, dalle sue labbra uscivano avventure tessute e
narrate, intrecciava realtà con l’invenzione, era come avere un bambino piccolo
che aveva bisogno di nutrirsi di farfalle – lui lo imboccava, costantemente,
con la sottile e un po’ fievole speranza di servire. Sentiva il peso opprimente
del senso d’inutilità intorpidirgli le membra, ogni tanto; sapeva perfettamente
che adesso non poteva fare nulla, eppure, come al solito, c’era una controparte
che gli sussurrava che invece avrebbe potuto attivarsi, essere in qualche modo
utile a suo fratello (si dimenticava di dirgli come, ma tanto bastava per
trasmutarsi nel solito senso di colpa che Edward respirava come ossigeno da
anni).
“Non voglio dormire, non prima di essere sicuro che tu
sia sveglio…”, e nel dirlo sbadigliò rumorosamente,
si piegò talmente tanto all’indietro che il libro sulle ginocchia cadde per
terra con un pesante tonfo, aperto, piegando numerose pagine. Ed lo tirò su,
sbuffando, rimettendole a posto e posando il tomo sul comodino accanto al
letto. Quella dove stavano era stata la camera di Winry, c’era qualche traccia
sparsa di quel suo essere femmina di nascosto – un fiore vicino alla finestra,
un fiocco per fare la coda che usava nelle occasioni più importanti, un
reggiseno dimenticato che usciva dal cassetto; ora dormiva in un letto accanto
alla zia, mentre Ed sarebbe stato destinato al divano fino a quando non si
fosse trovata una casa solo per lui ed Alphonse. Tutti sapevano che il divano
sarebbe stato sempre disabitato, perché quello non si sarebbe scollato dal suo
fratellino neppure per un secondo, figurarsi per le lunghe ore del sonno
notturno.
Sbadigliò di nuovo e questa volta non per una volta
sola, ma lo fece di continuo senza riuscire più a serrare le labbra. “Mh, Al, ma se dormo e poi tu ti svegli poi ti perdi senza
di me…”
Cercò, in un qualche modo, di fermarsi, di non piegare
la schiena sul materasso, ma a volte il fisico è molto più forte dello spirito.
Gli sfiorarono gli occhi gli incubi passati, ed era un motivo in più per non
volersi addormentare, ma il suo corpo era talmente provato che lo legò e lo prese
a frustate, obbligandolo ad ubbidire. Piegò le braccia sul piumone, vi appoggiò
la testa. “Dieci minuti, Al, non ti azzardare mica a svegliarti proprio ora,
sono due giorni che sono sveglio e non hai mosso un muscolo, potrei prenderla
come offesa personale, sai? … okay” sbadigliò rumorosamente “ci vediamo fra
dieci minuti…”
Finì di parlare ed incominciò a sognare.
“Dove
siamo, Al?”
La
tua voce rimbomba, rimbalza nel vuoto – è fisicamente impossibile che avvenga,
eppure accade.
Lo
vedi in un campo immenso di papaveri, ride muto e ti guarda. Ha l’aspetto sano
che aveva da bambino, è solamente più alto, più di te – non ti da sui nervi
solo perché è Al, e tutto ciò che è Al va bene. È splendido proprio come hai
sempre immaginato che fosse da adulto. Ha abbandonato il viso tondo per la
mascella quadrata tipica dei maschi della famiglia, solo più dolce, come acquerellata
dai tratti un po’ più simili a quelli della mamma. Gli occhi sono grandi e
luminosi e vivi, è perfetto.
Siete
solo voi due in tutto il mondo. Quando l’aria entra in circolo in te, ne sei
sicuro, solo voi inspirate quest’ossigeno.
Ti
corre incontro, ti butta le braccia al collo e cadete insieme. Puoi sentire il
suo respiro caldissimo sul collo. Lo puoi stringere senza paura di spezzarlo,
ed è una sensazione strana. Non sai come abbracciarlo perché non sei più
abituato al suo corpo così sottile – è da ragazzo, da giovane uomo, ma neppure
lontanamente paragonabile a quello d’acciaio. Non sai ben proporzionarti, ad
occhio. Ma lo abbracci fortissimo, lui aderisce completamente a te. Ti bacia.
Lo baci.
È
come respirare. Naturale, ovvio. Indispensabile.
Ti
guarda. Lo guardi. Sorridete. Ogni momento è così come dovrebbe essere, non c’è
nulla che potrebbe andare storto, ne hai la certezza matematica. Ogni secondo
esteso e portato all’infinito, all’immortalità.
Ogni
legame inutile – il sangue che può essere lavato via – viene spezzato, quelli
fondamentali – l’amore profondo – centuplicato nei sussurri e nei mormorii. Vi
stringete forte l’un l’altro, senza emettere un fiato. Nessuna azione
superflua.
“Dove
siamo, Al?”
“Ovunque
tu voglia essere in questo momento. Sei con me.”
Sul
suo corpo non c’è neppure un segno lontano di quella magrezza smunta che se lo
stava mangiando. Senti il cuore battere all’impazzata, quasi scoppiare. Senti
distintamente ogni senso di colpa scivolare via. Alzi gli occhi al cielo ed è
limpido, non c’è una nuvola.
Ti
struscia il naso contro il collo, un gattino dal pelo morbido e caldo, vi
baciate per un tempo infinito e (sempre) cortissimo.
“Mmh,
Al, ti amo…”
Ghigni
e lo metti sotto di te, perché odi non avere il controllo di una qualsiasi
situazione – anche le coccole fra fratelli, sei tu a dover decidere tempi e
modalità.
“Ma
ti interessa davvero sapere dove siamo, niisan?”
“No.”
Un
lampo, il buio, e il prato diventa all’improvviso un vicolo di Central City; piove, eppure il cielo è azzurro. Siete
sempre tu e lui, in divisa da militare. Un senso di nausea forte come una morsa
di metallo. Avete le mani sporche di sangue. Al ti guarda, disgustato.
Senti
in bocca un sapore di ferro, è così duro da farti male allo stomaco.
“È
tutta colpa tua, non volevo arrivare a tanto.”
Chini
la testa e hai un buco che ti trapassa da parte a parte. Sbatti quattro volte
gli occhi, e tutte e quattro le volte che li riapri il buco è in una parte
diversa del corpo: basso ventre, cuore, bocca, testa.
“Siamo
fratelli, come pensavi che…”
Di
nuovo nero, poi la luce.
La
casa in cui siete cresciuti,i giocattoli, il profumo dei biscotti della mamma;
l’odore dell’estate entra dalla finestra aperta, una mosca si posa sui gessetti
colorati.
Voi
due che vi baciate sulle labbra, ridendo dopo per l’assurdità. Mentre li
guardi, mentre vorresti che fosse tutto ancora così semplice (che fosse ancora
tutto così, muoversi in una dimensione atemporale priva di macchie), di nuovo
Al, adulto, ti si para davanti.
“Li
invidi?”
“Moltissimo.”
Ti
fa aderire al muro e ti bacia fortissimo.
“Non
hai proprio niente da invidiare. Sono qui.”
Ti
stringe talmente forte da soffocare ogni lacrima. Ti aggrappi a lui come un
bambino tremante, cerchi in lui la sicurezza di cui hai bisogno, quella che ti
da immediatamente appena senti il suo odore.
In
un attimo siete nudi entrambi, e state facendo l’amore contro la parete.
Si svegliò di soprassalto buttandosi all’indietro con
talmente tanto sgomento da cadere per terra. Gemette di dolore per la botta alla
nuca e, quando riaprì le palpebre, si trovò Winry sopra di lui, che lo osservava,
scrutandolo.
“Che cavolo hai fatto?”
“Ho provato a spiccare il volo ma le mie ali di cera
hanno impedito l’evento. Secondo te cosa ho fatto? Sono caduto.”
“Sì, lo vedo, ma…” sospirò,
guardandolo con una mano sul fianco, “vabbeh, chi se
ne frega.”, sbuffò Winry smorzando il tutto col suo solito sorriso, quello che
sfoggiava quando la consapevolezza di non poterci fare niente le martellava la
testa. Appoggiò il vassoio che teneva con l’altra mano sul comodino, “Il tuo
consueto caffè per non morire entro venti minuti.”
“Grazie Win, sei
meravigliosa.”
Era rimasto tutto il tempo a fissarla da sdraiato, ma
accarezzò l’idea che almeno per ringraziarla sarebbe stato carino alzarsi.
“Hai intenzione di rimanere tutto il giorno sul
pavimento? Non credo ti farà bene alla schiena.”
Winry avrebbe voluto chiedergli di sedersi, di
rilassarsi, forse di confidarsi con lei, perché aveva gli occhi talmente
pesanti che sembrava voler piangere da un momento all’altro (non lo farà mai,
lo sa), avrebbe voluto dirgli che lei esiste, come è sempre esistita, e aveva
due orecchie e un gran cuore; ma era un desiderio che sapeva benissimo non
avere possibilità di essere esaudito. Le faceva un po’ male che Ed, piuttosto
che far avvicinare chiunque altro ad Al, si costringesse a reggere questi ritmi
inumani. Sospirò, mentalmente, e lo aiutò a mettersi in piedi. Odiava sentirsi
esclusa, ma con gli Elric era sempre stato così. Lamentarsi non avrebbe avuto
alcun senso.
“E mangia qualcosa, non vorrai diventare come lui,
spero.”, lo rimproverò con tono materno, alludendo a tutti i rimasugli che ogni
giorno le toccava dare al cane perché lo stomaco di Edward sembrava essere a
chiusura ermetica.
“No, non ci tengo, grazie.”
Edward la baciò sulla guancia mentre afferrava il caffè
e si sedette e, di nuovo, tornò vigile e attento su Al, sulle pieghe delle sue
palpebre. Lo sorseggiò lentamente, nero e senza zucchero, un occhio alla tazza
e una sul suo fratellino: quanto avrà dormito? Sperava meno di dieci minuti,
che sarebbe un tempo almeno lontanamente accettabile, in fondo tutte le scene
si erano susseguite ad una velocità inumana.
Sospirò, con la punta del cucchiaino faceva disegnini
sghembi e senza senso sul fondo della tazza con le ultime gocce di caffè. Erano
mesi che non sognava così, forse perché troppo occupato a vedere come salvarsi
la pelle. Sbuffò, guardando il viso di Al.
