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Autore: Slits    19/07/2010    1 recensioni
Roy il più delle volte era talmente assorto a fissare il profilo martoriato dell’edificio che Riza non osava disturbare la sua concentrazione. Restava con il naso fisso all’insù con la stessa naturalezza con cui faceva ogni cosa, seguendo con la coda dell’occhio i percorsi di cornicioni diroccati, cavi della luce oramai finiti in disuso e vecchie balaustre. Distolto lo sguardo, ricominciava a parlare tranquillamente, come se fino a quel momento non avesse fatto nient’altro.
Era un comportamento insolito. E Riza lo riteneva interessante, nonostante tutto.

La vendetta è un veleno che sfama.
[Roy/Riza]
[!Angst; AU]
Genere: Guerra, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Riza Hawkeye, Roy Mustang
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Revenge has the scent of a tart


Era il 16 Giugno del 1936 il giorno in cui Roy Mustang chiese la mano della donna che oramai riteneva di amare.
A distanza di pochi giorni, in un pomeriggio inoltrato senza nuvole né sole in cielo, Riza Hawkeye diede tre colpi ad indirizzo di un batacchio sconquassato.
Si odorò ancora una volta le mani e fece una smorfia. Una volta di foglie filtrava la luce fino a ridurla ad un pulviscolo indistinto e nell’aria volute di fumo azzurrate salivano lentamente al cielo.
Diede un ultimo colpo e spinse una mano fra le pieghe che le rigonfiano il soprabito ai bordi.
Nonostante tutto, quel fastidioso odore era rimasto ancora lì.
L’impasto di una crostata ancora calda.

- Continuando con questa lena, finirai col portarmi alla tomba prima dei trenta, sai? -
Riza Hawkeye sviò lo sguardo, infastidita. L’uomo rimase in silenzio per qualche istante e cercò di sorridere, un pretesto per non dover fare conversazione.
Dalla finestra che si affacciava sul cortile si insinuava appena un po’ di brezza ed il sudore mordeva la pelle. La donna poggiò entrambi i palmi sul davanzale, abbracciando con lo sguardo la periferia della città che sorgeva e si inabissava per miglia e miglia di distanza.
Ogni volta che lo faceva, non poteva fare a meno di sentirsi colpevole.
Suo malgrado, stava cominciando ad abituarsi alla compagnia dell’uomo, alla sua vista ed al rumore metallico che ad ogni passo mosso nella sua direzione inevitabilmente faceva scoccare tutt’intorno. Se le cose fossero andate così, presto il passato si sarebbe cristallizzato in ciò che era, ovvero qualcosa di oramai irrimediabilmente lontano, ed avrebbe finito con il dimenticare ogni cosa.
- La prima volta che visitai quest’appartamento fu di sera, notte quasi inoltrata credo. Mi affacciai ed osservai attentamente la città. Mi sentii bene. Inebriato dalla sensazione di potere e pace che soltanto un punto in alto come questo potrebbe conferire. -
L’uomo avanzò di qualche metro, spingendo le braccia in avanti ad ogni nuovo centimetro guadagnato. La carrozzella che lo sorreggeva urtò con le inferriate della balconata, si lamentò in un cigolio acuto e lo respinse nuovamente indietro, ad uno o due piedi dalla donna.
Roy Mustang sospirò e battè forte con i palmi sulle ginocchia. Il profondo respiro che prima di ricominciare a parlare aveva esalato, in un’inflessione quasi greve, diede alla donna l’impressione di qualcosa che ancora una volta aveva cercato di afferrare per poi mancare puntualmente di poco.
- Dimmi tutto, Riza. – mormorò dopo una discreta manciata di secondi.
- Non ho niente in particolare da raccontarti. -
- Niente di buono. – concesse – I pacchetti che porti parlano per te ogni volta. -
La donna non rispose e continuò a fissare con un interesse definibile quasi encomiabile il marmo bianco del davanzale. Roy non le toglieva gli occhi di dosso.
- Li ho trovati. - disse.
Cercò di dosare le parole, ma quando Roy allungò una mano verso di lei si accorse che le braccia avevano cominciato a tremarle. Trasse un respiro profondo ed arretrò di un passo. Sentì il freddo incalzante della notte pungerle la pelle e, qualche secondo dopo, il tacchetto in plastica dell’anfibio cozzare quasi dolorosamente contro le inferriate.
Sospirò ed assaporò quegli ultimi attimi di silenzio.
- E’ al lampone, dovresti provarla. Ci ho messo un intero pomeriggio a prepararla. –


