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Autore: Ligeia    09/08/2010    0 recensioni
Elisabeth Anne Summers abita a New York, ha un buon lavoro e un ragazzo: sono due anni che non sente più nominare la Bocca dell’Inferno e ha provato con tutte le sue forze a reprimere i ricordi, che tiene rilegati in un angolo della sua memoria insieme al nomignolo di Buffy. Buffy è morta, di nuovo. Sarà una telefonata improvvisa a risvegliarla, per volere o per forza, richiamandola ad una realtà che credeva di essersi lasciata alle spalle. NB: post-chosen e 5a stagione AtS
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Buffy Anne Summers, William Spike
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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p>Nota dell'Autrice: è una storia che ho scritto nel 2005, quindi forse è già stata letta, ma ho iniziato a ricorreggerla e ci tengo a conservarla anche in questo archivio. La storia quindi è completa, nonchè piuttosto lunga, cercherò di postare tutto al più presto.



1. LA MIA NORMALITA'


New York, aprile 2005

 

Scese in strada, tenendo sotto braccio una borsa porta documenti e con indosso un sobrio tallier blu scuro; a passo spedito raggiunse l’ingresso della metropolitana, pronta per iniziare una nuova giornata di lavoro.

 

C’era molta calca in quei tunnel.

 

Salì su di un vagone che si era fermato vicino a lei, seguita a ruota da un fiume di persone, tutte apparentemente uguali, e si aggrappò alla maniglia che le penzolava sopra la testa, attenta a non urtare nessuno. La metro era partita e avrebbe dovuto attendere sei fermate prima di trovarsi davanti al grande palazzo dove lavorava.

 Fissò il suo viso riflesso nel vetro, si guardò negli occhi. Aveva sempre amato farlo, voleva leggerci dentro forza, ma ora c’era solo rassegnazione. Non tristezza, ma una strana malinconia, un ricordo di momenti passati e persi. Si costrinse a distogliere lo sguardo della sua immagine, fissandolo invece su altre decine di persone: picchiettavano febbrilmente sui tasti di computer portatili oppure parlavano al cellulare, tentando di reggersi ai corrimani per evitare di cadere ad ogni fermata. Nessuno si rese conto che lei li stava silenziosamente osservando, intenti com’erano nelle loro mansioni e disinteressati ad una ragazza che li osservava nel riflesso di un vetro. Non si concentrò su nessuno in particolare: una volta scesi non avrebbe ricordato nessuno di quei visi e si domandò se, magari, non prendesse sempre la metro con le stesse persone, senza mai essersene accorta. Ma, dopotutto, che importava? Loro non la vedevano, non sapevano nulla di lei, chi era e cosa era stata. Anche se si fossero accorti di avere i suoi occhi puntati addosso si sarebbero voltati dall’altra o avrebbero continuato il loro febbrile lavoro, senza soffermarsi più di un secondo a chiedersi come mai una ragazza li fissava dal riflesso di un finestrino della metropolitana.

In quegli istanti si sentiva un pesce fuor d’acqua, a pensarci bene una sensazione che la aveva accompagnata per parecchi anni prima di quel momento, ma per motivi diversi, completamente diversi. Non era più come allora però: ora le bastava distogliere lo sguardo dai suoi occhi che la fissavano dal vetro per tornare alla normalità.

 

Già, la normalità.

 

Voltò la testa, decisa a concentrarsi su qualcos’altro, a smettere di pensare, di ricordare.

 

Il treno si fermò. Scese frettolosamente, evitando di farsi buttare a terra. New York era un inferno nell’ora di punta. Un inferno.

Attraversò la strada, dirigendosi verso l’entrata di un alto palazzo di vetro: un’altra giornata, uguale al giorno prima e a tutte quelle che sarebbero venute.

Il sole brillava fuori dalle finestre del suo bell’ufficio e i raggi giocavano sulla superficie del tavolo in cristallo su cui erano impilate in bell’ordine molte teche colme di fogli: era una bella giornata, piena di lavoro da sbrigare, e ringraziò Dio per quello.

Si sedette nella morbida poltrona di pelle girevole, lasciando la giacca appesa all’attaccapanni dell’entrata. Una lunga giacca leggera, color beige, comprata a metà prezzo in un piccolo negozio del suo quartiere: un tempo non avrebbe nemmeno preso in considerazione l’idea di…

Il telefono iniziò a squillare insistentemente, destandola dai suoi pensieri. Alzò la cornetta, pronunciando senza enfasi “assicurazioni Smithers&Co, buongiorno”. Per tutta risposta sentì il suo interlocutore scoppiare a ridere.

 

“Elisabeth, detto così sembra che tu lavori per un impresario delle pompe funebri piuttosto che per una delle compagnie assicurative più importanti della città”

 

“ciao Mark” disse sorridendo sforzata nel tentativo di dare alla sua voce un’intonazione allegra

 

“cosa fai stasera?”

 

“Niente che mi risulti”

“sbagliato, vieni a cena con me”

 

“davvero?”

 

“era un sì?”

 

“era un sì”

 

“perfetto, allora ti passo a prendere alle 7, ci divertiremo”

 

“ciao” sussurrò prima di riattaccare.