“Mi ossessioni già abbastanza la vita, stupido fratello,
ora anche i sogni?”
Sarebbe stato così bello se non avessero avuto una madre
e un padre in comune; sarebbe stato tutto così infinitamente semplice.
Almeno,sarebbe stata una situazione un po’ più facile di quella di due ragazzi
omosessuali e con una strettissima parentela di primo grado.
“Sei proprio un viziato che non sa accontentarsi.”
Appoggiò la fronte al palmo di Al – era quasi tiepido,
era rassicurante. Gli baciò le dita, sbuffando ancora. Lo voleva così tanto.
(Edward conosceva bene la paura, ed era proprio quel
morbo, quel pizzicore fastidiosissimo sotto i polpastrelli che impedisce ogni
movimento.)
Non che avesse mai maledetto il fatto di essere
fratelli. D’accordo, forse un paio di volte. Ma solo perché il cuore gli pulsava
così forte da fargli male, da tenerlo sveglio la notte e piegargli lo stomaco.
Col mento piantato nel materasso, non c’era nessun altro
rumore attorno. Per questo le prime parole di senso compiuto di Al rimbombarono
con la potenza di una tempesta.
“Mmh, oddio, che male la schiena…”
Edward urlò, portandosi poi la mano alla bocca, balzò in
piedi facendo cadere la sedia all’indietro e l’elettricità gli invase il corpo
mentre il cuore gli batteva all’impazzata, fortissimo, proprio lì in gola. Era
vivo, era vivo, era vivo era vivo cazzo era vivo. Ce l’aveva fatta. Ce
l’avevano fatta. Oddio oddio oddio
era vivo. Vivo vivo vivo.
Vivo davvero, mica nei suoi sogni. No, quella era la realtà. Si schiaffeggiò e
sentì dolore. Era la realtà. Al era vivo. Al. Alphonse Elric. Suo fratello.
Lui. Al. Vivo. Vivo e vegeto. Oddio. Oddio oddio.
Pensava di poter morire in quel momento ed essere felice. Poi si disse che
sarebbe morto col cazzo, non aveva fatto tutta quella fatica per nulla. Al, Al
era vivo. Oddio. Oddio oddio oddio.
Alphonse sbatté le palpebre per un numero infinito di
volte; fece un’enorme fatica ad abituarsi alla luce, che gli faceva male agli
occhi ed ugualmente gli penetrava le palpebre. Dovette aprirle un po’ alla
volta, e farlo per più volte per riuscire a tenerle bene aperte per più di tre
secondi. Si guardò, alzò le mani e le ritrovò coperte dalla maglia di suo
fratello, gigantesca per lui. Le spalle magrissime uscivano leggermente dallo
scollo. Si guardò attorno, spaesato. Edward se ne accorse; sorrise e gli disse:
“Questa è la camera di Winry, ti ricordi, Al?”
Al gli sorrise a sua volta e gli chiese, con voce rotta
– la voce di chi non la usava da tempo immemore: “Tu chi sei?”
Erase & Rewind
“… cosa?”
“Ti ho chiesto chi sei, non mi sembra di ricordare il
tuo viso, allora mi sembrava cortese chiedertelo…”
Al non ebbe il tempo di recepire la faccia sconvolta di
Ed perché la sua testa viene d’improvviso assalita da fitte tremende; si prese
il capo fra le mani, stringendolo e cominciando ad urlare.
Nero.
Nero. Nero. Mani nere che lo stringevano, lo soffocavano. Nero, nero, nero.
Nessuna luce, preghiere che morivano in gola, speranze bruciate sul nascere,
“AIUTAMI NIISAN!”
Niisan?
Chi era? Non c’era nessuno, solo cento e mille occhi che lo fissavano, maligni,
rossi, risate profondissime che sovrastavano il suo pianto isterico. Dov’era
questo niisan? Dov’era? Lui non vedeva nessuno. Era solo, completamente solo.
Nessuno lo avrebbe aiutato. Nessuno.
Le grida assorbirono le pochissime energie che aveva in
corpo, e svenne. Una paura tremenda assalì Ed che lo credette
morto fino a quando non avvicinò la guancia al suo naso e lo sentì respirare.
Ricadde sulla sedia come un peso morto, come un macigno:
Al si era scordato di lui. Non voleva crederci. Non era un incubo, ancora
sentiva dolore alla guancia. Era la realtà. La fottuta realtà. C’era qualcuno
lassù che si divertiva a prendere il cuore dei membri della famiglia Elric e
giocarci a bocce, o stritolarli fino a far uscire ogni goccia di sangue. In
quel momento Edward sentiva esattamente una mano attorno al cuore che stringeva,
stringeva, stringeva.
Era possibile che si fosse scordato tutto? Forse era il
prezzo ultimo da pagare, l’unica rivincita che la Verità si era presa, alla
fine di tutto. Oppure si trattava di una semplice condizione momentanea, nulla
di grave. Oppure, vaffanculo, era semplicemente
l’unica merdosa realtà: a lui e a suo fratello era preclusa la felicità per
sempre – un vizio compreso nel DNA Elric, a quanto pareva.
Una miriade di pensieri si susseguì nel cervello confuso
e dolorante di Ed, che non riuscì ad impedirsi di urlare fortissimo, tanto che
Winry accorse, spaventata: “Ed, cos’è successo? Al sta male?”. Era sporca di
olio in faccia e sulla maglietta, e il terrore era liquido negli occhi.
No, non poteva dirle niente. Le leggeva sul volto stanco
i segni del dolore che le aveva sempre trasmesso, quello che aveva assorbito
gravitando attorno a lui. Non avrebbe emesso un fiato sulla questione fino a
quando non ci fosse venuto a capo lui stesso. “No, nulla, Win,
sono solo molto molto moooolto
debilitato dalla mancanza di sonno, e sai quanto sono isterico.”
La ragazza sospirò di sollievo, portandosi una mano al
cuore. “Dio, ho temuto il peggio per Al.”
Non
sai neppure cosa sia il peggio. Ed le sorrise, dicendole
che non aveva da preoccuparsi, figurarsi se permetteva che succedesse qualcosa
ad Al con tutta la fatica che aveva fatto per salvarlo, ci sarebbe mancato
altro, gliel’avrebbe fatta vedere lui se avesse osato farsi succedere qualcosa.
Winry rise e, salutandolo tornò giù dove la zia continuava a lavorare sugli automail. Il rumore della porta che si chiudeva delineava
l’estraneità di Edward dal mondo vero, quello in cui era possibile che, ogni
tanto, qualcosa andasse bene.
Ritornò a sedersi come aveva fatto negli ultimi giorni,
a fissarlo. Avrebbe voluto scuoterlo per svegliarlo e farsi ripetere quel che
aveva detto; al contempo aveva tremendamente paura. C’era qualcosa di peggio
dell’essere scordati dal proprio fratello? Sbuffò e quasi gli venne da
piangere, ma non lo fece.
Perlomeno era vivo, respirava, addirittura parlava;
nelle sue speranze la situazione non era affatto così rosea. C’era quel piccolo
particolare mancante, ma forse era risolvibile. Forse era solo lo shock di
aprire gli occhi fisici sul mondo per la prima volta dopo anni che lo faceva
sragionare. Sì, in fondo non c’era altra spiegazione logica, doveva essere per
forza la strana ed assurda situazione, un po’ tutto l’insieme: doveva essere
una sensazione fuori da ogni schema, quella di trovarsi catapultati dopo tanto
tempo nel proprio corpo di carne, sentire il proprio cuore battere e il sangue
distintamente scorrere nelle vene. Davvero, non poteva essere altrimenti.
Cercando di convincersi, senza pienamente riuscirci, si abbassò su di lui e gli
soffiò sul naso, cercando di dargli fastidio come quando erano bambini – Al,
per un certo periodo, ebbe la sfortunata abitudine di avere il sonno molto
leggero, per cui bastava davvero pochissimo per svegliarlo; fu un periodo
orrendo da quando lo scoprì Ed.
Gli soffiò sul naso con insistenza, dicendosi che voleva
che si svegliasse in modo da confermare le proprie teorie – una piccola parte
di lui non lo desiderava affatto, voleva che le sue idee trovassero conferma
solo in lui, che non avessero un riscontro con la realtà; si schiaffeggiò nel
momento stesso in cui lo pensò.
“Al, dai, pigrone, svegliati…”
Ora
si sveglia e me lo dice, che era tutto uno scherzo, che mi prendeva in giro. Al
non è mai stato bravo a fare gli scherzi, facevano sempre schifo quelli che
faceva. Tipo questo. È proprio uno schifo. Ora si sveglia e glielo dico, che è
un fallito. Un gran fallito. Che scherzi sono da fare al proprio fratello
maggiore? Su certi argomenti, poi. Bah. È un fallito, un gran fallito. Sì.
Aprì gli occhi tutto d’un colpo, fissando il soffitto.
Era così bianco che quasi lo accecava. Ma ogni volta che si svegliava doveva
rimanerci secco? Pregò di addormentarsi e di risvegliarsi in una grotta buia,
piuttosto.
Si alzò drizzando il busto, guardando Edward con un
sorriso leggermente infastidito, un’interferenza che Edward notò subito e lo
ferì: “Posso sapere chi sei, e cosa ci faccio qui?” Si sentiva confuso e
spaesato, un ragazzo che non conosceva in un luogo che non riusciva a
riconoscere come suo, o a cui mai fosse appartenuto nella sua vita – vita?
Quale vita? Ne aveva avuta una? Si sforzava di tornare indietro con la mente,
ma trovava solo strade nebbiose, cieli coperti dalle nuvole, non c’erano
sentieri di montagna da percorrere per ricostruire una memoria. Nebbia, buio,
nessun cielo stellato. Che atroce mal di testa.
Edward aveva la gola secca che grattava e gli faceva un
male assurdo. Riuscì ad aprire le labbra per miracolo, le parole rantolavano
sofferenti per riuscire ad uscire dalla sua bocca: “Io sono…”
Sì interruppe.
Sarebbe
così bello, a volte, se tu non fossi mio fratello. Così facile, per una volta.
