Ciò che siamo
Autrice: Ory_StarDust_95 (posted
on BeLiar Mannie).
Prompt (unico per l’intera long-fiction): #63 – Cicatrice. [Ho deciso per questo prompt perché è molto
affascinante, perché c’entra con quello che voglio che venga e perché si può
adattare a tutto, a qualsiasi tipo di ferita].
Personaggi: Maxwell Green, Ronald Radke, Nuovi
personaggi.
Introduzione: Non tutte le persone
sono buone. Juliet è cresciuta con questa consapevolezza e ha fatto sì che
anche la sua migliore amica Adrianne imparasse da questa lezione. Il loro
undicesimo grado di scuola, però, le porterà ad abbandonare questa importante
consapevolezza, fino a farle entrare in qualcosa che è ben più grande di loro;
il nome della loro fine inizia con la “R” e ha il sapore di spiagge abbandonate
al chiaro di luna.
Colonna sonora: Anya – Now we are free; Nirvana –
Lithium; Foo Fighters – Best Of You; Life on mars? – David Bowie.
Word Count: 2’368 parole.
Una nuova mattina si accingeva ad avviarsi
nello splendore del sole quel giorno di Settembre. Assieme all’autunno si
sarebbe manifestato il primo compito dell’anno. Letteratura. Durante il
l’undicesimo grado[1] toccava a
Shakespeare. Ma Juliet non aveva mai amato molto il famoso
scrittore-tragediografo, a causa del suo stesso nome, che spesso era seguito da
commenti come “Ti chiami come Giulietta di ‘Romeo e Giulietta’!”.
Era stata una crudeltà dei suoi genitori, era
lei a pagarne le conseguenze, però.
La materia, nel complesso, era una delle sue
preferite. Deludere la professoressa, abbassando la sua media, non era
esattamente tra i suoi propositi dell’anno. Perciò aveva studiato Shakespeare
meglio degli altri personaggi del programma, approfondendo anche la sua
biografia, cercando di scoprire il maggior numero di informazioni; certo, lo
odiava ancor di più, ma almeno avrebbe ottenuto una ‘B’ assicurata, se non
anche una ‘A’.
Con un’allegria insolita per i suoi standard,
spalancò le ante dell’armadio della sua piccola stanza buia e gialla, che
vomitò fuori qualche paio di stivali che avrebbe dovuto gettare due settimane
prima, delle t-shirt – se avesse osato indossarle sarebbe morta congelata in
pochi secondi – e dei pantaloncini di quando aveva ancora sei anni. Li
accartocciò e li nascose nel cesto dei vestiti sporchi, mentre frugava in basso
tra in ciarpame di cui non si veniva a capo, in cerca di qualcosa che non fosse
sporco. Per fortuna, quel pomeriggio sarebbe stata libera da ogni impegno, il
giorno dopo era sabato e né suo padre né la scuola l’avrebbero ostacolata con
turni al locale o pile e pile di compiti da svolgere. (Per non parlare della
nuova cliente del “Capulet”, una maniaca del cellulare che trascorreva tutto il
tempo con quell’aggeggio e cambiava ordinazione ogni dieci minuti, costringendo
Juliet a correre avanti e indietro per il locale soltanto per appuntare i suoi
pasti ipocalorici sul taccuino).
Come al solito, impiegò i suoi miseri dodici
minuti a infilarsi nel bagno, farsi una doccia, coprire gli occhi di un leggero
strato di ombretto pesca e di matita, per poi fasciare i piedi con dei calzini
con disegni di orsacchiotti e gattini – imbarazzanti, in realtà – e delle
scarpe da ginnastica vecchiotte, un po’ malandate, ma che avevano consumato
tanti chilometri insieme a lei, e a cui era affezionata. Le aveva anche durante
il suo primo concerto l’estate dei suoi quattordici anni.
Al pian terreno c’era sua madre che sistemava
le ultime sedie accanto ai tavolini d’alluminio del bar. Sembrava stanca, ma nonostante
la pelle tirata salutò sua figlia con un sorriso e un bacio sulle guance. «
Adrianne sarà qui a momenti, ha chiamato poco fa ». Juliet annuì e si sistemò
al bancone, dove subito la madre ripose un piatto di frittelle ricoperte di
sciroppo d’acero, le sue preferite. « A fine settimana si ha sempre bisogno di
una botta in più ». E con un’espressione semi-addolorata si barricò nello
spazio dietro la tenda, a sinistra della cassa. Lì dentro, per lo più, ci
sistemavano le scorte e i frigoriferi per i cibi che avevano bisogno di stare
al freddo, ma era un ottimo posto – l’avevano sperimentato le stesse Juliet e
Adrianne – per riflettere e stare soli.