Mark, il suo ragazzo. Sempre di buon umore, entusiasta della vita; riusciva a trasmettere questa gioia anche a lei. A volte.

Si accomodò meglio sulla poltrona, girandosi verso l’enorme finestra che le stava alle spalle: le sembrava di essere in una cappa di cristallo chiusa là dentro. La prima volta che era entrata aveva pensato che non sarebbe resistita più di due settimane.

Erano passati quasi due anni da quel giorno.

 

Tornò ad appoggiare i gomiti sulla scrivania, agguantando una delle cartelle. Non doveva pensare, non a quei momenti, non a quello che era successo, non a come era finita.

Ora aveva una vita, gli altri avevano una vita.

 

Il telefono riprese a squillare e non smise per tutto il giorno, nemmeno per la pausa pranzo; si era abituata presto a lavorare duro e, anche se il suo contratto di lavoro non prevedeva più il suo licenziamento a breve termine, non aveva mai diminuito il suo orario. Erano le  cinque e mezza quando uscì.

 

Inforcò un paio di occhiali da sole scuri per ripararsi dai riflessi del sole che calava, dirigendosi con il solito passo verso la stazione della metropolitana. Tra poco sarebbe tornata al suo appartamento. Il posto dove viveva. Quante volte aveva tentato di convincersi che ora era la sua casa…ma ogni vota che pronunciava quella parola le si affacciava alla memoria e una piccola veranda che dava sul giardino e la cassetta delle lettere davanti, una villetta monofamiliare, come tutte le altre del quartiere…poi vedeva una finestra, sempre aperta, con le tende svolazzanti, che frusciavano leggere ad ogni soffio di vento. A volte la notte si affacciava al suo ampio terrazzo, osservando sotto di sé le strade buie e ancora affollate. Seguiva i passanti con lo sguardo, li vedeva imboccare vicoli scuri e non tornare più, allora distoglieva gli occhi, resistendo al desiderio di gettarsi per le scale per fermarli, avvertirli, salvarli. Altri invece camminavano a passo spedito, verso casa probabilmente. Li invidiava. Loro potevano tornare a casa.

 

Durante il tragitto evitò di guardare il vetro, concentrandosi sul quotidiano che teneva aperto davanti a lei. Sfogliò distrattamente le prime pagine che trattavano solo di politica e sport, focalizzandosi sulla cronaca nera, un riflesso incondizionato che non era ancora riuscita ad estirpare. Lesse attentamente il titolo di testa: “dissanguato senzatetto sulla 5ta, non è bastata la tempestiva trasfusione di sangue”. Chiuse il giornale mettendolo sottobraccio e si diresse verso l’uscita, per raggiungere velocemente la porta d’ingresso del palazzo dove viveva.

 

“Buongiorno signorina Summers” salutò cordiale l’anziana portinaia

 

“Buon giorno” rispose in tono gentile ma distratto

 

 la salutò con la mano mentre le porte dell’ascensore le si schiudevano davanti

 

Esausta infilò la chiave nella toppa, spingendo la porta.

 

Gettò ogni cosa sul divano, schiacciando il tasto per ascoltare la segreteria telefonica: due messaggi presenti. Uno era di Mark, che le ricordava di farsi trovare pronta, e sorrise ascoltandolo.

L’altro era di Dawn.

Si sedette su una comoda poltrona, sprofondando tra i cuscini; poi chiuse gli occhi, lasciando che il nastro riproducesse la voce della sorella.

 

“Buffy? Ciao sono Dawn, volevo…volevo solo dirti che qui va tutto bene, lo so che ci siamo sentite solo l’altro ieri ma…avevo voglia di sentirti, per sentire come va il lavoro sai… richiamami quando puoi. Ciao…”

 

sorrise nel sentire quel nome…Buffy. Ora si presentava sempre come Eilsabeth. Elisabeth Anne Summers, anche nessuno la aveva mai chiamata così: era solo il nome stampato sulla sua carta di identità.

Buffy. Il nomignolo scelto da sua madre, il nome che aveva terrorizzato migliaia di…ma ora era finita.

Si sentì in colpa per non aver risposto alla chiamata della sorella…Dawn era l’unica cosa che le restava, l’unica con cui avesse mantenuto i contatti. Sua sorella. Ora frequentava un college privato di Philadelphia. L’aveva scelto quando la loro città era…da quel momento potevano andare dove volevano.

Sarebbe andata a trovarla la settimana successiva, aveva bisogno di stare insieme a lei, di ritrovare la vecchia complicità che aveva permesso ad entrambe di sopravvivere alla morte della madre. Compose velocemente il numero del suo cellulare, sperando di trovarlo acceso. Lasciò squillare a lungo, ma non rispose nessuno.

 

Lasciò cadere a terra il vestito, infilandosi sotto la doccia e chiuse gli occhi, pensando a sua sorella…quanto tempo era passato dall’ultima volta che si erano viste? quasi un mese, perché lei aveva deciso di seguire un corso per integrare gli studi e avere più possibilità di entrare in una prestigiosa università. Lei non glielo aveva mai detto, ma sapeva che Dawn avrebbe voluto tornare in California.