Era lì, quell’opportunità. La vittoria facile. La
soddisfazione a portata di mano.
Si sentì un verme, si morse il labbro. Fu come se un
piccolo pezzo di Verità fosse rimasto in lui, perché si vide perfettamente
davanti tante manine nere che volevano trascinarlo con sé: come poteva essere
così ignobile? Mentire a suo fratello, per un scopo tanto ignobile e subdolo e
quantomeno schifoso, per di più in un momento di così grande fragilità per lui!
Si doveva solamente vergognare—
“Tu sei…?”
Eppure non ci riusciva. Non pienamente. Lui amava
Alphonse, come un fratello e non come un fratello, con affetto tenero e la più
profonda passione sentimentale e carnale. Non si sarebbe riuscito a trattenere
ancora per molto, e così lo avrebbe sconvolto e perso per sempre. Se non
fossero stati fratelli, se il sangue fosse diventato aceto si sarebbe potuto
lavare con un colpo di spugna, gli abiti non avrebbero mai serbato né traccia
né odore di quell’errore, il candore della
maglietta si sarebbe potuto esporre ed esibire con la stessa allegria
precedente.
L’amnesia di Al pareva sincera. Al non era mai stato in
grado di recitare, almeno non di fronte a lui; quando mentiva il suo naso
diventava scarlatto, lo arricciava e poi starnutiva, era come se la polvere
delle bugie si infilasse in lui per poi volerne uscire dopo pochissimi attimi.
Il naso di Al, adesso, era pallido, nessuna traccia rossa, nemmeno un puntino
color fragola. Stava dicendo la verità.
Forse era l’occasione che stavano aspettando entrambi.
Una promessa di felicità, una piccola scintilla.
“Io sono Edward Elric, il tuo migliore amico. Tu sei
Alphonse Elric, te lo ricordi?”
Gli prese le mani fra le sue. Erano appena tiepide, come
un sasso scaldato da uno sparuto raggio di Sole timidissimo.
“Abbiamo lo stesso cognome per via di una qualche
parentela lontanissima, tipo il bisnonno del bisnonno…
cose strane, non farci caso. “ rise, “Qui sei in camera di Winry Rockbell, la nostra amica d’infanzia. Abbiamo avuto una brutta
avventura, e per questo ho la gamba d’acciaio. Tu non ricordi niente perché… beh, tu eri messo peggio. Però ora eccoci qua. Ti
racconterò qualcosa ogni giorno, e vedremo come rimetterti in sesto la memoria…”
Gli strofinò i capelli nel momento esatto in cui avrebbe
preferito baciarlo per rassicurarlo e correggere e trasformare i suoi tremori.
Se tutto fosse andato come immaginava, ora Alphonse avrebbe dovuto piangere fra
le sue braccia, inondato di commozione e crudelissima e spietata e meravigliosa
realtà corporea, facendosi abbracciare dal suo fratellone che più di ogni cosa
al mondo voleva proteggerlo da ogni male, comprese le lacrime di felicità che
comunque gli scuotevano le membra, ed esse erano così fragili che non avevano
proprio bisogno di tremare. Al era così fragile che Edward aveva paura che
persino respirare lo facesse star male.
Al lo guardava con occhi sbarrati – non impauriti,
semplicemente confusi, neppure sconvolti. Il suo migliore amico? Cos’erano
quelle cicatrici vicino alla spalla? Si guardò le mani e per poco non urlò: ma
erano dite vere, quelle?
“Perché non mi ricordo nulla?”
Che mal di testa atroce.
“Dev’essere un effetto collaterale… ora sei troppo provato perché te ne parli.”
Edward si sentiva soffocare, come se stesse camminando una
scala ripidissima che non finiva mai, ad ogni scalino il fiato minacciava di
esaurirsi, ed ogni scalino superato si moltiplicava per cento. Sentiva
inchiostro nero aggirarsi in globuli semi solidi attorno a lui, ancorarsi al
suo cuore, quasi impedirgli che esso pompasse. Al contempo, una vocina che si
complimentava con lui – la parte più ignobile del suo essere, che trovava buona
quell’idea atroce; perché dargli altro dolore? A lui non cambiava nulla.
A te
invece cambia tanto. Ora, piano piano, puoi dirgli
che lo ami. Aspetta un pochino, un mese neppure, e ai vostri occhi sarete due
semplici amanti. Ai suoi per davvero, ai tuoi per finta, ma non va bene così?
Non è un mondo meraviglioso, quello che ti si prospetta, Edward Elric?
Non
sei già abbastanza colpevole di avergli reso infernali gli anni migliori della
sua vita? Questo è l’unico favore che puoi fargli, intessergli attorno una vita
perfetta, o almeno serena. Fallo. Ci ricaverete qualcosa di buono entrambi.
“Non sono provato…”
Al provò ad alzarsi dal letto, ma precipitò
rovinosamente addosso ad Edward, che lo afferrò e attirò a sé ridendo. Accennò
un bacio ai capelli che quello non rifiutò, ma forse nemmeno percepì. “Ti avevo
detto che eri troppo debole. Ti faccio portare qualcosa da Winry, okay? Io intanto
vado a prendermi un caffè…”
Gli rivolse il
sorriso più splendido che al momento riuscisse a sfoderare; Al ricambiò, ed era
talmente bello da farlo disperare.
Scese le scale velocemente facendo andare Winry da suo
fratello; alla ragazza s’illuminarono gli occhi, per poi inumidirsi fino a
scoppiare a piangere. volò verso la sua ex camera per saltare al collo di
Alphonse e stringerlo così forte che, anche se avesse voluto parlare, non ci
sarebbe riuscito. Lei continuava a ripetere “Alphonse, Alphonse”, e lui
interpretò quel continuo fiume del suo nome come un modo per imprimergli bene
nella memoria come si chiamasse. I singhiozzi scomposti di Winry gli riempivano
talmente tanto ogni centimetro di campo uditivo che non riuscì a percepire
neppure una traccia lontana dell’urlo di Edward.
Passò prima dal bagno per sciacquarsi la faccia; aveva
un aspetto indegno. Gli occhi rossi e gonfi spiccavano nel volto pallido. Si
buttò addosso acqua gelata per svegliarsi del tutto dall’intorpidimento del
dolore. Non riusciva a credere di averlo fatto davvero. Cercò di far scivolare
tutto sottopelle, come polvere sotto un tappeto. Sarebbero vissuti meglio
entrambi, bastava solo farci un po’ l’abitudine. In fondo, per lui cambiava
solo non poterlo più chiamare fratello e tessere un pochino la realtà
precedente, per Al era tutto uguale. Andava bene.
Andava bene. Andava
tutto bene.
Salendo le scale sentiva la voce commossa e a tratti
rotta di pianto di Winry che telefonava a chiunque per annunciare la bella
notizia.
“Ed, Ed, la signorina Ross mi chiede quando potremmo
fare una festa per Al!”
“Ne parleremo, Winry. La faremo quando starà meglio, ora
credo sia troppo presto.”
Mentì spudoratamente: se avesse potuto lo avrebbe tenuto
sempre e solo per se stesso. Rinchiuso in un castello, rovi attorno alle mura,
un drago alla porta.
Quando ritornò in camera Al era di nuovo da solo e
guardava fuori dalla finestra con un gran desiderio di uscire ben palese sul
volto. Si voltò verso di lui appena lo sentì entrare in camera, e cominciò a
fissarsi le mani, i polsi. Sembrava sul punto di piangere; quello non era il
corpo di un ragazzo, era uno scheletro con appena un po’ di voglia di vivere –
la pelle attaccata alle ossa per sua ostinazione.
“Perché sono così magro, E…”
“Edward.”
C’era bisogno di parlargli dell’alchimia? Forse quella
l’avrebbe riscoperta di lì a poco, ma c’era bisogno di parlargli della loro
madre, del tentativo inutile e dannoso di riportarla in vita, del loro padre,
del suo corpo, del loro viaggio? Se mai avesse ripreso i suoi ricordi, se mai
li avesse nuovamente pescati da quel lago nero della sua amnesia, avrebbe
trovato un nuovo modo di mentire. Sarebbe stato facile dirgli che si trattava
solamente di sogni, di favolette, di film che avevano visto da piccoli assieme
e che lo avevano talmente impressionato da fondersi con la realtà.
“Sei rimasto in coma per anni, quando eravamo piccoli
abbiamo avuto un brutto incidente in macchina e…”
deglutì a fatica, un rospo troppo velenoso per essere mandato giù con facilità,
“i nostri genitori sono morti. Ma ci resta ancora la zia Pinako e Winry! Loro
sono la nostra famiglia.”
Al lo guardò, Edward fu sicuro di vedere sul suo viso
un’espressione di poca convinzione, come se fosse sicuro della radica
menzognera delle sue parole. Invece quello sorrise – non gli faceva male l’idea
di essere orfano?
“Ho una gamba d’acciaio perché l’ho persa
nell’incidente, sono state la zietta e Winry a darmela. Loro si occupano di
queste cose, degli automail. Gli automail
sono arti di metallo, finti, ma funzionano quasi meglio di quelli veri.”
“Prima la ragazza…”
“Winry.”
“Sì, Winry,” masticò il suo nome per ricordarselo, “si è
riferita a te come mio fratello…”
Ad Edward mancò un battito del cuore ma non lo diede a
vedere. Ringraziò la mamma di avergli donato un cervello così veloce e in grado
di formulare pensieri logici in un tempo così ristretto.
“Sono il tuo migliore amico, e…”
gli porse uno specchio, stupendosi persino di trovarlo nella camera di una
ragazza come Winry, “ci assomigliamo così tanto che tutti ci hanno sempre preso
come fratelli. Spesso si riferiscono a me come tuo fratello e il contrario, non
farci caso, si sono tutti abituati così.”
Al ebbe un sussulto nel vedere il proprio volto così
scavato e magro; per quanto non serbasse ricordi del suo viso prima, ridotto in quello stato faceva
quasi paura. Si toccò gli zigomi sporgenti e sentì la pelle secchissima,
ruvida, come se ci fosse un deserto al posto della cute.
Edward gli sorrise, prendendogli le mani fra le sue.
“Stai tranquillo, ti farò ritornare come eri prima.”
Com’era strano dirglielo in un contesto così surreale.
