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Autore: penny berry    20/07/2010    6 recensioni
carta e inchiostro per dar voce a quei pensieri che, non sempre, abbiamo la forza di affrontare a mani nude. ed una bicicletta, vecchia e cigolante, per continuare sulla strada del mondo, nella speranza di non restare mai soli...
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Robert Pattinson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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una lettera ed una bicicletta Titolo: ~ Una lettera ed un bicicletta
Genere: Generale
Autrice: carlottina
Capitolo: one shot
Personaggi: Robert Pattinson più un nuovo personaggio di mia pura invenzione
Note dell’autrice: È solo una mia piccola riflessione. Sulla vita. Sul perché. Sugli affanni che ci colgono tutti, prima o dopo. Ho deciso di farli vivere a Bob perché ultimamente non sta passando un bel periodo, e perché si, penso che avrebbe qualche cosa da dire al riguardo se potesse :P
















“Una lettera ed una bicicletta”









Inclinando la testa verso destra, girò ancora una volta il foglio di carta che portava tutt’ora le pieghe della busta. E lì lo trovò. Il punto. Il momento. Il cuore della lettera. L’anima che continuava a stringerle il petto.


“… e forse in effetti è davvero così. Ma penso che, alla fine, sia più coraggioso non mentire, giusto? Non sono mai stato bravo a mentire. O forse sono talmente bravo che invento bugie così assurde ed artistiche, che non sembrano vere; è solo questione di opinioni, no?

… beh, la verità è che sono stanco.
Semplicemente questo. Stanco…
E non mi riferisco ai continui viaggi in aereo o ai vari sballottamenti nelle limousines e suv. Beh, non era scritto nel contratto, “Stress dovuto a fans in crisi ormonali e chiappe perennemente incollate su sedili di aerei e macchine private”, ma immagino che avrei dovuto aspettarmelo, vero? I pavimenti degli aeroporti ormai mi riconoscono dal passo, e non mi meraviglierei di sentirli dire un giorno, “Hei Bob, di nuovo da queste parti?!”

Quando dico stanco, intendo sfinito.
È come avere il cervello sempre in azione, sempre pronto a considerare ogni minuscola parola che mi viene rivolta, ogni allusione che mi viene lanciata, ogni proposta o commento che mi vengono fatti. Ascoltare, assimilare, riflettere… sia sulle parole loro, che mie; cercare nell’ultimo angolo di mente sgombra, i suoni migliori da mettere in fila per dare una risposta che non mi getti nel ridicolo, che non mi macchi di vergogna, che non mi segni di maleducazione; assicurarmi di non aver ferito la sensibilità degli interlocutori, essere certo di non venir frainteso… e poi voltarmi, ed ascoltare nuovamente qualcun altro.
Una giostra. Una di quelle maratone che vanno avanti per ore ed ore, fin quando non ti alzi, riprendi lentamente la sensibilità delle tue ossa e del tuo cervello addormentato, e te ne vai. Solo con una differenza: la giostra non l’ho pagata. Lei paga me. E io non posso scendere. Non ancora…
Mi ripetono in continuazione che ne vale la pena, che la recitazione è anche questo, fama! Perché fama vuol dire potere, vuol dire capacità, vuol dire di più, vuol dire essere, vuol dire unicità. Senza di essa, nessuno mi noterebbe, nessuno capirebbe il vero talento che mi porto nascosto nel petto e dietro gli occhi, e tanto meno mi stimerebbe per esso.
Dannazione sono un ingrato se non accetto quest’evidenza, o così dicono!
Ma è davvero questo? È questo l’oro del mondo? Quel tesoro a cui ogni essere umano agogna? È questo?
Gigantografie dei miei lineamenti spalmati su pareti di edifici; la mia voce emessa su tutti i canali di cinema; i miei vestiti pugnalati da critici di moda; i miei capelli consacrati a rivelazione dell’anno, come se godessero loro più importanza del sottoscritto. È questo?
Beh… se lo è, voglio sparire.