La sua piccola Dawn, quante cose aveva affrontato. Se la ricordava, triste e indifesa, in cima alla torre. Serrò maggiormente gli occhi, incapace però di scacciare il pensiero. Le aveva detto che la cosa più difficile del mondo era viverci ed ora tutte e due stavano avendo l’ennesima prova della veridicità di quelle parole.

Ora le tornavano in mente i visi degli amici, quando era tornata in vita…uscì in fretta dalla doccia, coprendosi con un grande asciugamano e dirigendosi in camera per prepararsi.

 

Aprì l’armadio, in cerca del vestito adatto per la serata. Tra le giacche teneva ancora quella di pelle nera, non aveva avuto il coraggio di buttarla via come aveva fatto con il resto. Sfiorò delicatamente con la punta delle dita le maniche dell’indumento…ma allontanò di scatto le mani, afferrando un vestito da sera scuro e gettandolo sul letto.

 

No, non poteva rischiare di ricordare…tutte le notti passate, passate con lui. Tutti i combattimenti…ricacciò il pensiero. Ora niente di tutto quello faceva più parte della sua vita.

 

Aveva appena finito di truccarsi quando suonò il campanello. Davanti a lei c’era Mark, con uno splendido mazzo di rose in mano. L’aveva conosciuto in un bar del centro, anche lui lavorava per un’azienda assicurativa. Era dolce, sensibile, con il senso dell’umorismo, e innamorato. Sorridendo si chinò per baciarla, prendendola poi delicatamente per un braccio. Senza opporre resistenza si lasciò condurre alla sua auto, che si fermò davanti ad un bel ristorante italiano.

 

“siamo arrivati” disse aprendole la portiera e aiutandola a scendere

 

“grazie” sussurrò prendendo la mano che le offriva

 

“ti ho già detto che sei bellissima?”

 

“non mi stanco di sentirtelo dire” rispose lei con un piccolo sorriso

 

i due si accomodarono in un tavolino un po’ in disparte, ordinando i classici spaghetti.

 

“allora, cosa mi racconti di bello? Non ti ho sentita molto entusiasta questa mattina”

 

“no, è tutto a posto, è solo che ho molto da lavorare. Anche perché tra qualche settimana parto per andare a trovare mia sorella”

“giusto, come sta?”

“non ci vediamo tanto quanto vorrei però sta bene, studia a Philadelphia.”

 

Passarono il resto della serata a chiacchierare del più e del meno, Mark aveva il potere di distrarla dai suoi problemi, facendola sentire…normale. Odiava quel termine.

 

La serata si concluse a casa sua, sorseggiando del vino.

I due erano distesi sul divano, abbracciati.

 

“sai ,a volte penso che so così poco su di te…è come se non ti conoscessi del tutto. Dei giorni sei felice, altri assorta in chissà quali pensieri…non riesco a capirti” si chinò per darle un piccolo bacio sulle labbra.

 

Solo uno aveva avuto il dono o la dannazione di capirla.

 

Senza rispondere lei chiuse gli occhi, appoggiandosi sulla sua spalla. …un uomo normale. Sapeva di non provare amore per lui e si odiava profondamente perché…perchè non sentiva altro che riconoscenza. Riconoscenza per averla aiutata a superare uno dei momenti più terribili, quando non c’era niente da decidere, ma unicamente accettare. Accettare di ricominciare una vita nuova, diversa, che non aveva il coraggio di confrontare con quella che conduceva prima.

Solo stupida riconoscenza. Sperava solo che il tempo le insegnasse ad amarlo come meritava; e se tra le sue braccia non riusciva a sentirsi protetta, doveva accettare che non aveva più bisogno di esserlo.

 

Si lasciò portare in camera da letto, dove lui la infilò dolcemente sotto le coperte, distendendosi vicino a lei.

 

La mattina seguente si svegliò di soprassalto, le capitava ancora di sognare quello che aveva…combattuto. Era una delle cose che non la avevano mai abbandonata e che continuavano a ricordarle cosa era stata, chi era stata.

 

Si guardò attorno: non vide Mark ma un forte profumo di frittelle proveniente dalla cucina inondava la stanza. Si lasciò sprofondare di nuovo tra le coperte.

Willow…la sua Willow, quante volte la aveva vista, infagottata in quei suoi buffi pigiami troppo larghi, mentre le preparava la colazione. Anche lei ora era lontana, lavorava a Washington per una ditta che produceva software per computer. Ormai i loro contatti si erano fatti sempre più rari; un biglietto per le ricorrenze e qualche breve telefonata. Era come se entrambe volessero lasciarsi alle spalle il passato ma non riuscissero a farlo completamente, sentiva però che presto anche quel minimo contatto sarebbe venuto meno: erano tre mesi che non la sentiva.