Senza pensarci gli baciò le dita, scostandole
immediatamente dalla bocca quando avvertì lo sguardo interrogativo di Al su di
sé.
“Chi sono tutti?”
Roy Mustang. Riza Hawkeye. Jean Havoc. Heymans Breda. Denny Brosh.
Maria Ross. Sheska. Vato Falman. Izumi Curtis. Shigu Curtis. Mei Chan. Ling Yao. Come li avrebbe spiegati? Che ruolo avevano loro,
nella nuova vita di Al? Chi, cosa dovevano rappresentare? Potevano rimanere
presenza marginare, piccole macchie, ombre di poca importanza?
“Tutti quelli che ci conoscono, stupido. Quando li
incontrerai te ne parlerò, con calma, non essere così frettoloso.”
Al sbuffò, gonfiando le guance. Però forse aveva ragione
lui, già faceva fatica a ricordarsi il nome di Wi… Wi… di Winry, ecco; come poteva pensare che, dicendogli
tutto ora, lui si sarebbe ricordato qualcosa? Andava tutto immagazzinato un po’
alla volta, perché tutto acquistasse valore.
Ci fu una piccola pausa di silenzio in cui il Fullmetal, se avesse aguzzato un attimo l’udito, avrebbe
potuto sentire le rotelle del cervello di suo fratello muoversi ad una velocità
sovrumana. Quello voltò il viso verso i campi fioriti e il Sole alto nel cielo.
“Voglio uscire, Edward.”, sentenziò Al guardando ancora
fuori, che chiaramente non capiva la propria condizione. Sembrava che il mondo
lo chiamasse a sé.
Magari aveva scordato tutto, ma lo sguardo era sempre lo
stesso. Ed sospirò, sorridendo poi. Era una bella giornata, non ci sarebbe
stato niente di male. Non si sarebbe dovuto stancare, non doveva muoversi.
“Scommetto che se ti dicessi di no non mi lasceresti
andare comunque.”
“Immagino di sì.”, rispose Al che ancora non si
conosceva e quindi attingeva alle parole di Ed come ad una fonte di saggezza.
Sembrava di aver a che fare con un neonato.
Gli diede un bacio in fronte, e Al si chiese se Edward
fosse sempre così affettuoso o erano eccezioni dovute al suo risveglio; sperava
nella prima opzione, gli piacevano quelle attenzioni da parte sua.
“Vado a vedere se hanno ancora la mia vecchia sedia a rotelle…”
Al aveva addosso i vestiti di Ed, gli stavano enormi e
sembrava ancora più piccolo.
“E andiamo!”
Edward, sotto specifico ordine del più giovane, spinse
la carrozzina giù per un pendio non troppo ripido, così da farle prendere
velocità; sembrò divertire moltissimo suo fratello che non la smetteva di
ridere. La sua capacità di riprendersi era sempre la stessa, anche in queste
condizioni. E dire che Ed aveva persino paura che ridere gli facesse male – che
idea stupida, e poi perché togliersi il privilegio di essere il primo a vedere
Al ridere? Era così bello il suono della sua risata fluida e cristallina.
Per una mossa accorta ed azzeccata di Edward riuscirono
a non schiantarsi contro un albero, ma decisero di riposarsi alla sua ombra. Al
fu messo sull’erba con calma e cautela, fatto sdraiare così da poter vedere le
nuvole. La maglietta che Ed gli aveva messo addosso aveva minuscoli buchi in
più punti dove si infilarono fili verdi che gli solleticavano la schiena.
“Mi dispiace…”, mormorò d’improvviso,
chiudendo gli occhi.
“Di cosa, Al?”
“Di aver dormito così tanto…”
“Ma che scemo!”
“Vi avrò fatto preoccupare moltissimo.”
“Certo, perché ti vogliamo tutti bene, ma di certo non è
stata colpa tua, quindi poche pare mentali, eh?”
Ed gli scompigliò i capelli con delicatezza, e ancora
più piano lo avvicinò a sé. Continuava a desiderare di infondergli il suo
calore.
Nel viso scarno i suoi occhi enormi risaltavano ancora
di più.
Era profondamente scemo come se lo ricordava. Uno
stupido che voleva prendersi la responsabilità del mondo. Si rimproverò per
avergli passato una caratteristica tanto stupida.
“Come mai siamo nella casa di Winry?”
Pronunciava ancora il suo nome con una sorta di
insicurezza, come se temesse di sbagliare.
Ed sospirò; in fondo era pur sempre suo fratello, doveva
aspettarsi tutta quella curiosità.
“La nostra l’avevamo appena venduta, quando ci siamo
messi in viaggio. Sai, ci conosciamo fin da piccoli, i nostri genitori erano
migliori amici, proprio come noi, e avevano deciso di trasferirsi insieme.
Abbiamo perso tutto ma almeno avevamo ancora la zia Pinako, che in verità è
solo la nonna di Winry, ma è sempre stata accanto a noi volendoci bene proprio
come due veri nipoti.”
Al annuì, facendo capire di aver compreso, e si
accoccolò a Ed, facendo i capricci per stargli in mezzo alle gambe. Ed era così
grande, rispetto a lui, lo faceva sentire protetto, gli piaceva sentirlo
addosso a sé.
Tutte quelle informazioni in una botta sola gli facevano
male alla testa, l’onda d’urto lo faceva tremare. Decise di smetterla di
chiedere, almeno per oggi, o forse ancora per un paio di giorni. Non c’era
bisogno di ricostruire una vita in una manciata di ore.
Se ne stettero lì fino al tramonto, a inspirare
profondamente l’odore dell’erba e a vedere come le farfalle trovassero un
comodo appoggio sul naso di Alphonse. Gli piaceva sentirsi così incredibilmente
vivo. Poi, stare con Edward gli infondeva un senso estremo di sicurezza, era
stranamente sicuro che avrebbe potuto affrontare ogni bruttura del mondo e si
sarebbe salvato, avendolo al fianco. Strofinò il naso contro il suo collo,
odorava di buono. Ringraziò il cielo di avere lui come migliore amico, era
sicuro che chiunque altro non sarebbe stato alla sua altezza.
Ed gli stringeva piano la vita, godendosi la normalità.
Andava tutto bene, in fondo. Meravigliosamente, perfettamente, normalmente
tutto bene.
Quando tornarono a casa Winry li sgridò duramente,
preoccupatissima, perché il piano originario che le avevano annunciato era
stare fuori per un’ora, al massimo, e invece ritornavano sporchi d’erba dopo
cinque ore.
“Al, sei caduto per caso?!”, gli domandò preoccupata
appena si accorse di tutti quei fili verdi intrecciati ai suoi capelli;
sembrava fatto per metà di clorofilla e per metà d’oro. Appena gli mise le mani
sul capo, Ed ebbe la premura di rassicurarla che non era successo niente, e le
scostò le dita.
“No, no, Edward mi ha semplicemente messo per terra, gliel’ho
chiesto io.”
Come suona strano Edward detto da lui, pensò Winry che
si meravigliava di nuovo di sentirlo chiamare per nome proprio da lui; forse è
cresciuto tutto d’un colpo, ecco perché non lo chiama niisan. Va bene così, era
ora che si staccasse un po’ da lui.
Ed sbuffò, trascinando Al su con lui. “Tu ti preoccupi
troppo, Win!”
“Se non mi preoccupassi io per voi non lo farebbe
nessuno, non lo fate neppure voi!”
“Ssh, ssh,
va bene così. Noi andiamo a letto, Al è stanco!”
“Ma non avete neppure mangiato!”, protestò lei,
guardando Ed cominciare a spingere Al su per le scale.
“Sì che abbiamo mangiato, sulla strada ci siamo fermati
dalla signora Walker che ci ha dato latte e pane e un
paio di mele!”
“E ti sembra una cena sufficiente per Al?! Deve
rimettersi in forze, come credi possa farlo con una mela e un panino?!”
“Non ti ho detto quanto latte e quanto pane ci ha
rifilato. Deve aver preso in simpatia Al…”
“Forse le ho fatto pena, sono uno scheletrino
che cammina a malapena.”
“Probabile. È una buona tattica, la tua, io la
conserverei per il futuro.”
Gli baciò la fronte e lo portò su come una sposa.
Prima lo fece sdraiare a letto e lo cambiò – “Posso
avere un pigiama più leggero? Ho caldo…” – e poi unì
i loro letti, così da poter dormire insieme senza rischiare di schiacciarlo.
Al si addormentò subito, la giornata doveva averlo
stancato moltissimo. Ancora una volta si accoccolò a suo fratello,
stringendogli la canottiera sul petto, nel sonno. Non riuscì a sognare nulla,
nonostante lo volesse con forza. Forse lì sarebbe riuscito a riallacciare
qualcosa, a prendere pezze del passato e ricucirle insieme.
Ed, di contro, non riuscì a dormire. Si limitò ad
accarezzargli la schiena tutta notte, supplicando una qualche entità di
prenderlo a bastonate in testa perché svenisse, perché aveva un profondo
bisogno di dormire. Forse era una qualche punizione.
Strinse Alphonse a sé, tentando di inghiottire ogni
senso di colpa. Accarezzarlo, tratteggiare le sue ossa, non gli sembrava così
faticoso, adesso. Era così fragile, così piccolo – proteggerlo era sempre stata
la sua priorità, doveva continuare ad essere così.
Perse un’infinità di tempo a guardarlo dormire, ad
ascoltare il fruscio della maglietta contro il petto che si alzava e si
abbassava, pianissimo, il rumore delle labbra che ogni tanto si staccavano fra
loro. Al non si mosse, come se volesse anche nel sonno la sicurezza di averlo
al fianco, come se dentro si sentisse infinitamente piccolo e fragile.
Sei
come sospeso in una dimensione senza tempo né spazio; sopra di te la luce, ai
tuoi piedi il bianco accecante, tanto che ti è quasi difficile tenere gli occhi
aperti. Ha un che di piacevole, ti instilla una sensazione di calma. Provi a
parlare, ma neppure una lettera arriva alle tue orecchie, viene tutto
risucchiato dal silenzio in cui sei immerso, come in un liquido amniotico. Hai
la sensazione di essere un feto nella pancia della mamma. (Chissà che volto ha,
la tua mamma.)
