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Autore: Sorella_Erba    12/07/2010    4 recensioni
Era sangue, e avrebbe voluto dire di essere stato costretto, ma entrambi sapevano che non era stato così.
Riferimenti alle guerre franco-spagnole per il possesso dell'Italia meridionale e alle rivolte nel Sud contro la dominazione spagnola. Antonio/Lovino, shonen-ai.
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Spagna/Antonio Fernandez Carriedo, Sud Italia/Lovino Vargas
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Rojo sangre.
(One-shot, 649 parole).

Neanche il tempo di strappare un morso che l’ortaggio gli era scivolato via dalle mani, macchiando il pavimento dello stesso rosso acceso che sporcava, in quel momento, il viso abbronzato di Antonio. Aveva un che di magnetico, quel colore, sui suoi lineamenti morbidi e ombrosi – non fu capace di staccare gli occhi, mentre il pomodoro balzava pesantemente sulla pietra fredda, rotolava e si accasciava con l’identica fiacchezza di un palloncino svuotato d’aria.
«Spagna…?». Non riuscì a deglutire il boccone per lo spavento.
Antonio di rimando gli sorrise, per quanto riuscisse, sforzandosi di rassicurarlo: il sangue riluceva sulla sua bocca come se labbra e denti fossero stati ricoperti da minute pietre preziose.
«Non spaventarti, Lovi. Sono io».
Il buio della sera contribuiva a rendere la figura del suo padrone ancor più sparuta e spettrale. Lovino rimase immobile, impietrito dallo sgomento. Sentì il clangore della spada caduta frastornargli i timpani e riecheggiare per le alte arcate del soffitto, assieme ai passi lenti e instabili di Antonio, che avanzava verso di lui. Quando lo circondò in un abbraccio, l’odore di sangue – cattivo, così cattivo e così poco consono a quella presenza rassicurante – si fece più forte.
«Non volevo, scusami».
E tremava, si accorse Lovino, tremava. E continuò a tremare – forse per la spossatezza, forse per il dolore o per la contentezza di aver fatto ritorno vittorioso – anche quando crollò per terra, ai piedi di colui per il quale aveva combattuto.


«L’ho fatto per te».
Medicarlo era un compito semplice da assolvere. Antonio non si muoveva, statico nella sua posa fiacca, le spalle curve a offrirgli graffi e ferite da detergere e bendare; rimaneva fermo anche quando Lovino frizionava con vigore eccessivo sui tagli – accidentalmente, per una volta, mosso da parole scomode.
«L’ho fatto perché ti voglio qui».
«L’hai fatto per te, allora», ribatté sprezzante Lovino. Annodò la fasciatura sul braccio con un gesto secco, lanciandogli poi uno sguardo, timoroso di aver stretto troppo. Antonio continuava a guardare i movimenti delle sue mani, impassibile.
«L’ho fatto perché tu mi appartieni. Non so cosa sarei capace di fare se perdessi qualcosa di caro».
«Non sono un bottino, bastardo. Ho il mio orgoglio».
«Sei mio. È come perdere un pezzo di me, capisci?».
Spagna era la Nazione più vanagloriosa e dispotica del globo intero a pensare di poterlo monopolizzare in una maniera così assurdamente sfrontata.
«Smettila con queste stronzate, idiota».
«Non lasciarmi, Lovi. Io prometto di proteggerti, contro chiunque e fino all’ultima goccia di sangue, ma tu non lasciarmi».
Era diretto, brutalmente possessivo, e se anche Lovino avesse soltanto accarezzato l’idea dell’intenzionalità di quell’atteggiamento, la schiettezza e la genuinità di Antonio – dei suoi gesti e delle parole pronunciate istintive – avrebbero confutato ogni  suo dubbio. La naturalezza con cui parlava e giurava lo ammutoliva.
Lui, però, non poteva promettergli nulla.


Antonio non avrebbe mai creduto che, un giorno, sarebbe arrivato a odiare il rosso colore dei suoi pomodori.
Era dappertutto.
Per terra, sulle macerie desolate che si ergevano mostrando al tramonto i loro contorni distorti, sulla sua divisa; macchiava la lucentezza della spada che teneva in pugno e si sentiva il viso sporco.
Lo odiava, perché ne aveva le mani zuppe e non aveva lo stesso odore del succo di pomodoro che, nei pomeriggi d’estate, era solito preparare in compagnia di Lovino e della sua impazienza.
Era sangue, e avrebbe voluto dire di essere stato costretto, ma entrambi sapevano che non era stato così. Era stato lui a costringerlo, con la sua possessività e il suo dispotismo d’innamorato, a indurlo a sollevare la spada nel disperato tentativo di liberarsi.
«L’ho fatto perché sei mio».
Da quella distanza non riusciva a scorgere il volto di Lovino, immerso nell’ombra, ma sapeva che, adesso, somigliava in maniera incredibile al frutto col quale l’aveva nutrito. Era rosso, di un rosso che faceva male agli occhi. Si lasciò scivolare, stramazzare, e, inginocchiatosi sulla povere, si coprì il viso con le mani.
   
 
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