Le tornò in mente il giorno del suo ultimo anno di liceo, quando era arrivato il momento di scegliere l’università. Le la aveva raggiunta nel giardino della scuola e Willow era distesa sull’erba e faceva roteare in aria una matita; sotto gli occhi le lettere dei college che la accettavano: le aveva mostrato quella di Sunydale con il più spontaneo dei sorrisi, dicendole che la biblioteca era la più fornita dello Stato. Era rimasta per lei…non aveva più trovato una amica così.

Si alzò improvvisamente, scacciando quei ricordi che le mettevano addosso solo tristezza.

 

Andò in cucina, completamente vestita e pronta per uscire. Baciò Mark sulla guancia, mentre era ancora intento a cucinare.

 

“te ne vai già?” chiese deluso

 

“no, posso fermarmi a colazione” rispose, tentando di velare la malinconia che l’aveva invasa

 

i due si sedettero di fronte, ognuno con un piatto.

 

“allora, com’è la tua giornata?” tentò di conversare Mark

 

“spero tranquilla, è venerdì, quindi devo chiudere alcune pratiche…”

 

in quel mentre squillò il telefono.

Sorpresa, la ragazza si diresse verso il mobile dov’era appoggiato l’apparecchio, leggendo il numero dell’interlocutore. Il prefisso era quello di San Francisco. Trattenne il respiro: conosceva solo una persona che abitava lì. Alzò la cornetta, titubante.

 

 

“pronto?”

 

“Pronto, sono Rupert Giles…Buffy?” l’aveva riconosciuto immediatamente, sempre la stessa voce professionale

 

si interruppe per un attimo “buongiorno, come sta?”

 

“Buffy – pronunciò il suo nome con un misto di commozione e tristezza – io…io sto bene…tu?” era quasi in imbarazzo, come se non riuscisse ad esprimere i suoi sentimenti

 

“anch’io…” si fermò, stava per scapparle la sua solita battuta, quella che gli propinava tutte le volte che telefonava a casa sua, a Sunnydale. ‘mi faccia indovinare, qualcuno vuole distruggere il mondo’

 

“mi…mi dispiace disturbarti a casa ma era urgente – il suo cuore accelerò – ho bisogno di te. Non posso spiegarti ora ma è necessario che tu venga qui al più presto. Ti prego avverti Willow. – sentì un tuffo al cuore - Io contatterò gli altri.”

 

“cosa sta succedendo?” la sua voce era quella preoccupata di sempre

 

“ti prego Buffy, ti spiegherò quando sarai qui. Ti prego”

 

“Lo sa che ho chiuso con tutto quello che riguarda…- si accorse che Mark ascoltava la conversazione - e anche gli altri”

 

“Buffy io…lo so e mi dispiace di doverti riportare qui…- non c’era bisogno di ulteriori spiegazioni- ma…c’è un problema”

 

rimase in silenzio per qualche istante “quando?”

 

“parti al più presto, anche oggi se puoi. Vai a prendere Willow, c’è un volo in partenza da Washington alle 5” sembrava che volesse aggiungere qualcosa, ma non continuò

“bene”

 

“Buffy…grazie”

 

“arrivederci signor Giles” lo salutò con immutato affetto, senza avere il coraggio di ribadire che lei non avrebbe più combattuto, e il cuore dell’uomo si riempì di gioia: era tanto tempo che non la sentiva chiamarlo così

 

Mark si voltò per guardarla negli occhi, lei sostenne lo sguardo

 

“chi era Elisabeth?”

 

“un amico” rispose in modo asciutto

 

“cosa voleva?” sapeva che c’era dell’altro

 

“andrò da lui appena finisco di lavorare, ti telefono al più presto” detto questo si alzò, dirigendosi in camera per preparare un bagaglio. Era stata più fredda di quanto avrebbe voluto, ma la telefonata l’aveva scombussolata molto: si sentiva come se tutto l’universo da cui era faticosamente uscita l’avesse assorbita nuovamente.

 

Lui la seguì nella stanza, osservandola mentre estraeva dall’armadio alcuni capi che non le aveva mai visto addosso.

“dove vai?”

 

“a San Francisco” rispose senza alzare lo sguardo

 

il ragazzo alzò le mani con fare sconfortato

“adesso mi spieghi cosa è successo! era una mattina come tutte le altre, stavamo tranquillamente facendo colazione, poi squilla il telefono e, appena riattacchi, mi dici che devi andare a San Francisco perché un amico ha bisogno di te?”

 

“esatto”

 

“Elisabeth, ma ti rendi conto che non ha senso?”

 

lo guardò sconsolata, sapeva di non potergli dire la verità, non avrebbe voluto lasciarlo, ma era necessario. Comunque doveva tranquillizzarlo. Sarebbe tornata presto, non aveva intenzione di essere trascinata nuovamente a sventare apocalissi ogni anno, non più. Avrebbe detto a Giles che lei non era più una…una Cacciatrice.

Le ritornò in mente il giorno in cui aveva sentito Giles ed Angel parlare dell’apocalisse per la prima volta: si era strappata dal collo la croce d’argento dicendo “non voglio morire”.

No, non voleva morire, non più almeno. Ma non era riuscita a dire di no a Giles, né a ricacciare il pensiero che la aveva attraversata quando le aveva detto che c’era bisogno di lei…sarebbero potuti tornare come una volta. Ma era davvero quello che voleva? Ognuno di loro si era ricostruito una nuova vita e, anche se separati, erano…felici. Ora lei aveva Mark, un lavoro, una casa, una vita.

