Please, love me.
Prologue:
Penny
sfogliava convulsamente il vecchio libro,
con le pagine consunte, della nonna. Era un libro di stregoneria, o
almeno sua
nonna le aveva sempre detto così, ma Penny non è
che credesse molto nella
stregoneria. Però era curiosa di provare, tanto per fare
qualcosa in una
qualunque giornata afosa di agosto. –Ecco! Proviamo questo!-
disse poi rivolta
all’amica Lisa. L’incantesimo recitava:
Se
il tuo
amore vorrai salvare,
queste
parole dovrai recitare.
Da
futuro
chiamare dovrai,
una
fanciulla che farà delle sue virtù e conoscenze,
salvezza
per le tue pene del presente.
-Sei
sicura Penny?- chiese titubante Lisa.
-Certo,
poi è solo un gioco- e così dicendo
pronuncio il fatidico incantesimo che cambiò tutto. Anche se
apparentemente,
per i tre giorni successivi non successe nulla di insolito.
Capitolo
1:
E’
dalla fine che comincia
l’inizio.
7
dicembre 2010
L’auto
sfrecciava lungo la statale 26 verso l’aeroporto di New York,
mentre
nell’abitacolo risuonava la voce di John Lennon.
Imagine there's no Heaven, It's easy if you try.
Di
li a poco avremmo dovuto prendere quel
maledetto aereo per Liverpool.
-Spiegami
ancora una volta perché dobbiamo trasferirci a Liverpool-
chiesi acida a mia
madre, era una domanda retorica si sa, ma volevo provare un ultimo
tentativo
per farla sentire in colpa e magari riportarmi a casa.
-Beks,
lo sai, non puoi restare a New York, ne abbiamo già parlato
con lo psicologo-
rispose esasperata mia madre.
-Ho
quasi 18 anni, a settembre vado al college,e credi che trattenermi a
Liverpool
per qualche mese possa cambiare la situazione?- chiesi a dir poco
scocciata,
sicuramente mi stava prendendo in giro, il suo ragionamento non aveva
senso.
-Puoi
anche andare al college in Inghilterra non trovi? Andiamo Rebecca, non
rendere
le cose più difficili di quello che non sono già
ora- e mi guardò in modo
supplichevole.
-Io
non ho nessun problema cavolo!!! Sei tu che stai complicando tutto
portandomi
via da New York- questa era veramente l’ultima carta, o la va
o la spacca.
You may say that I'm a dreamer, But I'm not the
only one.
-Non
mi freghi Becky, mettiti il cuore in pace- dopo quelle parole capii che
non
avevo altre possibilità di tornare a casa. Misi il broncio e
rimasi zitta per
il resto del viaggio, fino all’aeroporto.
Non
volevo andarmene da New York, era casa mia, era l’ultima cosa
rimasta che mi
legava a David, che mi legava a mio padre e alla mia spensierata
infanzia. Era
tutto quello che avevo, non volevo andarmene.
Mi
sentivo come se mi avessero strappato una parte di me, come se quel
dolore che
aveva costretto mia madre a cambiare città fosse tornato
vivo e pulsante. Me lo
ricordo come se fosse ieri, ricordo ancora quando andai a trovare David
per
l’ultima volta.
-Cosa
farò senza di te?-
chiesi fra le lacrime, mentre David era sdraiato su quel letto,
così asettico e
insignificante, il rumore del respiratore in sottofondo.
-Ce
la farai- mi rispose
con un sorriso nel volto ormai incavato, era diventato molto magro,
colpa della
malattia. Però riuscivo a riconoscere ancora quegli occhi
blu pieni di vita e
di gioia, come sempre.
-Non
puoi abbandonarmi, me
lo avevi promesso- la mia voce era straziata dal dolore, avrei tanto
voluto
essere forte come lui, ma non ci riuscivo, piangevo, piangevo e piano,
piano…poco alla volta morivo dentro.
