Erano a Rodeo, a casa di Billie
Joe, in un freddo pomeriggio d’ inverno del 1989. Fuori l’ aria era gelida e il
clima all’ interno della casa non era da meno, dato che la famiglia di Billie
non poteva permettersi nulla per riscaldarsi, se non una misera stufa e qualche
coperta. Erano lì per mettere appunto un paio di pezzi da suonare il sabato
sera successivo al Gilman e Billie era tutto eccitato, cosa che lo rendeva
ancora più bello.
-non vedo l’ ora, John,
quanto sarà bello! Non immagini nemmeno quante volte ho sognato questo
momento!-
John lo ascoltava poco e
niente, troppo impegnato a scrutarlo e ammirarlo. Dio, quanto era bello;
piccolo e magro, dolce, con quegli occhioni da cerbiatto che avevano fatto
impazzire John. Aveva perso la testa, non ce la faceva davvero più, si sentiva
scoppiare la testa e, soprattutto, i jeans. Troppo stretti in quel momento.
Billie era vicinissimo a lui, erano sotto la stessa coperta sul piccolo divano
del soggiorno. Bastò poco. Bastò che Billie lo abbracciasse a scatenare la
parte animale di John che, sfruttando tutta la sua forza fisica, stese Billie
sul divano per sovrastarlo e violargli la bocca. Il resto fu veloce e John lo
ricordava come qualcosa di confuso, indistinto, una scarica elettrica eccitante
e dolorosa che per lui aveva ancora il sapore del senso di colpa per essersi
approfittato in quel modo del suo migliore amico. Billie che gemeva, sentendosi
violare la bocca in modo violento e feroce, John che sentiva di fargli del male
e non si era fermato, Billie che si divincolava e John che lo bloccava
stringendogli i polsi tanto da lasciargli i profondi segni delle unghie sulla
pelle lattea, Billie che scoppiava a piangere urlando in quella scura casa
vuota e John che gli tappava la bocca con la sua spingendoci con forza e
passione la sua lingua, Billie che soffriva vedendo l’ amico strappargli i
vestiti di dosso, John che ansimava a contatto con ciò che aveva sempre voluto,
John che non reggeva più, John che infilava di forza le mani sotto la cintura
del chitarrista, John che metteva tutte la sue forze nell’ intento di eccitare
Billie, di fargli provare piacere e fargli smettere di opporre resistenza, di
fargli smettere di piangere. Ci riuscì, ma John sapeva che, anche avendo abbandonato il
progetto di divincolarsi dalla stretta infernale del batterista, Billie non era
felice di essere lì, con le gambe e le mani bloccate, succube e prigioniero di
colui che credeva essere uno dei suoi migliori amici, una persona che non lo
avrebbe mai abbandonato, che non lo avrebbe mai VIOLENTATO. Perché era quello
che John stava facendo, ammise a se stesso, lo stava violentando, lo stava
violando, stava approfittando di lui e della sua debolezza. Billie non avrebbe
voluto essere lì, mentre con gli occhi serrati avvertiva il suo sesso nelle
mani prepotenti di John, mentre altre due dita del compagni di band si
infilavano aggressivamente e con fretta tra le pieghe del suo corpo. John gli
aveva lasciato sanguinanti graffi sulla schiena nel tentativo di farlo stare
fermo e di farlo tacere, e quelle ferite facevano un male cane a contatto con
la stoffa del divano e della pelle di chi le aveva provocate. Poteva essere davvero John? Si chiese
Billie mentre piangeva senza sosta, in preda a quel piacere che non aveva
voluto provare di sua spontanea volontà, che era stato indotto a provare,
meccanicamente, perché una cosa era consequenziale all’ altra nel suo corpo, e
anche senza coinvolgimento emotivo e in preda al terrore e al dolore i suoi
ormoni erano lo stesso entrati in circolo nel sangue all’ impazzata, come api
di fronte a un nemico, coalizzati nel far del male al loro padrone. E fu male
che Billie provò, un male atroce fisico e morale, quando John, giunto al
limite, entrò dentro di lui, violandolo definitivamente, svuotandolo di quella
minima speranza che Billie potesse nutrire fino a quel momento: quella che John
si sarebbe fermato, giunto a quel punto, che avrebbe avuto il minimo rispetto
della sua persona. Si sentì come un oggetto, come una bambola di pezza nel
momento in cui venne, in cui quell’ incubo finì, in cui John uscì da lui con la
stessa fretta con cui era entrato, in cui Billie si sentì ancora più male, in
cui si accorse che nulla sarebbe stato più come prima.