Ma tutte le emozioni degli anni  passati ad essere…Cacciatrice le erano tornati alla memoria, sortendo l’effetto di una cannonata.

 

 Finì di mettere i vestiti in valigia, voltandosi per guardare il giovane sconvolto

 

“Mark ascolta, il mio passato…-non riusciva a parlare – il mio passato è stato molto difficile, e non ho ancora chiuso del tutto. Questo è il momento di farlo.”

 

“quell’uomo faceva parte del tuo…?”

 

“sì – abbassò gli occhi – del mio passato”

“vieni qui” non sopportava di vederla così, la abbracciò, lasciando che lei appoggiasse la testa sulla sua spalla

 

lentamente si liberò del suo abbraccio.

 

“devo andare” si sentiva in colpa

 

“lo so”

 

“ciao” disse passandogli una mano sul viso e baciandolo con dolcezza

 

si allontanò velocemente, con la valigia in mano. Quel giorno non prese la metropolitana, ma la macchina. Sarebbe partita il prima possibile. Prima arrivava, prima tutto sarebbe finito.

 

Accese il motore con un gesto secco, ingranando la marcia. Nel fare retromarcia vide il suo sguardo riflesso nello specchietto retrovisore…senza pensarci si voltò da una parte. Non poteva credere di essere così maledettamente…speranzosa. Avrebbe dovuto sentirsi triste, arrabbiata, piena di paura; ma non speranzosa, non…forte.

Una volta in ufficio aprì l’agenda, in cerca del numero di telefono di Willow. Trovò un post-it azzurro, con scritto il numero e l’indirizzo.

Nel rivedere la sua calligrafia rotonda le ritornarono in mente le giornate passate con lei a studiare, e quando le faceva i compiti perché era troppo stanca dopo la ronda…sorrise ripensando a quando studiavano al Bronze tra un ballo e l’altro e lei cercava inutilmente di farle imparare la lezione di francese: era stata quella notte che aveva conosciuto Spike.

Compose velocemente il numero, stranamente agitata.

 

Dopo qualche squillo sentì alzare la cornetta

“Pronto?” riconobbe la voce della ragazza

 

“Willow? Sono…sono Buffy – era la prima volta dopo tanto tempo che usava di nuovo il suo nome  e si guardò involontariamente intorno per vedere se qualcuno la aveva sentita– disturbo?”

 

La ragazza dai capelli rossi era rimasta immobile, con la cornetta in mano. Lentamente si ridestò, farfugliando qualcosa

 

“No…no, Buffy ciao” sembrava che volesse sembrare amichevole, ma la sua voce era quasi fredda, estranea

 

Willow non sapeva che pensare, si era seduta sulla poltrona girevole, sprofondando nell’imbottitura e fissando un punto indistinto di fronte a lei. Buffy…stava parlando con Buffy. Un mare di ricordi la invasero: la rivedeva il primo giorno di scuola, quando si era presentata tendendole la mano…

 

“ciao…”la voce di Buffy era titubante, sembrava che si sentisse in colpa per averla chiamata. Willow si pentì mentalmente del tono con cui la aveva accolta

 

“allora…come stai?” cercò di fare conversazione, nel tentativo di rimediare, ma la cosa la…metteva in imbarazzo

 

dall’altro capo Buffy si accorse della tensione e dello sconcerto della ragazza. Ignorando la fitta al cuore, continuò

“Willow, mi…mi dispiace chiamarti al lavoro…”

 

“Oh no, Buffy…non pensare che…” si affrettò a precisare Willow

 

“Mi ha chiamato Giles, c’è un problema” concluse Buffy senza lasciarla terminare, non voleva che aggiungesse altro, era già abbastanza doloroso

 

“di cosa si tratta?” l’attenzione di Willow venne improvvisamente assorbita da quelle parole

 

“Non me lo ha detto, vuole solo che andiamo da lui a San Francisco, ha detto che è urgente”

 

Willow rimase un attimo in silenzio…Giles aveva bisogno di loro – “quando?”

 

“appena finito di lavorare parto per Washington, c’è un aereo alle 5…lui mi ha chiesto di…sì insomma, vuoi che ti passi a prendere?” chiese insicura, non sapeva se si sentiva pronta a rivederla

 

“Certo…certo, io finisco di lavorare all’una, sai come raggiungermi?”

 

“sì, non preoccuparti.”

 

Tra le due cadde un opprimete silenzio

 

“allora…ciao”

 

“ciao”

 

Willow riattaccò la cornetta, confusa. Tra qualche ora Buffy sarebbe arrivata. Buffy…erano passati più di sei mesi dalla sua ultima visita. Non riusciva a concretizzare l’idea di rivedere la sua vecchia amica. Era incredibile quante cose fossero cambiate in quei due anni, dal loro addio a Sunnydale. Credeva che la loro amicizia non si sarebbe mai sciolta, che sarebbero rimaste per sempre le due ragazze spensierate dei tempi dell’università, ma tutto lentamente si era logorato. Ora la sentiva quasi come un’estranea, portavoce di un mondo che non considerava più il suo. Ci aveva messo anni per disintossicarsi dalla magia, era consapevole del fatto che lei non c’entrava, ma era come se anche lei facesse parte di un universo che aveva ripudiato. Tutti loro si erano divisi, dopo l’ultima battaglia e non riusciva ad immaginare cosa avrebbe significato la loro nuova unione.