« Juls! ». Adrianne le apparve alle spalle,
fiondandosi sullo sgabello accanto al suo, e urlando un saluto alla madre
dell’amica. Poi rubò la forchetta dalla mano di Juliet e mangiò un pezzetto
delle sue frittelle. « Buone… COMPLIMENTI SIGNORA CAPULET! ».
« GRAZIE, ADRIENNE! SE VUOI CE NE SONO DELLE ACCANTO
ALLA CASSA ».
« È MOLTO GENTILE, MA HO GIÀ FATTO COLAZIONE
».
« D’ACCORDO ». Durante il dialogo,
naturalmente, nessuna delle due aveva pensato che fosse meglio avvicinarsi anziché
urlare come delle ossesse, quindi Juliet fu costretta a sistemarsi le mani ben
bene sulle orecchie per non diventare sorda.
« Pronta per Shakespeare? » Le domandò
Adrianne, quando Juliet finì di ripulire il piatto. L’altra annuì
semplicemente, infilò una giacca autunnale di jeans e un braccio nelle spalline
del suo zaino. Adrianne prese la sua borsa del suo manga preferito che le era
stata regalata proprio da Juliet e salutò la signora, mentre varcavano la
soglia del “Capulet”. A Las Vegas non c’era nessuno che non lo conoscesse, metà
dei ragazzi della classe[2] di
Adrianne e Juliet andavano a cenare lì e spesso le intravedevano tra la ressa
di persone, quando ce ne erano un po’ troppe; Adrianne si sistemava al bancone,
qualche volta si decideva ad aiutare i gestori, altre si spostava da un tavolo
all’altro parlottando con i compagni.
La passeggiata verso il loro istituto non era
troppo faticosa, ma avevano il tempo per discutere di questo o di
quell’argomento e se avevano bisogno di ripetere le lezioni del giorno ci sarebbero
riuscite senza affrettarsi troppo.
« …non capisco come abbiano fatto a bocciarlo.
Se avessi assistito a una delle loro lezioni, saresti rimasta sconvolta. A
parte il fatto che non sembrerebbe mai una specie di genio, invece lo è.
L’amico l’ho incontrato qualche volta per i corridoi, è divertente. Se la cava,
non è male. Legge parecchio e gli piace la poesia, ma non è come Ronnie. Ha una
media perfetta! Soltanto ‘A’. Invece Max ha anche due o tre ‘B’ ».
Il perché di tutte quelle chiacchiere a Juliet
pareva molto chiaro. Ma se c’era qualcuno che odiava, si trattava proprio della
combriccola di quel Radke e della sua spalla destra, Green o qualcosa del
genere – ovviamente secondi a Chelsea. Pensavano di essere i più belli e i migliori
in tutto. Metà della fauna femminile
della scuola faceva parte della coda di ragazze che chiedevano a Ronald di
uscire. Lui a tutte, indistintamente, rispondeva di ‘no’. Gentilmente,
naturalmente. Altrimenti sarebbe parso un cafone: aveva sempre qualcos’altro a
cui pensare. L’altro, all’incirca tre quarti in altezza rispetto a Ronnie, era
discretamente popolare. Attraeva più per la sua apparente sensibilità che tanto
Adrianne stava lodando. Juliet era sicura che i voti non fossero il metodo per
misurare l’intelligenza di una persona, però. Quel gruppo era un accozzaglia di
idioti e nient’altro. Se poi gli insegnanti li amavano non era un problema che
la riguardava.
« Juliet? JULIET?! ».
« Che c’è? ». Il rimuginare troppo su Radke
l’aveva messa di cattivo umore e, tra l’altro, aveva perso tutte le parole
della sua amica.
« Siamo arrivate ».
« Fantastico ». Bofonchiò Juliet. « davvero
meraviglioso ». La sua attenzione era stata catturata quasi immediatamente dal
disprezzo profondo che le infondevano, già di prim’ora, le cheerleader. Erano
posizionate al centro del cortile e sventolavano i loro pon-pon gialli e verdi.