Ovunque
ti giri non vedi altro che luce, luce e luce. Ti siedi per terra – anche se la
definizione stessa è un po’ barcollante, per definire ciò a cui ti appoggi.
D’improvviso, appari davanti a te stesso: il tuo corpo ancora più magro, rapito
da un milione di mani nere.
Era un sogno senza senso – o, almeno, così aveva deciso
lui. Aveva cominciato a farlo tre, quattro giorni dopo essersi svegliato; ne
aveva così poco che non gli sembrava il caso di riportarlo al suo migliore
amico. Una volta durante un sonnellino pomeridiano – si era sforzato
decisamente oltre il proprio limite, facendo due volte le scale da solo, mentre
Ed era impegnato in altro – e due sere di fila, per un paio di minuti a volta.
Quando lo fece per la prima volta (il caldo appiccicoso
di una giornata fuori stagione gli aveva attaccato la maglietta al petto e
riuscì a farlo dormire per appena dieci minuti) si svegliò con uno strano sapore
che gli partiva dalla bocca dello stomaco, una strana sensazione di
famigliarità: il che era impossibile, era di nuovo vivo da così poco. Sbuffò,
contrariato con se stesso e col proprio
strano cervello, si tolse la maglietta per il troppo caldo e in quel momento si
beccò una sgridata da Edward per averlo fatto, sudato com’era gli sarebbe
bastato uno spiffero di vento per prendersi la febbre.
Ripensandoci, qualche ora dopo, suppose che fosse
normale, ogni tanto, sognarsi, sognare se stessi, e poi in fondo quello era il
suo corpo attuale. Pregò che fosse solamente quello dovuto al coma e non quello
vero, di base, il suo, perché gli faceva mediamente ribrezzo; desiderò invece
profondamente che fosse simile a quello di Edward, forte.
L’aveva osservato a lungo, quel corpo; gli piaceva
tantissimo. Per quanto non fosse alto, era ben proporzionato, amava la linea
dei suoi muscoli. La desiderava. Non sapeva perfettamente in quale senso
interpretare il suo desiderio; in fondo, era appena nato.
Il mercato c’era tutti i giorni, ma martedì era un
giorno speciale perché arrivavano le bancarelle dei Paesi confinanti, e tutto
si colorava di una nuova luce, di nuovi colori, di nuovi sapori e odori. Da
quando Ed gliene aveva parlato, il mercoledì prima, apposta per farlo soffrire,
Al non stava più nella pelle all’idea di visitarlo. Avrebbe dovuto farlo in
sedia a rotelle, d’accordo, ma era già dell’idea di obbligare Ed a portare le
stampelle e poi supplicarlo di farlo camminare un po’, così da poter toccare
con mano la frutta e la verdura e le spezie profumate. Aveva notato che era
molto difficile che gli dicesse di no, su certe questioni, tranne quando era
davvero palese che fossero solo capricci che non sarebbe riuscito a portare a
termine.
“Allora domattina andiamo al mercato, vero? Vero?”
“Sì, Al, me lo hai già ripetuto almeno duecentodieci
volte, oggi…”, sospirò Ed a cui non piaceva l’idea di
condividerlo col mondo, ma suo fratello aveva un estremo bisogno di uscire.
“Non vorrei te lo dimenticassi, eh!”
“Ma figurati se me lo dimentico…”
Edward, nei suoi confronti, era prodigo di baci. Era
piccoli, leggeri come un soffio di vento scappato per caso, ma ugualmente lo
facevano fremere, contento. I primi dubbi – lo fa perché mi vuole bene davvero
o solo perché sono appena nato? È affetto sincero, il suo? – si dissiparono
presto, furono aboliti, bollati come inutili e dannosi.
“Dai, vieni qua che ti vesto.”
“Ma mi so vestire da solo!”
“Allora stai solo in piedi qui, e ti vesto io.”
“Ma mi hai sentito?”
“Al, su, pochi capricci…”
Prodigo di baci e di attenzioni quasi morbose, quasi
fosse convinto che Al non fosse capace di fare alcunché, senza il suo aiuto.
D’accordo, forse qualche volta aveva ancora il fiatone, ma non erano passati
che tre mesi, era normale così.
Sbuffando, ubbidì, mettendo in piedi tra le gambe di Ed:
si slacciò camicia e pantaloni, e lui glieli sfilò. Lo strinse a sé un attimo
di più per sentire quanto caldi fossero il suo cuore e la sua pancia, mentre
gli metteva i jeans puliti.
“È la tua prima uscita seria, non sei emozionato?”
“Sì, abbastanza.”, e in verità aveva gli occhi di un
cucciolo che ha sempre sentito parlare del mondo senza mettervi nemmeno una
zampa dentro. Immaginava chissà quali grandi cose, e quando le confessava a Ed
lui rideva sotto i baffi, rassicurandolo che in fondo non era tutto sto gran
divertimento, il mercato del martedì; ma non si lasciava scoraggiare, Al, e
continuava a fantasticare. Qualsiasi cosa gli si fosse parata davanti,
l’avrebbe amata immensamente.
Edward, al contrario, celava come un segreto l’angoscia
che lo tormentava; chi avrebbero incontrato? Quel qualcuno che avrebbe
incrociato la loro strada cosa avrebbe detto a suo fratello? Sarebbe riuscito,
comunque, a mantenere il gioco? Deglutì l’ennesimo rospo, mentre prendeva una
maglietta e gli ordinava di alzare le braccia, così da potergliela infilare.
“Continuo a dire che ci sarei riuscito da solo.”
“E io dico che meno ti sforzi meglio è, tanto userai
tutte le tue energie al mercato. Lo so che l’hai rotta tu la sedia a rotelle.”
“Era già rotta da sola, cigolava quando la usavo, non mi
hai detto tu che l’hai usata anche tu dopo il nostro incidente? Quindi un sacco
di tempo fa. Quindi si è rotta da sola.”
“Più il piccolo aiutino di smontarla pezzo per pezzo.”
“Le ho solo fatto un piacere, ora potrà riposare nel
paradiso delle ferraglie.”
C’era una sfumatura comica ed infantile nel suo
arricciare le labbra convinto delle proprie posizioni. Ed rise sulla sua pancia
morbida, stringendolo a sé. Chissà come mai Al non vedeva strana tutta quella
affettuosità fisica fra semplici amici.
“Sì, d’accordo… però le
stampelle le prendi comunque.”
“Sì mamma, sì…”
Camminarono per venti minuti buoni, e ogni cinque Al
doveva fermarsi a bere, sedendosi su una panchina, ed ogni volta Edward lo
prendeva in giro. “Visto che ne avevi bisogno, cretino?”
“No, è solo che non sono abituato, smettila di
sfottere!”
“Pff, non ho neppure iniziato.
Imparerai a conoscermi molto meglio.”
Alla terza sosta, Ed si stufò e lo prese sulla schiena,
nonostante le sue proteste. “Non possiamo metterci l’eternità. E poi ti farò
camminare per tutto il mercato, sei contento?”
“Non puoi immaginare.”
“Certo che lo immagino, scemo…”
Al affondò il naso nei capelli del Fullmetal.
Gli piaceva, ogni tanto, essere trattato come un bambino.
(Ed, in generale, gli piaceva molto.)
“Ecco—“
“Eccoci qua! Waaah…”
Odori suoni profumi caos mele arance fragole spezie
sandalo vaniglia zucchero di canna tabacco sigarette accese fumo negli occhi
voci acute voci gravi annunci richiami bambini che urlano e giocano causando
disastri mamme preoccupate padri che ridono nonnine col bastone vecchietti
arzilli donne uomini sorrisi: allora la vita era proprio questa, un’accozzaglia
strana e bellissima che ti invade e ti investe.
Si fece mettere giù, protestando per la lentezza – “Ed,
cazzo dai, non sono mica di cristallo!” “Ma come parli!” “Come te, cattiva
influenza.” “E chi cavolo avrebbe detto che sono una cattiva influenza, eh?”
“Winry.” –, prese le stampelle e cominciò a curiosare in giro, come una trottola
impazzita, esattamente come un cane festoso.
“Ed, guarda quanto sono grosse queste mele! E le
fragole, guarda la signora me le fa provare, ah ma sono così buone! Ah, la
carne, la carne! Voglio lo stufato stasera! Dici a Winry di farmelo, vero? Non
voglio niente rifatto da te, tu fai schifo a cucinare! Ed, Ed, Ed!”
Un pulcino pigolante con le piume che scintillavano al
solo guardarlo.
“Voglio una torta di fragole, e poi – senti qua che
buono questo latte, è fresco, come fa a non piacerti!”
“La sai già la mia opinione in merito.”
“Sì, blablabla, niente che
venga spremuto da una mucca, bah! Non capisci niente!”
“Ma capirai tanto tu!”
“Ben più di te.”
Zoppicava e a tratti incespicava e Edward aveva sempre
paura che cadesse rovinosamente su una delle bancarelle, ma non lo fece mai.
Si meravigliava per qualsiasi cosa: per la rugosità
delle zampe delle galline, per quei loro occhietti luminosi e minuscoli, per i
cani che accorrevano quando fischiavi nella loro direzione, per il sapore
freschissimo ed intenso dei meloni e delle ciliegie, per il riflesso del sole
sulle pozzanghere – ieri aveva piovuto tutto il giorno, e Al era
spaventatissimo all’idea di non poter uscire: Ed ancora non glielo permetteva,
col brutto tempo. “Preferisco un Al rompiscatole e capriccioso di un Al con un
febbrone da cavallo.”, aveva sentenziato all’ennesimo lamento, mettendo fine
alle proteste mettendoselo tra le gambe, davanti ad una tazza di latte e miele.
Quello aveva sbuffato, dichiarandosi sconfitto alla prima sorsata
Alphonse si innamorò perdutamente di una gabbietta per
uccellini in ferro battuto, nera e semplicissima, e voltò la testa incrociando
lo sguardo del più grande, che già si preparava a dirgli no.
“Ed Ed Ed Ed
Ed daaai, guarda che bella!