 

Si allontanò dal suo angolo computer per andare nell’ufficio del suo principale, dove venne accolta dal superiore con uno sguardo distratto

 

“Buongiorno signor Chapman”

 

“Signorina Rosenberg, cosa posso fare per lei?”

 

“Vede, avrei bisogno di chiederle una vacanza anticipata, mi si è presentata un’occasione che non credo si ripeterà: a San Francisco c’è una conferenza su nuovi prototipi di software a cui posso partecipare…” si congratulò con se stessa per essersi ricordata del volantino lasciato dalla segretaria sulla sua scrivania

 

“Ma certo, se crede che sia necessario, si assenti pure per qualche settimana…lo sa quanto puntiamo sui prodotti di nuova generazione”

 

“non si preoccupi, credo che ci vorrà meno di una settimana” replicò convinta

 

“perfetto, allora è deciso. Quando partirà?”

 

“ho un aereo questo pomeriggio”

 

“faccia buon viaggio”

 

“grazie e arrivederci” concluse asciutta, voltandosi per raggiungere la porta

 

Raggiunse nuovamente il suo ufficio, dove prese il suo portatile, infilandolo nella valigetta: se non altro avrebbe potuto lavorare. Passò a casa per preparare un bagaglio leggero, per poi ritornare in ufficio, pronta per partire.

 

A casa non trovò nessuno, divideva l’appartamento con altre due ragazze, a cui si ripromise di lasciare un messaggio per avvertirle. Per il momento era single, non si sentiva ancora pronta per una nuova storia.

Chiuse a chiave la porta, osservando quasi con nostalgia l’appartamento, come se lo vedesse per l’ultima volta. Con la mente tornò al dormitorio dell’università, dove aveva diviso la stanza con Buffy…come avevano sempre desiderato. Quanto le sembravano lontani quei giorni.

 

*     *     *

 

Sperava che lei arrivasse presto, quell’attesa la opprimeva. Pur continuando a ripetersi che, dopotutto, sarebbe stata la solita Buffa, la spaventava l’ipotesi di trovarla diversa, ma soprattutto non sapeva quanto lei stessa fosse cambiata.

Ora lavorava per la Microsoft, progettava software; le piaceva il suo lavoro e poi era sempre stata brava con i computer, lei aveva fatto la scelta più scontata. Non aveva capito invece cosa faceva Buffy: doveva lavorare per una compagnia assicurativa…era riuscita a stupirla un’altra volta: aveva finito l’università ed era stata subito assunta. Avevano entrambe un futuro davanti, una miriade di opportunità. Ma prima dovevano chiudere con il passato.

 

La segretaria interruppe il flusso dei suoi pensieri, avvisandola che c’era una ragazza nell’atrio che la aspettava.

 

Prese la valigia, dirigendosi a passo spedito verso l’ascensore. Tutti i suoi colleghi stavano ancora lavorando, li vide con gli occhi puntati sullo schermo che battevano sui tasti dei loro computer. D’improvviso si sentì un’estranea, lei non faceva parte del loro mondo…le porte scorrevoli si aprirono davanti a lei.

All’ingresso c’era una ragazza vestita elegantemente, con i capelli  biondi tirati indietro da un piccolo fermaglio e degli occhiali da vista ovali, che si guardava intorno senza lasciar intravedere il minimo imbarazzo.

Si diresse verso di lei, salutando con un cenno la portinaia che ricambiò il saluto.

 

“Buffy!” le sorrise dolcemente, dopotutto era contenta di vederla

 

“ciao Willow” la salutò l’amica

 

“potevi salire…” le disse, sentendosi improvvisamente scortese per non averla invitata a vedere il suo ufficio

 

“no, grazie…ho preferito aspettare qui. Sai, non volevo scombussolarti il lavoro…sei stata gentile ad accettare” disse con sguardo sincero, sul suo viso però non vedeva più la gioia che ricordava. Si sorprese a pensare che nemmeno lei doveva esserle sembrata particolarmente felice

 

le due non sapevano come comportarsi, stringersi la mano sarebbe stato un gesto troppo formale, ma nessuna aveva il coraggio di avvicinarsi per un abbraccio

 

“Bene…io ho la macchina qui di fronte, se hai preso tutto…”

 

“certo, andiamo” convenne la rossa, seguendo l’amica fuori dall’alto palazzo.

 

Erano entrambe un po’ imbarazzate, era passato molto tempo dall’ultima volta che avevano passeggiato insieme, e quel giorno non era per diletto.

Salirono sulla macchina di Buffy, una berlina nera non troppo ingombrante, dopo aver caricato la valigia di Willow.