« Quest’oggi ci saranno i provini, non
mancate! » Esclamò la prima donna della Scuola, con il suo tono più falso e
dolce, che era come miele per le api, utile fin quando fosse riuscito ad
attirare povere vittime nella sua setta Satanica, dove chi entrava non sarebbe
più riuscito a uscire (pena l’umiliazione pubblica); una volta scoperti gli
orari impossibili degli allenamenti e la dura dieta ferrea a cui tutti, nessuna
esclusa, dovevano sottoporsi, Chelsea[3]
tirava fuori la sua vera natura di Barbie cotonata e vipera, con i suoi
commenti continui sul peso, la sua ossessione della bellezza, della ‘popolarità’
e il suo bisogno di sentirsi la migliore e imbattibile. Una ragazza, due anni
prima, aveva diffuso la notizia che suo padre era il suo psicanalista, pareva
che Chelsea fosse disturbata e che fosse stata catalogata addirittura come un
soggetto pericoloso. Per una settimana, al mattino, aveva trovato vari insetti
o animali disgustosi nell’armadietto. La Domenica la sua camera era stata
riempita interamente di serpenti – non velenosi, almeno –: era stata costretta
a cambiare Istituto e non la si vedeva in città da parecchio. Il regime di
Chelsea era indiscutibile, sia tra quelli a cui faceva comodo che tra i
rarissimi che avrebbero desiderato ribellarsi: Chelsea, puntualmente, li
disperdeva e confondeva, a volte fino a renderli folli ed emarginati. C’era
qualcosa, però, che non avrebbe mai potuto raggiungere: Ronald Radke. Ronald
era conosciuto a Scuola, era tra i bocconcini più ambiti, ma per certi versi
era anche il più odiato, a causa della sua mania di protagonismo, dei suoi tre
tatuaggi e la sua aurea di ‘alternativo’. Chelsea, tuttavia, non sembrava
turbata dalla sua personalità e, anzi, era stata entusiasta sin dall’inizio di
provare a uscire insieme a lui senza mai riuscirci. Anche quell’anno di sicuro
avrebbe progettato nuovi modi per adescarlo. Ancora una volta, per la gioia di
Adrianne e Juliet, avrebbe fallito.
« Non è- grr, la odio ». Ripeté, ancora, Juliet. « Adrianne, secondo te
le fanno male le guance a sorridere sempre? ».
« Potresti smetterla? Sto cercando di farmi
entrare in testa il nome della madre di Sir William ».
« Ti ricordi quasi interamente ‘Romeo e
Giulietta’ e non uno stupido nome? ».
« No, Juliet. No ». Posò il libro sulle gambe
di Juliet e cantilenò un pezzo della vita di Shakespeare ad alta voce,
controllando che tutte le informazioni fossero esatte. « Mi chiedo perché mai
non possiamo nascere con già tutto stampato nella testa ».
« Sarebbe il mio sogno. E frittelle a vita ».
« Make
cupcakes not muffins! ». Mentre Adrianne completava la filastrocca delle
due pagine, tralasciando soltanto qualche virgola e dei punti qui e lì, Juliet
giocherellava con il suo naso e nella sua testa incolonnava le informazioni più
importanti, alcuni versi delle opere per lei più significative e un paio di
frasi celebri. Conosceva il metodo della professoressa e questo era un buon
sistema per capire come prepararsi. Era quello il trucco della Scuola:
adattarsi agli insegnanti e programmare il proprio metodo d’apprendimento a
seconda di ciò che veniva loro richiesto. Si comportava in quel modo da quando
si era resa conto che, comunque, nei test non le sarebbe mai stato domandato l’intero
programma, ma soltanto le parti principali – che, quasi sempre, erano le più
inutili.
« Dannata campanella! ». Le due riposero libri
e quaderni nelle cartelle e si incamminarono verso l’entrata principale dove
una fila di ragazzi si accorciava passo dopo inesorabile passo. Adrianne mormorava
frasi a mezza voce, coperta dal frastuono dei compagni; Juliet inspirava ed
espirava profondamente e canticchiava una canzone di uno dei suoi gruppi preferiti
per tranquillizzarsi.
Prima che potesse catturare la loro attenzione
in qualche modo – era frustrante sentirsi ignorato – comparve la professoressa
nel suo metro e cinquanta d’altezza e i suoi pantaloni neri sformati. I soliti.
