Premessa
La Narratrice: Preludio
Marta si avviò velocemente verso il portone di casa, trotterellando sui tacchi
a spillo che, come diceva sua madre, “regalavano slancio alla figura”.
Purtroppo avevano uno svantaggio: il tacco sinistro si incastrò
in un tombino, costringendo la bionda sedicenne a fermarsi nel bel mezzo della
strada buia, lanciando sottovoce un’imprecazione.
“Guarda cosa mi doveva capitare…” Marta cominciò a tirare furiosamente per
disincastrare il tacco.
Improvvisamente si bloccò, avvertendo un fruscio dietro di sé. Piedi di metallo
si avvicinavano, producendo uno sgradevole rumore sull’asfalto.
Piedi di metallo… no, non può essere!
Marta si voltò di scatto, sbarrando gli occhi di un’indefinita tonalità
nocciola. Nessuno. Doveva smettere di leggere romanzi fantasy,
uno in particolare… stava diventando paranoica…
Sorrise nervosamente.
Spesso aveva la sensazione di essere osservata, spiata da occhi invisibili,
lontani nel tempo e nello spazio. Un’altra dimensione, un altro mondo… fra la
realtà e l’immaginazione…
Involontariamente, le balzarono alla mente le parole
‘Terra di Mezzo’. “Dannazione, smettila!” mormorò Marta. “Ora inizierà la
scuola, e tu non hai ancora finito di preparare i compiti, non puoi metterti a
pensare a queste… queste…” non riuscì a pronunciare la parola ‘sciocchezze’.
Un rumore aveva attirato ancora la sua attenzione. Ancora quello sbattere
sommesso di stivali metallici, lenti e… determinati. Questa volta non se l’era
immaginato. Sollevò gli occhi dal tombino, in tempo per vedere una cappa nera,
un volto senza occhi. Un lampo di consapevolezza le attraversò il cervello. E, stordita da quei pensieri, perse conoscenza.
Marta riprese i sensi con uno scossone particolarmente violento. Pensò di
essere sul pullman per la scuola. “Oooh… Nena… che ore sono?” mugugnò. Una
zaffata di puzzo di muffa colpì le sue narici, e Marta si svegliò del tutto.
Lottando contro la nausea, aprì gli occhi. Una nera criniera insanguinata
sventolava sotto il suo naso, mentre mani metalliche trattenevano scure redini.
Criniera? Redini? Sono… sono su un… cavallo?
Paralizzata dalla paura, ricordò la strada buia, il tacco incastrato, il… il
Nazgul. Perché quello che aveva visto prima di svenire era un Ringwraith, un Cavaliere Nero, uno dei Nove Re Rinnegati. Ora ne era certa. No, non era uno scherzo. Percepiva l’aura di
malvagità che permeava lo spettrale Re e la sua cavalcatura. Tentò di rimanere
immobile, lottando contro il desiderio di sollevare la testa verso il volto del
suo rapitore.
Dove si trovava? In che tempo? E… perché l’avevano
presa? Perché lei, un’insignificante studentessa di
quarta con la testa fra le nuvole, pericolosamente incline a sviluppare una
passione morbosa per tutto ciò che concerneva l’astrazione dal mondo reale?
Non ne aveva idea, ma non doveva essere nulla di
buono. Si guardò intorno, cercando di non farsi notare. Il cavaliere galoppava
attraverso una vasta brughiera immersa nella nebbia. Alla sua sinistra si
ergevano nebulose montagne… nebulose?
Ma certo. Le Montagne Nebbiose, non potevano essere
che quelle. Quindi, a giudicare dal paesaggio, si
stavano dirigendo a sud. A Mordor… rabbrividì impercettibilmente.
Non c’era tempo per chiedersi come era arrivata fino
là, nella Terra di Mezzo. Poteva scoprirlo in seguito.
Ora era tempo di agire, e precisamente di salvarsi la pelle. Doveva tentare di
fuggire adesso, quando era presumibilmente ancora vicina a… Imladris. Gran
Burrone. Lì avrebbe potuto trovare aiuto… senza dubbio era
meglio tentare che rimanere alla mercè di Sauron.
Sbirciò intorno a sé con cautela. Apparentemente il Nazgul era solo. Magra
consolazione, dato che primo, lui era a cavallo, e secondo,
lui era armato. E lei non aveva né l’una né
l’altra cosa.
Immaginava però che doveva portarla a Mordor senza un
graffio, dato che, considerato che era uno Spettro, l’aveva trattata abbastanza
gentilmente. E questo giocava a suo favore.
Marta chiuse gli occhi, imponendo al suo corpo di fare appello a tutte le sue
forze e al suo cervello di riprendere coraggio.
Non era legata. Evidentemente il Cavaliere era sicuro che non avrebbe reagito.
Inspirò profondamente.
Lasciandosi sfuggire un urlo per lo sforzo, colse di
sorpresa il Cavaliere, colpendogli le braccia dal basso verso l’alto e
sgusciando fuori dalla sua stretta. Cadde pesantemente sul fianco, mentre il
cavallo si impennava e il Nazgul lanciava un grido
terrificante. Più velocemente possibile, si tirò in piedi e corse verso i
pendii premontani, distanti un centinaio di metri, che abbondavano di macigni e
rocce, dove per lei sarebbe stato facile nascondersi e per lo Spettro difficile
procedere a cavallo.