La ragazza mise in moto, allontanandosi velocemente dall’edificio in vetro da cui erano uscite. Tra le due cadde un soffocante silenzio, rotto soltanto dallo squillo del cellulare di Buffy.

 

“pronto?”

 

“ciao Buffy, sono Dawn”

 

“Dawnie! Ieri ho provato a chiamarti, ma non hai risposto.”

 

“lo so, mi dispiace. Ascolta, mi ha chiamato Giles…”

 

“Ha contattato anche te…” disse un po’ contrariata

 

“sì, prendo un aereo da qui e vi raggiungo – lo diceva come se fosse la cosa più naturale del mondo – c’è…c’è anche Willow?” domandò

”Sì, vuoi parlarle?”

 

“no…tanto ci vedremo tra poco, salutamela” dal tono della sorella capì che anche lei era spaventata dall’ipotesi di rivedere gli altri.

 

Appoggiò il cellulare nel portaoggetti e inforcò un paio di occhiali da sole, togliendo quelli da vista

 

“Dawn ha detto di salutarti” tentò di attaccare discorso

 

“oh…grazie. – abbassò lo sguardo per un istante, incerta sul da farsi – allora…da quando porti gli occhiali da vista?”

 

Buffy sorrise, in effetti era la prima volta che la vedeva in vesti lavorative “Li uso solo quando lavoro al computer, servono per non affaticare gli occhi” rispose in tono un po’ formale

 

“e…come va il lavoro? Sembri davvero una donna d’affari”

 

rise leggermente, era la stessa cosa che aveva pensato di Willow quando aveva visto il palazzo dove lavorava “Tutto bene, mi sono ambientata…anche tu hai fatto strada”

 

“Già…sono tornata la ragazzina che gioca sui computer, solo che adesso mi pagano” ridacchiò

 

“…eri una specie di genio della pirateria informatica, ti ho visto scassinare talmente tanti sistemi che…” si bloccò, non sapeva se era il caso di rivangare in passato.

 

Arrivate all’aeroporto, presero i loro bagagli e si diressero a ritirare il biglietto. Fortunatamente era un giorno infrasettimanale e non c’era molta fila.

Superati i numerosi controlli, le ragazze si diressero verso l’area di attesa. Camminavano vicine: entrambe si sentivano osservate, come se tutti le stessero guardando. Erano tremendamente a disagio.

Presero posto ad un bar, ordinando due caffè.

 

“non ti ho mai vista bere caffè” sorrise Willow

 

“è vero, ma mi ci sono abituata lavorando per una compagnia che fornisce gli uffici unicamente di macchinette elettriche per il caffè in bustina…sono…sono cambiate tante cose dall’ultima volta che ci siamo sedute a parlare insieme” commentò quasi amaramente

 

“Già”

 

Buffy si guardò intorno…avrebbe voluto chiederle tantissime cose, ma non aveva il coraggio, come se non ne avesse più il diritto.

 

“Elisabeth? Ciao” una voce gioviale alle sue spalle la fece voltare. Vide David, uno dei suoi colleghi, probabilmente appena rientrato dalle vacanze con la famiglia.

 

“Ciao! Come stai? Vi siete divertiti?” chiese alzandosi per stringergli la mano “questa è Willow Rosenberg, una mia amica” la presentò

 

“Piacere di conoscerti” sussurrò Willow sorridendo gentilmente, un po’ imbarazzata

 

“Piacere mio. Sì, è stato fantastico – disse poi rivolgendosi a Buffy- Bè…fate buon viaggio. Spero di rivederti presto in ufficio! Arrivederci” le salutò con un cenno della mano, allontanandosi tirando una valigia e chiamando i figli, che scorrazzavano per l’aeroporto senza essersi nemmeno accorti che il padre si era fermato.

 

Buffy tornò a sedersi, incontrando però lo sguardo di Willow

 

“Elisabeth?” domandò con una punta di durezza nella voce

 

“Sì…ora qui sono Elisabeth” le rispose, senza abbassare lo sguardo

 

Willow ora sembrava arrabbiata

“Ora sei Elisabeth? E Buffy che fine ha fatto?”

 

Entrambe erano arrivate all’esasperazione, non riuscivano più a trattenere il fiume di parole che avrebbero voluto dirsi.

 

“ma cosa vuoi che ti dica Willow? Avevo bisogno di tagliare con il passato…dimmi, chi ero prima? Buffy la Cacciatrice – era la prima volta che pronunciava quel nome dopo almeno due anni - ma adesso quella realtà è finita. Insomma guardami! Cosa vedi? Non sono più la ragazzina ammazza-vampiri. Ho dovuto ricominciare tutto da capo, in un mondo dove Buffy non avrebbe potuto esistere!”

 

 “sei cambiata” le rinfacciò l’amica, Buffy resse lo sguardo

 

“anche tu” pronunciò quelle parole con rabbia

 

l’altoparlante chiamò con voce metallica il loro volo e le due si diressero verso l’entrata.