Si, hai capito bene. E no, non fare quella faccia.
Voglio sparire.
Sparire per il resto dei prossimi vent’anni.
E se non è possibile, voglio sparire un’ora al giorno per tutta la mia breve vita, perché sono più che convinto che di questo passo… ho ben poco da restare allegro.
Perché è follia, è pazzia, è insanità. È mentire, è nascondersi dietro una figura che non è la mia. È imbrogliare, è rubare attimi a l’esistenza che vorrei davvero. È insultare, è storpiare. È violentare, è colpire alle spalle il buon senso lasciandolo tramortito a terra. È ridere, è latrare parole che sono stanco di ripetere. È omettere, è dimenticare il sapore delle cose semplici. È sopravvivere…

Lo so. Lo so…
È come parlare al vento, è come cercare di oltrepassare un muro spesso dieci metri, grattando con le unghie nella speranza che prima o dopo crolli, lasciando un varco abbastanza grande perché tu possa scappare. È impossibile. E sai perché? Perché l’ho scelto io. È colpa mia.
Tu mi avevi detto di stare attento, rischiare non è mai stato il mio forte.
Ma tu non avevi idea di quanto fossi annoiato, stufo di vedere la mia stupida adolescenza traballare da un lavoretto all’altro, e pure incazzato per il non riuscire ad ottenere quello che bramavo.
Ecco. Visto? Ora ci sono riuscito. Ora ho tutto quello che volevo, dannazione!
… e non ho niente.
Devo correre come un forsennato per ubriacarmi in santa pace, senza rischiare la cecità o il daltonismo per colpa dei flash, e correre altrettanto veloce per nascondere al mondo il mio volto sbronzo, ma sereno e rilassato.
Devo imprecare in settantasette lingue più una, quando devo improvvisare una trincea, occhiali e berretto, per dare battaglia a chi mi pedina impedendogli di rubarmi le smorfie di disprezzo che sono certo finirebbero sul primo giornaletto per teenagers impazzite.
E ho ridotto il mio vocabolario. O forse l’ho allargato. Dipende dai punti di vista. Manca di libertà di parola e abbonda di ripetizioni. Non so quale delle due sia da prendere di punta, ma ho dovuto farlo.
Equivale un po’ al sentirsi derubati per metà della propria creatività, della propria anima, perché è lo stesso del mostrarsi solo in parte: mettere una linea di confine a quello che sono, tappare le ali al mio pensiero e cucire le mie parole… Un’ombra che scivola lungo i muri, perché è incapace di camminare indipendentemente, perché manca di qualcosa. Dell’altra parte di me stesso.

Stai sorridendo, vero?
È buffo, ma… credo che, alle volte, carta e penna ti diano una sicurezza maggiore che non uno stuolo di bodyguards scelti apposta per te. E il motivo è semplice: gli uomini prima o poi se ne vanno, cambiano… spariscono. Le lettere no. Restano lì, per sempre. Su carta, nell’inchiostro, nel tempo e nello spazio; si incidono col fuoco nel grande cuore dell’universo, nelle schiera delle preghiere, delle suppliche e delle speranze. Dei sogni, dei sentimenti… Scivolano sulla cortina di luce che è la volontà umana di andare avanti a credere, e lì restano. Incancellabili.
Ecco perché… ti scrivo.
Perché oltre ad essere convinto che ciò che dirò non andrà mai perso, ho la speranza e la breve illusione di sentirti più vicina. Come se riuscissi a scorgere il tuo viso, i tuoi occhi e il tuo sorriso attraverso la carta, e sentissi il sospiro annoiato che fai man mano scorri questa lettera.
Si, oddio si! Quanto sono noioso! Ahah…

A proposito, hai ancora tu i miei spartiti? Quelli della vecchia canzone che ho scritto prima di partire, due mesi fa?
Dio… quanto mi manca.
Non ho mai tempo per suonare, sai? Ne per comporre. E se ne ho, non è abbastanza, e sembra insufficiente…
È come bruciare dall’interno. L’ispirazione arriva, sale e comincia a graffiare. Vorresti fermarti e darle ascolto, lasciare che ti abbracci e che ti renda l’uomo più felice sulla terra… e invece, vergognandoti come un ladro, devi dirle “Ora non posso”.
È come una donna, si. E io la sto deludendo. La sto trascurando. Lei e la mia chitarra.
Non basta portarla in giro come un baluardo di speranza, con la convinzione che possa bastare a difendermi contro ciò che mi spaventa, perché alla fine di ogni viaggio resta confinata nella custodia, e quando le permetto di prendere aria, sono talmente stanco da non rendermi conto che è notte e non giorno, e viceversa. Ridicolo…
E ci crederesti se ti dicessi che, proprio pochi giorni fa, mi hanno regalato un libretto, credendo di farmi felice? Ah.
Appena sono tornato in camera, io… io l’ho preso e l’ho nascosto sul fondo della valigia e ho cominciato a piangere. Non voglio vedere le note, non voglio vedere i tempi, non voglio immaginarmi i suoni… Non posso, non ho tempo, non ho forza. Preferisco rimanere nell’ignoranza, piuttosto che vedere da lontano l’Eden e non poterlo sfiorare…
E quando passo in parte ai piano bar, e sento il pazzo di turno che si gongola dando sfoggio della propria bravura, il mondo si tinge di cupo ancora una volta, perché vorrei essere al suo posto e dimenticare che “ho una faccia da proteggere e conservare”, come se fossi un prodotto da imballare.