 La cucina era una grande stanza sul retro della casa. L’inaspettata colazione che una mattina Riza Hakweye decise di preparare consisteva in una cesta di plumcake appena riscaldati, comprati in un mercatino a pochi isolati di distanza. La bambina li servì su un piatto ancora caldo a suo padre e lo guardò divorare con avidità un primo morso, mentre lei in silenzio prendeva posto a tavola.
Lo fissava come se avesse avuto dinanzi un perfetto estraneo, con un misto di stupore e curiosità. Era un uomo robusto, con un grande naso aquilino e gli occhi costantemente annacquati di chi ha imparato a sopprimere le proprie delusioni soffocandole nel rhum. Faceva parte dei corpi speciali dell’esercito.
- ‘sta roba è buona. Preparala più spesso quando sono a casa. – disse.
- Lo farò. -
L’uomo stava per rispondere qualcosa quando alla radio passò la notizia di un F14 abbattuto a poche miglia da un centro abitato. Si voltò verso la bambina e sorrise. Riza restò immobile, con le mani che le tremavano fra le ginocchia ed il fiato improvvisamente corto.
- Partirò domani all’alba. – annunciò quasi divertito. – Preparami qualcosa di più dolce se ti riesce. -
La bambina strinse i polpacci contro il vimini della sedia ed annuì lentamente. L’uomo la fissava standosene ritto davanti a lei. Aveva inarcate entrambe le labbra in uno strano sorrisino tirato, inappropriato fra tutti gli altri solchi che in un imprecisato reticolo di capillari e cicatrici gli solcavano gli angoli della bocca.
La chioma oramai rada era stata recisa in un taglio sbarazzino, particolarmente corto. Non portava baffi, o cravatte o nessuna delle altre cose che la bambina, andando a scuola, vedeva indosso ai padri delle sue compagne come un segno distintivo. Era anonimo. Un uomo anonimo a cui non importava far capire che, una volta di ritorno in patria, a casa avrebbe avuto sempre qualcuno pronto ad attenderlo. Si chiamava Russeau.
- Lo farò. – articolò Riza, cominciando a prendere i piatti e poggiarli nel lavello. Il suo era ancora intonso.
L’uomo le mise una mano sulla spalla e la guardò come se, per un breve istante che non sarebbe tornato mai più, si fosse sforzato di vedere oltre i silenzi della bambina, le sue paure e le insicurezze di entrambi. Non lo aveva mai ritenuto un compito adatto al suo ruolo, in ogni caso.
- Finirà prima o poi, ok? Ti prometto che finirà. Ed allora mi insegnerai a fare qualche dolce come questo qui. -
La bambina gli sorrise incerta. Russeau partì il giorno dopo.
Ad una settimana di distanza, Riza ricevette la visita di un funzionario dell’esercito dagli occhi scuri e tristi. Le consegnò le quattro cose che suo padre possedeva in caserma e si mise a sedere in soggiorno a fissarla.
Lei non disse niente ma si limitò a prendere una grossa fetta di crostata, offrendogliela in un gesto di rara cortesia.
Russeau aveva ragione. Le cose erano finite relativamente presto.
 
 Il racconto dell’infanzia di Riza Hawkeye perseguitò il funzionario per tutta la settimana che venne a seguire. Più ci rifletteva, più aveva l’impressione che a quella bambina la morte avesse strappato qualcosa in più di un semplice genitore. Cosa, poi, era un altro paio di maniche. Questi pensieri lo tormentarono giorno e notte mentre vedeva la bambina sprofondare nel silenzio quasi denso di quella casa e sparire poco a poco, senza lasciare traccia. Non gli diedero tregua. Mai.
Fino ad un’assolata mattina di Settembre. Era la seconda settimana del mese all’incirca. Anno 1926.
E Roy Mustang aveva appena varcato la soglia di una villa oramai abbandonata alle braccia incapaci dell’incuria.
 