-Lo
so- aveva la voce
spezzata. –Ti prego, non voglio un altro motivo per avercela
con Dio- e mi
strinse la mano con la poca forza che gli era rimasta.
-Ti
amo- dissi con un
nodo alla gola.
-Anche
io ti amo- .
La
sera che se ne andò, nessuno dei due aveva parlato. Eravamo
rimasti tutto il
tempo in silenzio, stringevo la sua mano, accoccolata di fianco a lui.
Ad un certo punto
la presa si allentò, sempre di
più. Non piansi, non subito, all’inizio non
riuscivo ancora a capacitarmene,
era morto. Andato per sempre. Non avrei mai più sentito la
sua risata, il suo
profumo, nessuna chiamata da parte sua, non avrei più potuto
baciarlo,
parlargli. Era finita per sempre. Continuavo a pensare a queste cose,
mentre
guardavo l’alba fuori dalla finestra, senza riuscire a
versare una lacrima.
Ormai non ne avevo più. Ero traboccante di dolore. Dolore
che non riuscivo ad
esternare e che piano, piano si trasformò in odio, odio
verso tutti, verso il
mondo, verso la vita.
Un
odio straziante, odiavo pure David, perché mi aveva lasciata
a quel modo.
Poi
l’odio a sua volta si trasformò in indifferenza
verso tutto ciò che prima
rendeva la mia vita degna di essere vissuta. Avevo smesso di uscire con
gli
amici, di andare alle lezioni di danza classica, non andavo nemmeno
più a
trovare il mio cavallo. Ero diventata una specie di automa, facevo il
giusto
necessario per sopravvivere, l’unico piccolo svago che mi
concedevo erano i
Beatles e la mia chitarra, una splendida Epiphone Les Paul regalatami
da mio
padre poco prima che morisse in un incidente stradale quando avevo solo
dieci
anni.
Mi
rendevo conto che così la situazione era diventata
insostenibile ma non
riuscivo a saltarne fuori, ogni volta che facevo un piccolo
miglioramento e
cercavo di tornare quella ragazza piena di vita che ero prima, ecco che
qualcosa mi ricordava che David non c’era più. Era
difficile da accantonare
quel fatto, David non solo era stato il mio ragazzo, prima di tutto era
il mio
migliore amico da quando avevo cinque anni, era il mio confidente,
colui che mi
sosteneva quando ne avevo bisogno. Senza di lui non mi sarei mai
iscritta al
corso di danza. Senza di lui non avrei mai avuto il coraggio di
sostenere un balletto
al teatro della scuola quando avevo solo dieci anni e mio padre era
morto da
poco. Era il mio carpe diem, insieme avevamo vissuto ogni singolo
momento al
massimo, ad una velocità supersonica. Era il mio primo
tutto, il primo amico
con cui avevo litigato, il primo a cui parlavo quando avevo un
problema, il
primo a cui feci sentire una canzone scritta da me, il primo ragazzo
che avevo
baciato e anche il primo con cui avevo fatto l’amore. E ora
lui non c’era più,
quindi era abbastanza comprensibile che mi sentissi anche solo un
po’
disorientata. Non è che avessi proprio smesso di vivere
completamente, ma mi
ero messa in pausa, come se dovessi fare il punto della situazione.
Dovevo
decidere chi volevo essere e cosa volevo farne della mia vita.
La
settimana prima di partire avevo già deciso che sarei
tornata a danza e che
avrei fatto di tutto per entrare alla Juilliard proprio come avevo
promesso a
David, come avevo promesso anche a me stessa. Ma mia madre decise di
punto in
bianco che l’aria di Liverpool mi avrebbe fatto bene, per
“staccare”, come dice
lei, da tutto. E così aveva deciso di andare a vivere nella
vecchia casa della
zia Penny, morta ormai da qualche anno. Non che Liverpool non mi
piacesse, era
la città che dava i natali ai miei Favolosi
4, ma i miei piani di riprendere a danzare e di andare alla
Juilliard
andarono in fumo. Inoltre non volevo lasciare New York, quei ricordi
per quanto
mi facessero male erano meglio che finire catapultata in un luogo a me
estraneo. Ma mia madre fu irremovibile, soprattutto perché
anche secondo lo
psicologo “cambiare aria” mi avrebbe fatto bene. E
figuriamoci se lei non
ascoltava lo psicologo, che di me non sapeva proprio nulla.