…
-Fu così che Billie
cominciò a sentirsi davvero un oggetto e ad avere storielle di una notte con
una buona parte dei suoi colleghi- continuò Mike, deciso a rivelare a Trè tutti
i segreti di Billie e suoi, finalmente libero dalla violazione dell’ amico. In fondo
che male c’ era, erano amici da sempre, o no? – si sentiva un oggetto di
piacere davvero, ora, e lo è rimasto ancora adesso.-
-Quindi è per questo che
John fu cacciato dalla band, prima che entrassi io?- chiese Trè sconcertato, non
avrebbe mai immaginato che esperienza orribile aveva vissuto Billie all’ età di
quei diciassette anni di confusione. Non immaginava poi che fosse stato davvero
JOHN a fargli del male, il ragazzo a cui aveva insegnato a suonare la batteria,
il giovane burrascoso ma dolce che aveva visto crescere tra i piatti e i
tamburi.
-Esatto, anche se questa
faccenda non è venuta mai allo scoperto. Abbiamo preferito tenerla tra noi. Billie
soffriva troppo e domande indiscrete da parte di qualche giornalista stronzo
sarebbero state fatali per lui. Pensò al suicido, sai?- continuò Mike – eravamo
nella nostra casa a Oakland, quella baracca che abitavamo insieme. Era rientrato
dal lavoro e lo trovai appena in tempo. Aveva una lametta in mano e la puntava
dritta al polso, ripetendo tra sé e sé che tanto nessuno si sarebbe accorto
della sua assenza e che sarebbe stato meglio così, perché avrebbe terminato di
soffrire. Era tanto assorto e concentrato che non si accorse di me, che gli
piombai dietro e lo abbracciai stretto strappandogli di mano la lametta. Cercò di
liberarsi dalla morsa tremando come una foglia e chiamando a gran voce il nome
di John- Mike era
immerso nei ricordi, con gli occhi velati di malinconia e un tenero sorriso
dipinto sulle labbra, come se fossero ancora nell’ ‘89, in quello squallido
bagno di quell’ altrettanto squallida casa.
-Allora capii che non
stava davvero bene. Lo portai sul divano del soggiorno e lo lasciai lì, ancora
tremante, a fissarmi e a piangere a dirotto, urlandomi contro ogni insulto per
averlo sottratto al suo destino, per avergli permesso di continuare a soffrire,
a martoriarsi. Non ribattei e andai a preparargli una camomilla per
tranquillizzarlo. Ero sotto shock, puoi immaginarlo. Tornai in soggiorno e lo
trovai ancora in lacrime, con le ginocchia in grembo e la bocca piegata in una
smorfia di disperazione. Solo allora capii che a lui tenevo più di qualsiasi
altra cosa al mondo, che era lui la mia vita, che era per lui che avevo speso
tutti i miei miseri 17 anni, che era per lui che mi alzavo la mattina, che era
per lui che sorridevo, che era per lui che, in quel momento, soffrivo terribilmente.
Quando mi sedetti sul divano, attento a non toccarlo per non fargli male o per
non sentirlo tremare, tutto parve veloce: lui che mi abbracciava, che mi
baciava, che mi toccava in ogni centimetro quadro di pelle, lui che mi spogliava
e si lasciava spogliare, che si fermava e lasciava proseguire me, io che andavo
in automatico e che, pieno di passione e dolcezza, gli sfilavo i jeans, lo
accarezzavo e mi fondevo con lui. Lo vedevo sorridere, respirare profondamente
e stare bene per la prima volta, abbandonarsi a me senza paura e dimenticarsi
di John. Da allora è cominciato tutto, tra noi.-