 Riza fece scivolare le dita fra le tende del soggiorno. Un fascio di luce soffusa rese per alcuni istanti palpabile l’alone di abbandono che impregnava ogni angolo della casa. La bambina imboccò il piccolo corridoio che dava verso l’uscita ed aprì lentamente il portoncino. Poco a poco, con la flemma dovuta alla luce intensa che inondava il vialetto, i suoi occhi cominciarono ad abituarsi al colore del giorno.
Un ragazzo dai tratti anonimi si fermò tre gradini prima del batacchio e la fissò. Riza lo scrutò attentamente con una mano ancora poggiata allo stipite di casa. D’un tratto le venne il sospetto che avesse sbagliato, che si fosse fermato soltanto per chiedere un’informazione. Aprì bocca per dar adito ai propri sospetti e soltanto allora l’altro si decise a parlare. Aveva ancora il tono di un bambino che vuole fingersi grande.
- Da oggi verrai a vivere con me. – improvvisò, prendendo la valigia che giaceva vuota ai piedi e porgendola alla bambina. – Raccogli quello che hai e di’ addio a questo letamaio. -
Dal tono di voce Riza capì che l’estraneo era serio – mortalmente quasi – e aveva una un’energia insolita. Storse il naso ed arretrò di un passo. Il movimento fu talmente impercettibile che i talloni non si staccarono da terra e le scarpe, scivolando sul pavimento, lasciarono una scia bianca fra la polvere che inzaccherava le mattonelle dell’ingresso. Lui si arrischiò su di un primo gradino e le tese una mano.
- Mi pare d’aver capito che ti chiami Riza. – disse, senza accennare a voler scostare il braccio dalla linea immaginaria che lo separava dalla bambina. – E’ un bel nome. Dà l’idea di forza. -
L’orfana mosse un passo in avanti e borbottò qualcosa, colta alla sprovvista.
Il nome di Riza Hawkeye era un insieme di sillabe dalle tinte aspre, tonanti in qualcosa di talmente maestoso da dare le vertigini al solo udirlo troppo a lungo. I più, gli avevano dedicato qualche attenzione in passato e ne avevano estrapolato una serie di diminutivi che, a loro dire, avrebbero conferito alle bambina un aspetto meno minaccioso ma che a Riza, al solo ricordarli, facevano ancora venire il volta stomaco. Roy – era questo il nome del ragazzo che era rimasto ad attenderla nel vialetto – con quel semplice commento era riuscito a scavare una breccia impercettibile, sfiorando una corda che nessuno, per lo meno fino a quel momento, aveva ancora avuto l’accortezza di toccare.
Non cogliendo alcuna reazione decise di prenderle una mano e stringergliela forte, in segno di rispetto.
- Entra. – sussurrò la bambina, precedendolo – Ti preparo una crostata. -
Tre ore dopo attendevano entrambi alla stazione Lianne.

 Il treno per Resembool partiva dalla stazione alle nove del mattino. Riza sedeva in uno dei vagoni di coda, in un posto perfettamente anonimo, al fianco di un bambino come tanti altri.
Non era la parola più adatta a lui perché aveva quasi quindici anni oramai, era un adolescente in realtà. Ma aveva conservato quel viso da eterno bambino che riusciva ad ingannare ancora gli occhi disattenti dei passanti.
Con i risparmi messi da parte, il funzionario alla fine aveva deciso di prendere sotto la propria custodia la bambina. Le aveva garantito che le avrebbe trovato un tutore disposto ad istruirla a tempo pieno, se gli avesse promesso di restare a vivere con lui e suo figlio, che era poco più grande della sua età.
- Nutro una profonda fiducia nelle sue capacità, signorina Hawkeye. – le aveva detto durante uno dei loro primi colloqui – So per certo che non mi deluderà. -
Lo sguardo del funzionario mentre pronunciava quelle parole era severo ed impenetrabile. La bambina non capiva perché continuasse a darle del lei.
C’era qualcosa in lui che sapeva di ossequioso, di un rispetto maturato in un’altra epoca e di cui lei era ancora all’oscuro. Un pomeriggio, uno dei tanti che passava alla vecchia casa, Roy le raccontò che l’uomo nutriva un debito di profonda gratitudine nei confronti del Tenente Hawkeye.
Stando alle vecchie storie del fronte, il militare aveva tratto in salvo il funzionario da un agguato nemico, rischiando di perdere in seguito all’azione l’uso dell’arto sinistro.
Tornati in patria, entrambi gli uomini avevano deciso in un tacito accordo di non far più menzione circa l’accaduto. Chi per eccesso di modestia e chi altri, invece, per un orgoglio che ci avrebbe indubbiamente impiegato un po’ a guarire.