Quindi
eccoci qui a Liverpool; il taxi si fermò davanti a questa
casa simile a tutte
le altre in Menlove Avenue, fuori pioveva e il vento tagliente mi
colpì in
pieno viso appena scesi dall’auto. Mia madre e mia sorella
presero i bagagli ed
entrarono prima di me, mentre io rimasi li fuori a contemplare
Entrata
in casa mi trovai subito di fronte a un corridoio che portava alle
scale per il
piano superiore, alla mia destra c’era un salotto e a
sinistra
-Becky
non è che verresti a darci una mano con i bagagli?- sentii
chiedere con tono
retorico, mia madre.
-Arrivo!-
e così dicendo presi a salire gli scalini che
scricchiolavano sempre di più man
mano che salivo.
-Mamma,
questa casa è una catapecchia!- brontolai entrando in quella
che, a quanto
pare, lei aveva deciso fosse la sua camera da letto.
-Non
incominciare a lamentarti Rebecca- rispose spazientita senza nemmeno
guardarmi
in faccia, -e piuttosto, vai a disfare i tuoi bagagli, li trovi
nell’ultima
camera in fondo al corridoio- .
La
finestra di camera mia si affacciava sul retro del giardino, la stanza
era
abbastanza grande e spaziosa. C’era un vecchio letto in legno
massiccio, con la
testata ricoperta di velluto verde acqua, alla mia destra in fondo alla
stanza;
di fronte invece c’era uno scrittoio con uno specchio molto
antico, forse
risaliva ai primi del ‘900. E per finire un grande armadio
marrone scuro di
fronte al letto. Per prima cosa, prima ancora di disfare i bagagli,
presi il
quadro con il poster dei Beatles e lo appesi proprio di fianco al
letto, dove
c’era un chiodo ancora appeso alla parete e faceva proprio al
caso mio. E
proprio li di fianco c’era una piccola scritta incisa nel
legno: “John” e un
cuoricino, chissà chi l’aveva fatta. Poi
improvvisamente tornai alla realtà e
mi accorsi che ero completamente fradicia, mi tolsi i vestiti e presi
un paio
di jeans grigi e una T-shirt blu che diceva: “Defend New
Orleans” , andai nel
bagno di fronte alla mia camera e feci una doccia calda. Proprio quello
che ci
voleva. Tornata in camera, siccome faceva freddo, sopra i jeans
indossai delle
calze azzurre di lana e poi misi le All Star blu. Con tutti i capelli
arruffati, sembravo una appena scappata dal manicomio, ma poco mi
importava,
tanto ero sdraiata sul letto di camera mia e non dovevo farmi vedere da
nessuno. Sdraiata sul letto notai che sul soffitto c’era una
botola, sembrava
quasi una porticina per la casa di un nano, se non fosse stato che,
appunto, si
trovava sul soffitto. Mi fece venire in mente “Alice nel
paese delle
meraviglie” quando all’inizio si trova a dover
scegliere da quale porta poter
scappare.
Prova
a scappare in
quella…magari è collegata con una soffitta di New
York. Sorrisi
a quel pensiero e
incuriosita mi alzai in piedi sul letto e l’aprii.
Improvvisamente
scese giù una scaletta di legno tutta impolverata,
evidentemente erano
moltissimi anni che nessuno la usava più.
Era
buio lassù, quindi tirai fuori dalla tasca il cellulare per
fare un po’ luce.
Salii le scale con un po’ di timore, avevo sempre avuto
un’inconscia paura del
buio, pensavo sempre che da un momento all’altro qualcuno o
qualcosa mi sarebbe
saltato addosso, eppure era stupido perché sapevo
perfettamente che non ci
sarebbe stato nessuno. Arrivata li su trovai subito
l’interruttore della luce,
una volta accesa vidi che era una soffitta piena di vecchie cose in
disuso.