Prendo un uccellino solo! Guarda, guarda, è così bella! Non possiamo lasciarla
qui, poi viene così poco! E il signore mi ha detto che mi fa lo sconto se
prendo anche questo vaso di fiori, guarda, rallegrerebbe così tanto la mia
camera! Dai, non vuoi prendermi un gatto, fammi avere almeno questo! Un
uccellino, uno solo! Uno carino, che piacerà anche a te! Lo chiamerò come te in
tuo onore se me lo compri!”
Finirono per prendere solo la gabbia e una coppia di
inseparabili, che chiamò Edward e Alphonse, che il signore dagli occhi a
mandorla fece uscire da non seppe mai bene dove. Al cinguettava proprio come
loro.
Mentre camminava – anzi, zoppicava sostenendo di
riuscire oramai a camminare benissimo – Ed gli stava dietro come una mamma
chioccia, e sputò un polmone per terra quando vide Roy Mustang salutare suo
fratello, non sapeva se per la figura in sé o perché era uno dei mille contatti
che entrambi avevano col passato. Scosse la testa e anticipò ogni respiro del
fratello. “Sempre a perdere tempo in giro, eh, Mustang.”
“Sempre in giro ad esistere, eh, Fullmetal.”
“È così idiota che non sa neppure trovarsi una battuta
sua per offendermi?”
“Fullmetal?”
Roy guardò il più giovane dei fratelli Elric con
espressione stupita. “Sì, Fullmetal…”, ripeté
sentendosi un po’ stupido.
Alphonse allargò gli occhi, un’espressione ancora più
stupita della sua in viso; si voltò verso Edward, senza capire il perché di un
soprannome del genere. Ah, ecco, forse era per la gamba d’acciaio che aveva.
L’aveva persa nell’incidente, la sua di carne. Una volta Al l’aveva toccata ed
era sul punto di piangere: era gelata, chissà com’era la sensazione di
mancanza.
“Lascia stare quello che dice questo. È un cretino, e
sempre lo sarà.”, disse sbuffando, spingendolo per superare Roy, che continuava
a fissare Al come se fosse un alieno. Come mai, quando lo aveva visto, lo aveva
guardato come si guarda un estraneo? Non lo aveva salutato, e dire che fra i
due Al era il fratello educato. Aveva pronunciato Fullmetal come i bambini pronunciano le parole nuove che non conoscono.
Sospirò. Forse era solo una sua impressione. Lavorava
troppo, forse gli si stava fondendo il cervello.
“Mustang?”
“Ti ho detto mille volte di non chiamarmi per cognome, Riza…”, sbuffò divertito, lasciandosi prendere sottobraccio
per continuare l’avanscoperta del mercato. Anche per Roy era qualcosa di nuovo,
non aveva mai avuto il tempo di girarsene uno da paesino. Tanto valeva la pena
goderselo con lei.
“Ed, chi era quello?”, gli domandò per la seconda volta
ad alta voce, considerando come aveva spudoratamente ignorato la richiesta
precedente. Gli dovette anche tirare la maglietta sulla schiena per farsi
ascoltare, mentre tornavano a casa. Sembrava arrabbiato, o immerso in un
qualche suo contorto pensiero.
“Roy Mustang.”, rispose Ed secco, come se fosse naturale
e ovvio chi fosse quell’individuo – lo dedusse senza sapere cosa realmente si
nascondesse dietro alle labbra strette quasi a sangue.
“E quindi?”
“Un vecchio amico di famiglia…”
“Ma in questo paese esistono solo amici delle nostre
famiglie?”
“Erano famiglie molto in vista. I genitori di Winry
erano medici molto importanti e bravi, ma sono morti durante la guerra. Ti ho
parlato della guerra, no?”
“Uhm, sì…”
Non gli andava di discutere, anche se gli pareva vago,
il tono di Ed. Come se avesse paura di dirgli qualcosa di più. Faceva lo
stesso, ci avrebbe pensato un altro giorno.
La strada verso casa si colorò appena di chiacchiere
inutili, qualsiasi cosa che evitasse il silenzio. Quando arrivarono a casa, Al
sistemò Edward e Alphonse, con la loro gabbia bellissima, accanto alla
finestra. Sorrise nel vederli così vicini, che si coccolavano a vicenda col
musino; Edward gli aveva detto che spesso coppie di inseparabili vengono
formate dall’uomo, in base a sciocchezze come il colore, e che quindi c’erano
grandi possibilità che non ci fosse nessun legame affettivo fra loro. Ma il
venditore aveva assicurato che si volevano un gran bene (aveva usato proprio
queste parole, sbattendo le ciglia, e Edward lo aveva trovato semplicemente
disgustoso) e, nonostante il suo amico fosse sicuro che erano solo parole
dettate dalla volontà di sbarazzarsi presto di due inutili pennuti, Al fu
felicissimo di vederli così uniti.
All’improvviso, fredda come il ghiaccio lungo la
schiena, arrivò una fitta quasi assassina di mal di testa; la vista gli si
annebbiò, gli uccellini divennero un’unica macchia informe di colore, così come
Ed, un unico grosso sole giallo.
Ed è
sulla sedia a rotelle. Gli manca un braccio e una gamba, e la carrozzina la
stai spingendo tu. È proprio quella che hai usato fino all’altro giorno, solo
che ora è nuova. Fuori è buio pesto. Ed ha il viso talmente basso che non vedi
altro che la nuca e l’attaccatura dei capelli. Sono corti, rispetto ad ora. Lì,
sul collo, dove adesso ci sono due ciuffi sparuti, tra un po’ ci sarà una
treccia, o una coda. Adesso ci sono solo ciuffi cortissimi, appiccicati al
collo dal sudore. Non ha neppure la forza di tremare, non ti sembra nemmeno lo
stesso Edward: sembra accartocciato su se stesso, un foglio di carta buttato
nel caminetto acceso. Vorresti vomitare anche solo per la tristezza infinita e
straziante che ti provoca vederlo così.
“Cosa
diavolo è successo?!”
Un
uomo adulto, coi capelli neri, che è arrivato senza che tu te ne accorgessi,
prende tuo fratello per la maglietta. Ti fa paura, hai paura che possa far del
male a Ed. Piano, te lo riprendi, mormori “Mi dispiace, mi dispiace…”
È
questa la tua voce? Rimbomba come dentro ad una caverna. E le tue mani? Sono
forse mani, quelle?
L’uomo
vi guarda, nelle pupille risplende rabbia e pena, vorrebbe aiutarvi ma al
contempo è arrabbiatissimo con voi, nonostante siate bambini.
È
Roy Mustang.
“Al!! Al, mi senti?! Al!!”
Era svenuto, si era ritrovato sdraiato accanto alla
finestra con Edward e Alphonse che cinguettavano ignari. Ed (quello vero) lo fissava
sconvolto, preoccupatissimo, così come Winry e la zietta, ma la paura di Ed era
molto più grande e dilagava sul viso come inchiostro sulla carta bagnata.
“Al, Cristo Al che spavento…”
Edward lo strinse a sé, nella voce una nota incrinata di
chi sta per scoppiare a piangere. Aveva avuto paura di perderlo di nuovo; non
sapeva mai se, quando al mattino non si svegliava subito, era semplice pigrizia
o perché era di nuovo scivolato in quel coma profondo.
“Va tutto bene, Ed, va tutto bene…”
La testa gli pulsava e gli faceva male da morire. Se la
strinse fra le mani, accartocciandosi contro Ed. Si fece portare, in braccio,
fino alla camera, chiedendogli gentilmente di essere messo sdraiato sul letto.
“Se ti dicessi che ho avuto una visione mi prenderesti
in giro?”
Ed gli mise una tazza di latte sul comodino, mescolando
il miele. “Uh? Che tipo di… visione?”
“Io, te e quel Roy Mustang…”
“Ma allora non è stata una visione, era un semplice sogno…”
Alphonse mugolò, sentendosi insoddisfatto: Ed non lo
stava prendendo sul serio. “Ma no, era… era troppo
reale, sembrava un… sì, sembrava un ricordo. Però era
così strano, perché a te mancava anche il braccio, e io ero un…
un qualcosa, non so precisamente cosa…”
Di nuovo, fitte atroci di mal di testa.
“Aah, ho capito…”, rise Ed.
“Aspetta un attimo…”, aggiunse andando a prendere
un’aspirina. Anche il rumore del cucchiaino che mescolava l’acqua rimbombava
nel cranio dolorante di Alphonse. Tenendogli la schiena dritta, lo fece bere ed
iniziò a raccontare: “È un film che abbiamo visto da piccoli. Mustang ogni
tanto ci faceva da baby sitter, quando i nostri
genitori uscivano – sai, uscivamo spessissimo insieme, e ci scaricavano o a
casa mia o a casa tua, e Mustang non si faceva pagare per starci dietro, un
vero deficiente – e insieme a lui lo guardavamo sempre apposta perché lui non
lo sopportava. È un film terribile, uno di quelli recitati malissimo…
era un film di…”, si mise due dita su una tempia,
massaggiandola circolarmente, come se attirasse a sé i ricordi, così “di
invasori alieni, sì…”
Strinse gli occhi: ad Al sembrò che dovesse sforzarsi di
ricordare, mentre semplicemente doveva sforzarsi di inventare. “Il protagonista
finiva mutilato per un esperimento alieno, e tu dicevi sempre che ero io perché
era biondo, ma poi eri biondo anche tu, fra le altre cose…
e stava per tutto il tempo sulla navicella spaziale, fatto gironzolare da un
enorme coso gelatinoso e metallico insieme… non
guardarmi strano, era il tuo film preferito! E Mustang si incazzava sempre,
quando volevano vederlo, perché a lui faceva schifo e anche perché poi lo
recitavamo a memoria!”, rise alla fine.
“Oh, okay…”
A volte si sentiva deficiente, eppure si fidava
completamente e ciecamente di Edward. Non aveva mai dubitato di una sua parola,
anche quando i ricordi che gli infilava nella sua memoria vergine sembravano
assurdi. Ma gran parte del suo mondo era assurdo: l’alchimia, per esempio.
Gliel’aveva mostrata un paio di giorni prima, gliel’aveva spiegata e lui
l’aveva capita con una naturalezza di cui aveva sinceramente stupito anche se
stesso. Si meravigliava di riuscire a completare molte delle definizioni che Ed
spiegava. Succedeva anche quando parlava con Winry, o con la zietta. Loro
parlavano fra loro e lui diceva prima di loro ciò che forse le due donne neppure
avevano ancora pensato.