D’accordo. D’accordo. Ho capito.
Devo smetterla. “Bobby la lagna”. “Bobby il sentimentale”. “Bobby la donnicciola”.
Lo sento, me lo ricordo. Me lo ripetevate in continuazione quella sera. E nonostante cerchi di riderci sopra, strillando che non è vero, che sono forte abbastanza, non posso fare a meno di piegare il capo e… si, ammettere che sono uno stupido ed inutile sentimentale.
Ma è quello che sono, ok?
Una tela bianca su cui sono stati dipinti paesaggi e cieli sconfinati, colori e macchie che si mescolano fra loro e rievocano i ricordi che mi hanno segnato. Una vecchia cassetta audio con incisi suoni… rumori e note alla rinfusa, ma che nel loro caos hanno un ordine, una sequenza ben precisa, scandita dal corso del tempo che, nel suo lento scorrere, ha solcato e marchiato ogni momento con un tono alto e basso, componendo quella melodia che mi anima ogni volta che torno in vita.
O forse… dovrei dire che è quello che ero.
Perché ora, sfiorando con malinconia quel ritratto e quella piccola cassetta, tutto ciò che riesco a vedere, è una distesa sconfinata di colori che colano spenti su un pavimento troppo freddo ed umido perché possa darmi calore; tutto ciò che riesco a sentire è il rumore di una vecchia bicicletta che cigola e si porta dietro la ruota storta e rotta, finendo abbandonata in un angolo dove l’unico suono è quello del silenzio, ad eccezione del lento fischiare del ferro che si accartoccia sotto la pioggia.
Sono rattoppi, non capisci? Come una trapunta, piena di pezze che si cuciono le une sopra le altre, andando a riparare il buco che pian piano si espande. Sai che prima o dopo resterà il nulla, ma non puoi fare a meno di rammendare…
Speranza ed illusione.


Che sciocco che sono. Parlo e mentre scrivo sento nella testa la tua risposta, come se fossi qui, accanto a me.
Perché è questo che mi diresti, vero? Che… una bicicletta può restare un ricordo amato, anche se rotta ed inutilizzabile, perché è con quella che hai visto il mondo, è con quella che sei andato oltre i confini delle tue paure, è con lei che hai infranto le barriere dei tuoi limiti… E diresti che i colori, anche se sbiaditi, hanno lasciato nell’aria il loro splendore e il loro significato almeno per un giorno, come il volo di una farfalla, e senza dubbio, hanno graffiato la memoria di qualcuno, senza correre il rischio di rimanere ignorati.

Si… forse è così.
Forse sono il vecchio e il nuovo. Forse ora solo il vecchio… Ma ha importanza?
Mi sento sfinito, umiliato, stracciato e diviso a metà… ma c’è una cosa che ho capito.
Ho un valore.
E non parlo di quello… stupido ed inutile valore artistico che mi riempie le tasche e mi fa dormire in letti di prima classe.
Parlo di me. Parlo di quello che sono.
Perché se è vero che ogni giorno che passa sento incombere la tristezza e la fatica, se è vero che ogni ora che trascorre sento quanto tempo stia scivolando via dalle mie mani senza che abbia davvero dato voce al mio spirito libero, se è vero che ogni minuto svanisce senza che io mi sia maledetto per non aver fatto si che potesse durare all’infinito… se è vero che provo ansia, dolore, paura e rimorso, tensione e stanchezza, allora vuol dire che sono vivo. Che ho un cuore. Che sono qualcuno.
Qui, sparire inghiottiti dal vortice del materialismo, dell’apparenza e della superficialità è all’ordine del giorno. Sono circondato di ologrammi di gente che un tempo erano persone, buone o cattive, ma persone.
Mentre io sono ancora qui, con i miei strappi, con le mie toppe, con i miei cigolii, con i miei colori sbiaditi… con le mie note perse e confuse, con il mio cielo coperto. Ma sono qui.
Ed è questo. È questo maledizione che mi manda avanti. La speranza e la voglia di credere che, anche se continuerò a perdere terreno, non perderò me stesso. Restare indietro e vedere gli altri sfrecciare, è un buon panorama, immagino… almeno non rischio la pazzia, giusto?