C’erano vecchi bauli, quadri, una vecchia lampada da salotto,
di quelle che da
piccola mi facevano sempre pensare a bustini per dame
dell’800 e poi c’era
anche una vecchia –e rotta aggiungerei- chitarra classica
tutta impolverata.
Curiosa com’ero –e come sono tutt’ora-
aprii il primo baule che mi trovai
davanti, dentro c’erano un sacco di lettere, quaderni e
diari, ne aprii uno a
caso.
20
Agosto,
1958
Caro
diario,
Nessuno
mi capisce
davvero, la mamma continua a dire che dovrei pensare a diventare una
buona
casalinga e che è disdicevole che una ragazza della mia
età non sappia ancora
stirare e dice che dovrei smettere di suonare il violoncello, dice che
con
quello non mi guadagnerò mai da vivere e non
troverò mai marito. Tanto è
inutile, non lo troverei comunque marito, a me piace solo John ma a lui
non
interesso. Non mi ha mai considerato in “quel
modo”, eppure andiamo alla stessa
scuola, abitiamo nella stessa via e siamo pure molto amici. A lui
però
interessa solo la sua stupida band, i
“Quarryman”…ma che nome è
dico io? Almeno
poteva trovarne uno più originale!! In ogni caso sono
proprio depressa perché
non c’è nulla nella mia vita che vada per il verso
giusto. L’altro giorno per
la noia ho pure provato a fare uno di quegli incantesimi del libro di
nonna
Betty, ma mi sa che sono solo cavolate perché non
è successo nulla.
Tua,
Penny.
Zia
Penny aveva scritto questo? ZIA PENNY CONOSCEVA JOHN LENNON!!!??????
Per un
attimo mi mancò il respiro, mi dimenticai che ero triste
perché David era
morto, perché ero andata via da New York e per tutta una
serie di altre circostanze
poco gradevoli. Così mi voltai verso l’apertura
della botola per raccontarlo,
ma che dico, urlarlo a mia madre e mia sorella; solo che non feci in
tempo a
raggiungere l’apertura nel pavimento che una scossa, come di
un terremoto,
colpì
Poi
qualcosa mi cascò in testa e il resto è nulla.
Quando
mi risvegliai, avevo le tempie che mi dolorava un po’, cercai
di alzarmi ma mi
girava la testa così mi misi a sedere. Rimasi scioccata da
quello che vidi, la
stanza era sempre la stessa ma gli oggetti di prima non
c’erano più, e la
piccola finestrella che prima era chiusa ora era aperta e vi entrava la
luce
del sole e non di un debole sole di Dicembre, sembrava proprio estate,
da
vedere così. Cercai di non mettermi a urlare o piangere,
forse ero morta. O
forse ero solo svenuta e in questo momento mi trovavo in coma
all’ospedale. Che
bella prospettiva.
-Mammaaaa!!!??-
provai a chiamare, magari…
Non
sentii nessuna risposta.
-Aiutoooo!!!-
urlai di nuovo.
Questa
volta sentii dei passi decisi sotto di me, sentii la porta di camera
mia
aprirsi e qualcuno che convulsamente saliva la scaletta di legno per
entrare in
soffitta.
-Mary!!
Avevo ragione io!! Ci sono riuscita alla fine!- urlò una
giovane ragazza
guardandomi con un’aria molto felice e sorpresa. Sembrava
proprio zia Penny.
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Bene....alla fine mi sono decisa a pubblicarla...erano 3 mesi che ci rimurginavo sopra...spero che come primo capitolo vi piaccia.
*si perchè secondo te qualcuno lo viene a leggere sul serio?* n.d. John
*Si!!! io ci spero scusa eh :( * n.d. me
*Dai John lascia che si illuda almeno un pochino* n.d. George