 Le visite alla vecchia villetta degli Hawkeye durarono per le tre estati che seguirono. Roy il più delle volte era talmente assorto a fissare il profilo martoriato dell’edificio che Riza non osava disturbare la sua concentrazione. Restava con il naso fisso all’insù con la stessa naturalezza con cui faceva ogni cosa, seguendo con la coda dell’occhio i percorsi di cornicioni diroccati, cavi della luce oramai finiti in disuso e vecchie balaustre. Distolto lo sguardo, ricominciava a parlare tranquillamente, come se fino a quel momento non avesse fatto nient’altro.
Era un comportamento insolito. E Riza lo riteneva interessante, nonostante tutto.

 Un giorno, una mattina in cui il vento spazzava le strade con impazienza, finito l’ennesimo racconto di guerra, Roy si voltò e le sorrise impacciato. La bambina immaginò che forse aveva adocchiato qualcosa di interessante fra le inferriate del cancelletto, ma quando vide che i suoi occhi in realtà non andavano oltre la punta del proprio naso, avvertì una strana nausea prenderle la bocca dello stomaco. Strinse forte entrambi i palmi fra le ginocchia e si morse un labbro. Tra i rami di pini abbarbicati sul limitare del sentiero si poteva sentire il canto un po’ stridulo di un merlo.
Per alcuni istanti non si udì nient’altro.
Quando il ragazzo si decise a mettere insieme qualche sillaba, le labbra di Riza si erano oramai imporporate di uno spiacevole vermiglio.
- Partirò domani all’alba. – mormorò alla fine, senza troppi fronzoli. – Mi è stata data l’opportunità di dare una scossa a questo paese ed ho tutta l’intenzione di non lasciarmela sfuggire. -
L’odore delle prime foglie cadute era intenso ed una brezza impalpabile faceva vorticare i cumuli in cerchi concentrici sempre più grandi. Lo sguardo di Riza si perse nell’antrace intenso del cielo.
- Voglio incominciare adesso, proprio per far sì che le cose possano risolversi il prima possibile. – disse, risoluto.
La bambina sorrise e, sotto i suoi occhi attoniti, si alzò ed incominciò a dirigersi verso l’entrata della villetta. Si fermò pochi passi dopo, con le spalle ostinatamente voltate e le mani strette in due pugni. Era il solo modo di non crollare, il non vederlo.
Riprese a camminare con falcate sempre più ampie e poi lo attese sotto l’immenso portico che sovrastava l’ingresso. Sentì il cuore esploderle in petto, per un istante, all’idea che ben presto nessuno avrebbe più seguito i suoi passi. E cercò di articolare le parole.
- Vieni, ti preparo una crostata. -
Era un testo che conosceva a memoria, del resto. Sapeva di vecchi ricordi.


- Capisco. –
Roy impartì alla donna un ordine muto. Riza rientrò in soggiorno e si mise spalle alla parete. Nascose una mano che ancora tremava – per rabbia – dietro la schiena e diede tempo all’uomo di riordinare le idee. Attese a lungo. Alla fine, con gli avambracci ancora premuti contro le vertebre, decise di rialzare gli occhi.

 Roy si era trascinato lontano dalla guerra a capo a malapena di se stesso. Era da sconfitto che aveva fatto ritorno, con una pallottola conficcata in mezzo al midollo e gli occhi di chi ha visto l’inferno fin troppo da vicino per desiderare di farvi ritorno.
Lasciato a morire al fronte, ebbe la fortuna di imbattersi in un uomo che masticava un po’ di americano. Il mercante lo curò, gli prestò il denaro per tornare in patria e lo ospitò a casa sua. Roy non dimenticò mai la sua generosità.
Quando ritornò a Resembool le sue condizioni gli sbarrarono le porte degli alti gradi dell’esercito in cui si forgiavano le carriere più importanti. Si ritrovò così costretto in un limbo buio in cui soltanto le rare visite di Riza sembravano in grado di portare un po’ di luce. Tra i due nacque una profonda amicizia.
In seguito quell’amicizia sarebbe sfociata anche in qualcos’altro.