Sperava soltanto di farcela prima che quel demonio urlante le piombasse
addosso. Correva, con il cuore in gola, i piedi nudi che si ferivano sulle
rocce, pregando che le gambe non le cedessero dalla paura.
In fretta, raggiunse un anfratto e si nascose. Il Cavaliere? L’aveva perso di
vista nella nebbia che avvolgeva quel luogo sinistro, turgide spirali
grigiastre che confondevano le forme e affannavano il respiro.
Si rannicchiò fra le rocce, rabbrividendo. Era terrorizzata.
Sapeva di non poter restare lì, ma non osava muoversi per timore che lo Spettro
la scoprisse.
Passarono cinque minuti, sei, sette. Dieci. Marta non lo sapeva.
Le volute di nebbia continuavano a danzare ipnoticamente davanti a lei, e non
lasciavano intuire alcuna presenza estranea alle rocce e agli sterpi.
Si decise a muoversi, ma aveva perso il senso
dell’orientamento.
Non aveva idea di dove andare. Decise di strisciare con cautela fuori dal suo nascondiglio e di dirigersi verso la
brughiera.
Così fece, e le andò bene, almeno per un po’. I suoi piedi nudi toccarono di
nuovo l’erba umida. Avanzò un poco, spostando le sterpaglie che le arrivavano
ai fianchi. Nessun segno del Cavaliere. Intorno a lei, solo il frinire sommesso
dei grilli.
Tirò un sospiro di sollievo. Il suo cuore smise
finalmente di battere come un uccello impazzito. Oh, santo
cielo, or…
Una mano la afferrò per i capelli, sollevandola dal suolo con forza
straordinaria. Trattenendo le lacrime di dolore, Marta urlò; tentò di
divincolarsi, ma riuscì soltanto a strapparsi diverse ciocche di capelli
biondi. Con una torsione del polso, il Cavaliere la girò verso il suo viso
privo di lineamenti, puntando la sua spada arrugginita sulla gola bianca della ragazza.
Marta si sentì mancare, pietrificata da quello sguardo vuoto e folle, quel buio orrifico senza fine. Sentiva il freddo metallo sul
suo collo, e pregò che
Ma non ebbe tempo di dire addio a tutti. Aprì gli occhi ad un improvviso
sfrigolio di dolore dello Spettro. Il suo cappuccio era in fiamme, ma
nonostante questo non mollò la presa sulla lunga capigliatura della ragazza,
che venne sballottata su e giù mentre il Nazgul si
contorceva.
Marta guaì di dolore: il metallo di cui era rivestito il suo rapitore era
diventato incandescente a contatto con le fiamme che lo avvolgevano, e i suoi
capelli avevano preso fuoco, bruciandole la cute, ma anche liberandola, dato
che il Cavaliere non aveva più nulla su cui far presa.
Marta, cadendo nella polvere, si rotolò freneticamente al suolo colpendosi la
testa per soffocare le fiamme.
Gemette quando le mani si ustionarono ma infine riuscì
a spegnere il fuoco, in tempo per vedere fra le lacrime il Nazgul allontanarsi
lasciandosi dietro una scia di fumo.
Se l’era vista brutta, ma se l’era cavata. “Ma che diavolo…?”
borbottò, sospirando di sollievo.
La sua frase venne interrotta da una voce beffarda e
impertinente, ma anche profondamente sollevata, proveniente da dietro le sue
spalle.
“Credevo che una Forestiera Planare se la cavasse meglio di una donnetta
isterica alle prese con un focolare difettoso” ridacchiò Gandalf.
“Gandalf?” balbettò incredula la ragazza, voltandosi di scatto.
Davanti a lei, su un robusto baio, sedeva fieramente Mithrandir, il Grigio
Pellegrino, meglio noto al Nord come Gandalf Corvotempesta.
“Dici il vero, Forestiera. E dovresti essere grata, invece di inalberare
quell’espressione incredula” fece il vecchio,
guardando la ragazza con dolci occhi azzurri.
Poi il suo volto si fece grave, e “l’hai scampata
bella” disse, stringendo il suo bastone nodoso.
“Come fai a dire che sono una Forestiera Planare?”,
fece Marta, ottusamente.
“Come fai ad andare in giro senza cervello?” la rimbeccò Gandalf in tono garbato,
per quanto era possibile dato il sarcasmo della frase. “Sono uno degli
Stregoni; e dopo settemila anni di studi e di magia, non si ha più bisogno di
chiedere per sapere certe cose.”
Marta, punta sul vivo, chiuse la bocca.
“Perché i Nazgul ti danno la caccia?”
“Credevo che tu non avessi più bisogno di chiedere per sapere certe cose”
brontolò Marta, ritrovando un pizzico della sua ironia. Gandalf incassò e
sorrise.
“Vieni con me” invitò, porgendole la mano. Marta esitò.
Poi fece spallucce. Non poteva andare peggio di così.
“Dove mi porti?” chiese la ragazza, prendendo la vecchia ma forte mano dello
stregone e montando a cavallo davanti a lui.
“A Gran Burrone, da Elrond. Lui saprà cosa fare”.
Ed incitando il cavallo, Gandalf sparì nella nebbia,
portando con sé la sfinita ragazza, che ben presto si addormentò sulla rossa
criniera del baio.