… sarà meglio che vada. Fra poco mi rapiranno e mi rinchiuderanno in una stanza per l’ennesima intervista. Spero che esploda la telecamera. O che la giornalista abbia il singhiozzo, almeno mi divertirei. Dici che potrei farle il verso? No. No forse… forse è controproducente, si… Vocabolario dimezzato, Bob, vocabolario dimezzato, la sai la ricetta ormai no? Coraggio.

E no. Non mi sono dimenticato.
Cosa vuoi come premio per avermi ascoltato? Perché mi hai ascoltato, vero?
Beh, prometto che ti regalerò quello che vuoi, eccetto il mio cane, appena tornerò a casa. Ma per ora… grazie.
Lo scriverei in modi e colori diversi se fosse possibile, in modo da dargli tutte le sfumature necessarie per trasmetterti la mia gratitudine e il mio affetto, piccola pazza, ma… conosco solo una parola. E te la lascio. È tua. Ti appartiene. Grazie.

Chiamerò appena so della prossima ora d’aria e quando sarò pronto per essere impacchettato e spedito a casa. Promesso.
Sii forte, sempre, tieni viva la fiamma che brucia nel petto, tienila accesa… perché è quello il vero tesoro, e ora l’ho capito.

Grazie.

Bobby”




… e rileggendo le ultime parole d’inchiostro, con quella piccola sbavatura in fondo, anche lei capì.
Che non occorre essere grandi uomini e condottieri nella vita, col proprio nome inciso su una targhetta in oro e un tappeto rosso scintillante sotto i piedi. Non occorre mentire e giurare di essere ciò che non si è, per essere apprezzati dal mondo intero.
Perché prima di ogni cosa, prima dell’essere ammirati, prima dell’essere stimati, prima dell’essere ricercati… prima di tutto, ci siamo noi. Piccole pedine in circolo nel mondo, ciascuna sulla propria strada, incrociata a mille altre, ma ben delineata e con uno scopo durante e alla fine.
Non importa quanti saranno coloro che ci passeranno accanto, guardandoci dall’alto delle loro carrozze in diamante, e noi su una povera bicicletta malandata; non importa quanta poca considerazione riceveremo da chi crede di aver costruito metà del mondo; non importa quanta polvere mangeremo per colpa di chi vorrà insabbiarci per essere migliore. Perché noi siamo noi… con i nostri ricordi, con i nostri colori e le nostre cicatrici. Siamo noi che con i nostri piccoli gesti, speranze e paure resteremo nel grande libro del tempo, perché viviamo. Crediamo. Diciamo il vero. E soffriamo. Ma non ci perdiamo. E se mai dovesse accadere, ci sarà qualcuno che, su un’altra bicicletta malandata, si fermerà, ci schiaccerà l’occhiolino e ci farà posto sul seggiolino, accompagnandoci nel lungo viaggio.

Bobby l’aveva capito. Aveva sofferto e soffriva. Ma aveva capito.
E lei… aveva capito. E aveva anche una bicicletta. E chissà che, al ritorno del naufrago, non sarebbe servita davvero, per ricominciare a dare un senso ed una rivincita dove i grandi e potenti avevano fatto terra bruciata.
La strada era lunga, ma il panorama, dall’alto di una bicicletta cigolante, è il premio più bello che ci sia.










….





Tutto qua. Nient’altro da aggiungere.
Spero solo che Robert mi perdoni se alle volte lo prendo di mira per le mie assurde riflessioni… se lo straccio di domande esistenziali e lo maltratto a suon di sofferenze. Ma si, è il mio povero modo di dimostrargli affetto :P  … Un modo strano si, ma ormai mi rassegno all’idea di non essere normale, ahah!
Un bacione a chi legge ^.*


beth
  
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