(Ed non aveva detto loro niente dell’amnesia di Al;
preferiva tenere tutto ciò per sé, non voleva che nessuno interferisse.)
“Non ti piace Mustang?”, gli domandò dopo un qualche
secondo di silenzio.
“Non lo sopporto. È saccente, antipatico, fa continuamente battute sul mio
aspetto fisico,” il suo tipico modo di dire che lo prendeva in giro per la
scarsa altezza (Al non avrebbe creduto possibile che qualcuno potesse prenderlo
in giro per i suoi capelli, i suoi occhi dorati, quel sorriso duro e grezzo che
si scioglieva quando sorrideva a lui, per lui) “crede di essere il migliore del
mondo, senza considerare che quello sono io. Lo ammazzerei di botte.”
Quando parlava di qualcosa o qualcuno che odiava, la
faccia di Ed si contraeva fino allo spasmo, gli occhi diventavano fessure, e Al
rideva moltissimo. Le sue risate aumentavano quando vedeva le vene delle sue
mani gonfiarsi, le nocche diventare bianche – e faceva tutto da solo, senza che
nessuno lo avesse punzecchiato, ma era solo l’effetto del semplice ricordare.
“Suppongo non lo avremo mai in giro per casa.”, disse
ridacchiando mentre finiva il suo latte, leccandosi le punte delle dita con cui
aveva tirato su gli ultimi residui di miele dal fondo della tazza.
“No, assolutamente no, neppure da morto. Oh, ma sai che
mi hai fatto venire in mente una cosa meravigliosa?”
“Sì? Cosa, cosa? Dai, non fare quel sorrisetto
deficiente, dimmi cos’è!”
“E dai, scemo, smettila di strillare! Sembri una
ragazzina!”
Le mura bianche e i mobili in legno caldo di una casa
piccola, ma sufficiente per loro, anche troppo larga. Ed lo aveva condotto ad
occhi chiusi, ignorando le sue proteste e le pretese di avere e vedere tutto e
subito.
Era perfetto ogni più piccolo angolo della loro casa –
loro davvero, questa volta, tutta completamente loro per davvero – forse non
perché lo fosse davvero, ma perché era loro, quindi era per metà di Edward.
Sentiva gli uccellini cinguettare da quella che doveva
essere la loro camera da letto.
“Idiota, cretino, deficiente, perché non me l’hai detto
subito?!”
“Così.”
“Ecco dove filavi tutte le volte che mi mettevi a
dormire di pomeriggio, infame!”
“Mah, chissà, magari andavo a puttane e la casa l’ha arredata qualcuno che ho
pagato.”
“E con quali soldi, quelli fabbricati di notte? Sei un
cretino, potevamo farlo assieme…”
“Volevo farti una sorpresa, e basta, dai.”
Voleva che tutto fosse perfetto, ancora una volta.
Fargli trovare una casa comoda, accogliente, che perfettamente rifletteva i
suoi gusti.
“Sei un cretino, questa è casa nostra, non solo mia, è
anche tua! Quanto sei deficiente…”
“Non sei affatto credibile mentre saltelli di qua e di
là come una cavalletta impazzita, lo sai?”
“Immagino.”
“Stai attento, e tieniti dietro quelle diavolo di
stampelle, Al!”
“Sì, sì, sì, sto attento!”
Non fece in tempo a finire di parlare che quasi inciampò
nei lacci delle scarpe, e ad Edward toccò essere rapido come un fulmine per
evitare che il suo naso si sfracellasse, assieme alla sua testa.
“D’accordo, d’accordo, ti sei stancato ed emozionato
abbastanza per oggi…”, sospirò mentre lo conduceva in
salotto
“Ma ho tre anni?”
“Diciamo di sì. Dai, vieni qua sul divano e ci guardiamo
un film, d’accordo? Quando hai fame dimmelo…”
Lo costrinse a sedersi, mentre lui si occupava dei fili
del televisore. Al sbuffò, osservandolo.
“Ce la fai?”
“Certo che ce la faccio, non sono mica te.”
“Con questo cosa vorresti dire?”
“Chi è che si è quasi mozzato un dito col frullatore?”
“Ma che palle che sei!”
“Io, ovviamente.”
“Sì, tu.”
“Va, stai zitto. Accendi la tv, il telecomando è di
fianco a te.”
Sul teleschermo cominciò a scorrere un film di mostri ed
inseguimenti con le macchine, quelli dalla trama assurda che piacevano tanto a
Edward e che Alphonse aveva imparato a prendere abbastanza in giro per
resistere alla loro bruttezza. Inizialmente, ad ogni insulto, Al si beccava un
pizzicotto, ma Ed aveva lasciato stare presto tale punizione, perché altrimenti
avrebbe dovuto passare più tempo sulle cosce di suo fratello che a gustarsi il
film – e a lui piacevano davvero, genuinamente, sinceramente, terribilmente.
“Ma dai, ma guarda che belli! Se proprio dobbiamo
vederla dal tuo punto di vista, non trovi commovente come quel mostro
tentacolare si impegni per mangiare il suo nemico senza lasciare neppure una
traccia? Insomma, lasciare pezzi di carne sarebbe un colpo troppo grosso per i
parenti di quell’umano, non trovi?”
“Io trovo che sarebbe meglio se ti tappassi quella
bocca.”
“Tappamela tu.”
“Okay.”
Sorrise, mentre gli infilava il telecomando in bocca.
“Ed, io ho un fratello? Cioè, lo avevo?”
Ci mancò poco che quello sputasse la colazione sul muro.
Ed al mattino si faceva bastare un caffè e un paio di fette biscottate col
burro, mentre obbligava Al a nutrirsi molto di più: torta di mele, latte con la
cioccolata, prevedendo in inverno di nutrirlo con cioccolata calda e panna
montata, poi pane caldo col burro e la marmellata. Alphonse non aveva mai avuto
nulla da ridire, considerando il grandissimo appetito che aveva da quando si
era risvegliato.
“P-perché, Al?” balbettò, cercando
di darsi un contegno e di non apparire profondamente spaventato come era in
realtà. Fantastico, si era ricordato tutto, e adesso lo avrebbe odiato con
tutto se stesso, se lo sentiva nelle ossa.
“Credo di averlo sognato, una sera di queste… in verità più volte…
cioè, ho sognato di gridare niisan, niisan ad un ombra, ad una schiena credo… cioè, in fondo è stato un bel sogno, anche se mi
sono svegliato con le lacrime, perché prima di vederlo andare via mi ha stretto
a sé, e stavo così bene… allora mi chiedevo se fosse possibile…”
Aveva un tono triste, come se prevedesse già la
risposta. In fondo, se Ed non gliene aveva ancora parlato, un motivo c’era. Si
morse il labbro e si maledisse per la stupida domanda di cui adesso non voleva
assolutamente la risposta.
“Avevi un fratellino ma…”
deglutì. Ce l’avrebbe fatta a sopravvivere davvero a tutte quelle bugie? “è
morto prima di nascere. Chissà cosa ti sta facendo ricordare certe cose, là nel
tuo cervellino…”
Al si sentì triste tutto d’un colpo. Pensò che gli
sarebbe piaciuto molto avere un fratello, lo avrebbe così tanto aiutato nella
sua ricerca.
“Forse non dovevo dirtelo…”
“No, no, stai tranquillo! Voglio sapere il più
possibile. E poi, insomma…”, e Al era tremendamente
bravo in questo, nel risollevarsi, “in fondo ho te, quindi va bene anche se non
ho un vero fratello.”
“Fratello, amico. Che palle, ancora la stessa storia.”
Alphonse stava facendo il riposino pomeridiano, e ogni
tanto Edward conservava ancora l’abitudine di osservarlo. Era un’abitudine stupida,
sciocca, ma andava bene così, ogni tanto va poi bene essere stupidi.
“Non riuscirò mai ad arrivare più in là? Stupido Al, sei
sempre uguale.”
Sospirò, accarezzandogli il viso. Sembrò non piacere a
suo fratello, che mugolò contrariato e si girò dall’altra parte. Edward sbuffò,
guardandolo male.
“Sei sempre lento e scemo. Speravo che almeno questo
lato di te fosse cambiato, insomma.”
Al aveva le mani apertissime, come se aspettasse di
essere crocifisso. Piantò un dito nel suo palmo come un chiodo, accarezzò le
linee che accennavano ad una m. Baciò i polpastrelli come si era abituato a
fare. Erano morbidi, Al aveva la pelle liscia. Aveva un bel colore ambrato ora,
la sua pelle sembrava caramello. L’avrebbe voluta assaggiare, forse era dolce.
“Mh, Ed…”
Aguzzò le orecchie appena sentì un suo respiro, e gli
rispose. “Sono qui, Al.”
Lo sentì ancora mugolare, lo sentì supplicarlo di
entrare nel suo letto. “Ho fatto un incubo.”
“Strano, non eri agitato.”
Lo strinse fortissimo a sé, carezzandogli la schiena,
aspettando il fiume in piena.
“Ho ancora sognato di essere un’armatura. Era… era terribile, non sentivo niente, prendevo in mano
tanti gatti ma non riuscivo a sentire quanto fossero morbidi, provavo a
concentrarmi su quanto fossi felice e… niente,
niente, non sentivo assolutamente niente. E, Dio, era un incubo ma sembrava
così reale, mi sentivo soffocato, oppresso, non riuscivo a respirare…
non dovevo respirare, ero una… cosa vuota, oddio…”
Gli baciò le tempie che pulsavano, cercando di
infondergli calma.
“È stato solo un sogno, un brutto sogno, non è la
realtà, non è la realtà, stai tranquillo…”
Sentiva il suo cuore battere all’impazzata, il suo
respiro affannato e pesante. Ogni lacrima si imprimeva a fuoco dentro di lui,
come una muta accusa.
“Stupido, non ti preoccupare. Ci penserò io a non farti
diventare mai un’armatura, se hai così tanta paura che possa accadere. Non mi
piacciono le armature, meglio i robot sanguinari. Tu non potresti mai diventare
un robot sanguinario, sei troppo buono e stupido.”
Alphonse rise, tirando su col naso.