- Cosa conti di fare? – chiese l’uomo, con gli occhi fissi sul desolante spettacolo delle anche perfettamente immobili.
- La loro base non è mai cambiata in tutti questi anni. – disse Riza, cambiando argomento.
- Nessuno si aspettava che lo facessero. –
Riza annuì, si scostò dalla parete e mosse un paio di passi verso l’uscita.
- Hanno dichiarato guerra al paese ed è giusto che paghino per questo. – disse, pacata. – Ho intenzione di ucciderli. Tutti. -
- Tutto questo non mi farà tornare a camminare, Riza. – la interruppe Roy.
Si schiarì la voce e distolse lo sguardo. La stanza dava a est, e la finestra incorniciava i binari della stazione che come la pelle di un serpente rivestivano le strade.
Non si era mai sentito così ipocrita. La vendetta aveva illuminato il corridoio della sua vita per molti anni. Era stata ninfa fresca, accanto alla presenza di Riza. Ogni cosa sembrava aver perso importanza dopo la guerra, ma la vendetta, quella era divenuta il fulcro attorno cui ogni sua azione, ogni singolo pensiero aveva trovato la propria ragione di esistere. L’aveva indossata come una seconda pelle. E ci si era trovato bene. Incredibilmente bene.
- Il Paese si può ancora ricostruire. Senza spargere più sangue. – disse, con fermezza. Mai come in quel momento le parole gli erano sembrate più sbagliate. Tuttavia, non aveva scelta.
Capì che nel momento stesso in cui avrebbe ottenuto finalmente riscatto, avrebbe anche perso la donna che oramai credeva di amare. Lo sguardo di Riza era impenetrabile. Uno sguardo vuoto che accarezzava l’idea di potersi spegnere come un sogno proibito.
Un aroma di pane e di caffè appena fatto si intrufolava per le strade della periferia. Riza si voltò verso l’uomo e si inginocchiò, silenziosa come sempre, per stringergli una mano e salutarlo un’ultima volta.
- E’ l’alba. – mormorò con un sorriso incerto. – Devo partire. -
- Riza… -
La donna, sorridendo fra sé, servì una grossa fetta di crostata in un piatto.
- Ti ho preparato una crostata. Mangiala, è al lampone. -
Non disse nient’altro.
- Riza! -
Roy si sporse in avanti per afferrarla e cadde. Quando riuscì ad issarsi nuovamente sulla sedia, Riza era oramai scomparsa fra le prime luci che rivestivano l’alba di Resembool.
Ed un fastidioso odore permeava nell’aria.
L’odore di una crostata ancora calda.


A distanza di pochi giorni, in un pomeriggio inoltrato senza nuvole né sole in cielo, il funzionario diede tre colpi ad indirizzo di un batacchio sconquassato. Aveva gli occhi scuri e tristi.
Portava un vassoio di vecchio stampo, con decori e macchie lungo tutti i bordi. In tasca custodiva un anello mai indossato.
Era il 23 Giugno del 1936. Ed a Roy Mustang non era rimasta altra compagna che la vendetta.



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L
’ idea per questa parte dal presupposto della guerra.
La guerra sovrana tuttavia non dell’esistenza di Roy ma bensì di quella del cecchino.

Le precisazioni da fare sono relativamente poche, ma vedrò di spiegarle punto per punto.
 L’idea di far preparare crostate a Riza potrebbe apparire come qualcosa di totalmente OOC. E non avrò certo di che ridire a coloro che decideranno di mantenere quest’opinione.
Tuttavia io ho preferito usarlo come una sorta di mezzo di autocontrollo, qualcosa che le permettesse di incanalare ogni emozione in uno scopo preciso. La frase che Roy le dice circa i pacchetti non è detta caso, infatti; Riza prepara dolci unicamente nei momenti di massima tensione.

 Russeau è invece un personaggio che accarezzavo da un po’. E’ il mio terzo originale, ma lo considero molto più completo di qualsiasi altro personaggio creato finora.
Son partita dal presupposto di un uomo stanco, annientato dalla guerra che arranca per andare avanti. Russeau, per l’appunto.

 Il particolare della casa è anche questo voluto.
Perché mi rendo conto che il passare dalla definizione di “letamaio” al fissarla ininterrottamente, possa risultare vagamente incoerente. E’ un passaggio che ho omesso – per non dilungare eccessivamente le cose – ma mi è piaciuto immaginare che Riza abbia insegnato al ragazzo a guardare con altri occhi quello che in tutti quegli anni era stato il suo rifugio.

 Pur ambientando la storia in America, ho voluto lasciare intatta Resembool. E’ una città a cui vedo legati entrambi i personaggi e, francamente, non me la son sentita di estrapolare nessuno dei due dal contesto.

 Sul tema della vendetta suppongo sia inutile evidenziare altro.
Lo abbiamo visto con Envy quanto lontano possa portare Roy.

Credo che, bene o male, sia tutto.
E’ la prima volta che mi dedico ad una storia talmente lunga, quindi in caso di dubbi, sentitevi pure liberi di chiedere qualsiasi cosa.

Grazie a chiunque finora abbia voluto commentare le mie storie.
   
 
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