Un golfino verde e una ciondolo a forma di Girasole.
« Ci siamo tutti, ragazzi? ». Brusio generale
e un “Sì” stentato. Persone come Chelsea e la sua compagna di vita Deborah[4] si limavano le unghie, perché un
voto non poteva compromettere il loro stato di promozione certa, i genitori
avevano abbastanza soldi per comprar loro anche l’Università. Bob in fondo a
tutto che si grattava la nuca con un’espressione inebetita, sarebbe andato male
e ci avrebbe riso su. Frankie, poco lontano da Adrianne e Juliet, si
mangiucchiava le unghie, sperando che finalmente sarebbe riuscito a ottenere
una sufficienza. Impacciato muoveva la sedia, stridendo le gambe del banco sul
pavimento, irritando quelli che ormai si erano già addentrati nei cinque fogli
del test (risposta multipla e tre domande aperte finali).
« Primo quesito: Segna con una crocetta il numero esatto dei Sonetti di Shakespeare.
Ok, ce l’ho ». Adrianne era sicura che ce l’avrebbe fatta. Una ‘A’, fa’ che sia una ‘A’, pregò, mentre con la matita
contrassegnava le caselle.
Che scemenza, pensò Max arrivato al
punto trentatré.
« Ho paura ».
« Sei andata bene! ».
« IO ODIO SHAKESPEARE! Lo odio, è un mostro
immondo ».
« E ti mangerà, certo. Per favore, il panino ».
Juliet tirò fuori dal sacchetto il suo sandwich al pollo e ketchup. Adrianne
ancora si domandava come l’amica facesse a mangiare quel condimento ovunque,
Juliet invece non approvava il suo amore per la maionese.
A quanto pareva Juliet era davvero affamata,
perché non parlò per il resto del suo pranzo e, se pure Adrianne aveva iniziato
per prima, Juliet riuscì a finire cinque minuti prima di lei, leccandosi le
dita e spaparanzandosi sulla sua sedia. « Buono ».
« Questa sera ho intenzione di guardare un bel
film di Tim Burton ».
« Io horror ».
« Non capisco perché tu ti ostini a guardarli
se poi ti terrorizzano ».
« È quello lo scopo, mi pare ovvio ».
Adrianne alzò le spalle. « Poco male,
inizieremo alle diciannove e vedremo entrambi ».
« Dormirai da me! Yay ».
« Povera me ». Lancio del cibo.
[2]
Le classi in America – così come in Inghilterra – sono strutturate per anno e
sorteggio – immagino. Vengono assegnati un tot di ragazzi per ogni insegnante.
Quindi la classe di Adrianne e Juliet è ben diversa da quella che potrebbe
essere la nostra. Non è fissa, tanto per cominciare, e i componenti possono
anche non avere le stesse materie, perché ce ne sono tre obbligatorie e altre
tre da scegliere. (Così c’era scritto, anche se non sono convinta che siano
soltanto tre quelle obbligatorie).
[3]
Odio il nome Chelsea. Odio le cheerleader. Quindi Chelsea è una cheerleader. Mi
pare semplice.
[4]
E odio il nome Deborah. Non lo so, in questo periodo della mia vita, mi stanno
antipatiche le Deborah (soprattutto se con l’‘H’ finale) e le Chelsea.
Angolo dell’Autrice: Mi pare
superfluo spiegare chi sia Juliet e chi sia Adrianne. È logico.
Vedremo se riuscirò a portare a termine questo
progetto che immagino da mesi e che finalmente ho avuto il coraggio di
pubblicare.
Disclaimer: I personaggi di Maxweel Scott Green e Ronald
Joseph Radke non mi appartengono. I fatti da me narrati sono pura invenzione e
non sono scritti a scopo di lucro. Insomma, non guadagno sul corpo di ‘sti due.
Sono una persona onesta io e poi non hanno bisogno del mio aiuto per
prostituirsi, ce la fanno benissimo da soli a vendere il cu*o.
Per adesso inserisco rating verde, ma nel
corso della storia potrà succede che il colore cambierà. Dipende dal
cambiamento – probabile – dei contenuti della storia.
Spero che questo capitolo sia stato di vostro
gradimento e che commenterete. Anche negativamente, eh. *Elemosina recensioni*.
A preeesto.