“Tu ci sarai sempre per me?”
“Sempre, stupido.”
“E smettila di chiamarmi stupido!”
“Se sei stupido non è certo colpa mia.”
Alphonse tirò di nuovo su col naso, accoccolandosi ancora
di più.
Spesso sfumavano in quel certo calore, i suoi incubi:
nell’abbraccio confortante di Edward. Era una bella fine.
A volte succedeva il contrario. Era Edward a svegliarsi
in un bagno di sudore, con la gola che bruciava.
Perché
gli menti? Perché fai questo gioco orrendo con lui? Chi ti credi di essere, per
poter decidere cos’è meglio per lui? Credi forse che davvero lui sia più felice
all’idea di essere solo al mondo? Se gli avessi detto la verità, almeno
saprebbe di avere un fratello. Lo sai anche tu quanto sia migliore il cammino
più arduo e le intemperie più massacranti, quanto siano più facili da
sopportare, con un fratello al fianco: tu chi sei per poterlo privare di questa
sicurezza? È solo egoismo, il tuo, semplice e puro desiderio di lussuria – tu
vuoi finirci a letto e mantenere la coscienza pulita, vero? Nascondi il suo
desiderio puramente carnale dietro ad una coltre nebulosa e densa di scuse su
scuse, miliardi di brave parole, di autoinganni; non lo fai per Al, lo fai per
te stesso. Verme. Non cercare di ingannarti pensando di affogare nell’oblio. Io
te lo impedirò.
Qualcosa di simile alla Verità penetrava con forza nei
suoi sogni per impedirgli di dormire. E in quelle occasioni un buco nero
assorbiva ogni sua capacità di chiudere nuovamente gli occhi per scivolare nel
sonno, se non profondo almeno lievemente rilassante.
“Cos’è successo, Ed?”
Al se lo ritrovò nel letto, un mattino, dopo una di
quelle notti, non accoccolato, distante da lui, che gli dava la schiena, come se avesse messo un muro fra loro. Non
ottenendo risposta alcuna, si limitò ad accarezzargli i capelli e soffocare i suoi
tremori in un abbraccio. Sospirò per la sua testardaggine.
“Ed, sei tutto sudato.”
Lo era per l’estate torrida che si stava sfogando sulla
loro campagna e per gli incubi. Aveva la canottiera appiccicata alla schiena,
il cotone bianco aderiva alle scapole. “Ti va se facciamo un bagno?”
Avrebbe preso due piccioni con una fava: lo avrebbe
tranquillizzato e avrebbe avuto un’occasione in più per avere il suo corpo
attaccato al proprio.
“D’accordo.”
Ed si alzò a fatica, senza realmente volerlo. Ogni tanto
si sarebbe voluto raggomitolare su se stesso e scomparire per un po’.
Fortunatamente nella sua vita c’era sempre stato Al, che glielo aveva impedito.
Al era la sua unica fortuna.
Si fece prendere per mano dal suo fratellino, che un po’
zoppicando lo condusse in bagno: si spogliò e spogliò l’altro, mentre l’acqua
calda riempiva la stanza e il vapore appannava gli specchi.
Al non gli chiese mai da dove provenissero quelle
cicatrici. Gli facevano male solo a guardarle, non voleva che fosse esistito un
tempo in cui Ed era da solo e lui non poteva proteggerlo. Nonostante quelle, la
vista del corpo di Edward lo faceva impazzire.
Lo fece sedere tra le proprie gambe, nella vasca, e
appoggiò la testa nell’incavo della spalla. Sotto i suoi baci la pelle era
salata. Gli carezzò appena la pelle del collo, stringendolo a sé con le
braccia. Non lo sentì mugolare, il che significava che stava ancora
rimuginando, oppure si era addormentato.
“Ed?”
“Sì?”
Okay, era sveglio.
“Vuoi dirmi cos’hai sognato?”, sospirò circondandogli la
vita con le braccia. A volte era stressante avere a che fare con lui.
Ed sussultò: non poteva dirgli di aver sognato che si
ricordava tutto e lo malediva, lo cacciava fuori dalla sua vita.
“Un sogno stupido.”
“E per un sogno stupido ti sei rifugiato nel mio letto?”
“Non sono venuto per il sogno.”
“E per cosa, allora?”
“Per assicurarmi che respirassi bene durante la notte.”
Al scoppiò a ridere e lo strinse forte a sé, senza
smettere. Certo che era deficiente. Ma lo amava anche per questo.
“Fatti lavare, va, e sappi che non sei per nulla bravo a
raccontare palle…”
Gli fece lo shampoo e stettero in silenzio, ascoltando
semplicemente il respiro uno dell’altro. Alla fine del bagno Ed odorava da
femmina: Al era andato ad elemosinare shampoo e bagnoschiuma da Winry, in un
momento in cui non c’erano soldi neppure per piangere. Ed profumava da ragazza
e comunque gli piaceva da morire.
“Tutto è uno, uno è tutto. Io sono te, e tu sei me.”
Era una strana dichiarazione per cui Ed aveva aspettato
lunghissimi, interminabili mesi. Fece fremere Al di piacere. Nemmeno le sue
dita e le sue labbra lo accarezzarono con tanta dolcezza, con tanto amore.
“Io sono tuo, e tu sei mio.”
Lo baciò ovunque, senza freno, senza posa. Affamato.
Voleva mangiare ogni più piccola parte di lui. La luce della Luna lo
disturbava, perché sembrava volersi impadronire di un pezzetto di Al, mentre l’universo
intero avrebbe dovuto sapere che Al non era condivisibile con niente e nessuno.
Contò gli infiniti suoi sospiri, colmò il vuoto nelle sue labbra. Lo guardò con
tanta intensità da farlo tremare.
Non aveva mai immaginato che Edward Elric potesse essere
così delicato, nel toccarlo. Tutta quella dolcezza nel toccarlo sembrava così
fuori dal suo carattere. Per quanto il suo comportamento con lui fosse sempre
stato così, non si aspettava potesse essere così dolce anche nel rapporto
fisico.
Al lo abbracciò al collo, quasi piangendo per la
bellezza di un sogno avverato, di una visione che pregava non rivelarsi
un’illusione, uno di quei suoi sogni realistici. (come quando aveva sognato di ottenere di nuovo un corpo, di volere la
torta di mele di Winry e toccare suo fratello. Ma lui non aveva un fratello.)
“Tuo?”, domandò sulle sue labbra, prima di baciarlo. Ed
era entrato nel letto di soppiatto, senza parlare, con piedi di piuma. Non
voleva far rumore se non per i baci e le parole. Al aveva creduto fossero gli
incubi. Invece avevo premuto forte le labbra contro le sue, senza grazia.
Quella l’aveva inserita dopo, dopo aver parlato.
“Ogni tua cellula, ogni tua fibra.”
Infilò le mani sotto la maglietta, afferrò i fianchi e
li carezzò forte. Guardava Al e se ne innamorava ancora, per i suoi occhi e le
sue labbra protese. Per i due Al che univa, per l’unico Al che riusciva sempre
ad essere, l’Al di cui si era innamorato da piccolo, l’Al di cui non si era
reso conto di essere innamorato perché il suo era un trasporto e un’affezione
così travolgente e naturale da non essere riconosciuta come innamoramento;
quell’Al che si era sempre aperto meravigliosamente sin dal primo giorno della
sua nuova vita, quello che gli lasciava ogni porta aperta nella vecchia. Il suo
sempre Al.
“E tu sei mio?”
Sorrise, mentre si toglievano i pantaloni a vicenda, il
fruscio dei vestiti che si mescolava assieme all’affannato respiro.
“Completamente.”
Le notti troppo buie lo inquietavano. Non voleva dormire
immerso nel nero, gli sembrava di soffocare. In quelle notti si comportava come
un fiore, chiudendo i petali su se stesso, chinando il capo e lentamente,
continuamente pregando che arrivi presto il giorno, le parole sussurrate e
mangiate come briciole. Accendeva una stella e si aggrappava a Edward.
Quella era una di quelle notti. Gli strinse la maglietta
sul petto, accoccolandosi e respirando dai suoi polmoni.
“Niisan…”, mormorò con un
trasparente filo di voce, baciandogli il petto. Avevano entrambi le gambe nude,
sentiva il fastidio delle lenzuola vecchie sulle cosce; avevano appena fatto
l’amore velocemente, come per estinguere presto il desiderio galoppante, come
se non ci fosse stato tempo se non per l’atto in sé. Intrecciò le gambe con
quelle del fratello, lo sentì borbottare nel sonno. Trattenne una risata,
riusciva a brontolare per qualcosa anche dormendo.
Le notti buie gli ricordavano la sua armatura, e
preferiva non farlo, non stare male di nuovo. Andava bene così.
Aveva ricordato tutto. Ma non aveva intenzione di dirgli
nulla. Era accaduto piano, piano, un po’ alla volta. Tanti ricordi che a volte
cozzavano tra loro, a volte si incastravano, come tanti minuscoli pezzi di un
puzzle.
(“Ed?”
“Che c’è?”
“Hai mai avuto una protesi al braccio?”
“No, altrimenti ce l’avrei ancora, non ti sembra?”)
(“Ed, ti giuro, so che non è un sogno, non è una mia
visione, tu combattevi contro, contro… contro degli
homunculus, o come si chiamano, e…”
“Al, niente letto subito dopo i film dell’orrore, eh?”)
Aveva fatto male,
la sua testa sembrava voler esplodere; non lo faceva mai, lui era diventato più
forte di qualsiasi cosa. Si erano accumulati per mesi nel suo cuore senza che
gli dessero fastidio, poi erano esplodi, come una bomba in un album di
fotografie. Si era incazzato, lo aveva odiato per giorni – giorni eterni in cui
Edward non sapeva cosa fare, si disperava –
in cui toccarlo equivaleva ad una scossa elettrica. Poi aveva capito, e
aveva deciso che andava bene così.
C’erano giorni in cui doveva sforzarsi di non chiamarlo
niisan.
Ma in fondo andava bene così.
Aveva l’amore di Edward, riusciva a capire in profondità
cosa lo aveva spinto ad agire così – il suo stesso, soffocante, totalizzante
desiderio.
Andava bene così.
Andava davvero tutto bene così.