 

Erano in volo ormai da un’ora, senza proferire parola

 

“Buffy?” chiamò Willow, ora si sentiva in imbarazzo a chiamarla così

 

“Sì?” nella loro voce non c’era più astio

 

“Ti…ti va se parliamo un po’?” domandò timidamente, Buffy si sciolse a quelle parole, riconoscendo la ragazza dolce e sensibile che la aveva accompagnata per gli anni più pericolosi della sua vita.

 

“Certo”

 

“hai più visto gli altri?”

 

Buffy abbassò lo sguardo, sentendosi in colpa “Ho sentito Xander qualche volta…e anche il signor Giles. Ma non ci siamo più rivisti. – non andò oltre, non era ancora pronta per parlare di quello…- tu?”

 

“Anch’io…sembrerebbe che la banda si sia sciolta allora” concluse

 

Le si formò un nodo allo stomaco. Era doloroso parlare di quello che era successo, ma si sforzò di spiegarle, in fondo era l’unica che poteva capire “Willow…fa male. Io lo so che avevamo deciso di rimanere uniti però…dopo quello che è successo siamo tutti cambiati. Ognuno aveva bisogno di stare solo, di vedere se era in grado di vivere un’esistenza…normale e, anche se è dura, con uno di noi accanto nulla sarebbe mai stato normale”

 

“ma ci pensi?” non servivano ulteriori spiegazioni

 

“Ogni giorno”

 

“Sai, vicino a casa mia c’è un bel locale, con un angolino che sembrava quello del Bronze. Ogni volta che ci vado mi siedo lì con i miei amici…mi ritornano in mente tutti momenti passati lì, con te, Xander, Anya e Tara” pronunciò gli ultimi nomi con dolore “ ma poi mi dico che col tempo anche questo finirà, che dimenticherò, eppure ogni volta che passo davanti a quel posto mi volto dall’altra parte e mi tornano in mente sempre le stesse immagini e…” si fermò, fissando il finestrino

 

“Lo so, capita anche a me” Buffy si fermò, come se cercasse le parole adatte “ma quello che mi fa più male è non poterne parlare con nessuno…”

 

la ragazza tornò a guardarla “io…io c’ero. Ci sarei sempre stata per te…”

 

“Sì ma…” come spiegarle che ogni minimo contatto non avrebbe fatto altro che acuire la sensazione di abbandono che non riusciva a scacciare nemmeno quando era circondata dai suoi nuovi amici

 

“ho capito…so cosa provi”

 

Willow si voltò lentamente, per osservare il viso della ragazza che le stava accanto, vedendoci riflessa la sua stessa tristezza.

D’un tratto Buffy si girò, guardandola negli occhi, e per un attimo le sembrò di riconoscere lo stesso sguardo della ragazza che aveva sventato 7 apocalissi

 

“noi…noi eravamo amiche” sussurrò

 

“Sì…lo eravamo”

 

le si riempirono gli occhi di lacrime, non ce la faceva più a trattenersi.

 

Willow si avvicinò, stringendole la mano, come a voler lenire quel dolore che era anche suo e passarono così il resto del viaggio finchè, lentamente, l’aereo atterrò. Era notte a San Francisco.

 

 All’uscita si guardarono intorno, tentando di scorgere una faccia conosciuta.

 

“Vedi qualcuno?” chiese la rossa

 

“a parte una manica di maleducati che spingono? No” concluse seccata, facendo sorridere l’amica

 

“Ehy…ragazze!” in fondo alla sala videro un ragazzo con i capelli corti e una camicia impossibile che si sbracciava nella loro direzione

 

le due gli corsero incontro. Xander. I tre, incuranti della folla che gli scorreva intorno, rimasero stretti in un abbraccio tanto desiderato per un tempo infinito. Erano di nuovo loro, di nuovo insieme. Non contava se non si erano più rivisti, se il destino li aveva separati, le loro vite erano indissolubilmente intrecciate.

 

Senza pensarci due volte il ragazzo afferrò le due valige, facendo strada verso la sua macchina. Ora lavorava a Phenix, dove aveva aperto una piccola falegnameria.

 

“Allora…fatto buon viaggio?”

 

“Sì, grazie…quando sei arrivato?” domandò Buffy

 

“Solo questo pomeriggio, ho chiuso per il fine settimana. Giles mi ha chiesto di venire a prendervi, ci sta aspettando a casa sua.” Concluse caricando le borse nel bagagliaio e invitandole ad entrare

 

“non ci posso credere…guardatevi! Sembrate due manager appena uscite da uno di quegli enormi uffici pieni di finestre!”

 

“Anche tu ti sei sistemato…se solo avessi perso l’abitudine di quelle orrende camicie hawayane!” sorrise Willow

 

I tre chiacchierarono del più e del meno. Con Xander le cose erano molto più facili, era rimasto il solito bravo ragazzo pronto a fare battute su tutto e Buffy, da quando era partita, si sentì felice. Finalmente a casa. Immaginò Mark, che probabilmente stava cenando da solo, ma ricacciò il pensiero. Per quel periodo sarebbe tornata ad essere solo Buffy.

 

“Bene signore, siamo arrivati al modesto appartamentino del signor Giles” disse indicando una bella casa che si affacciava sull’oceano.

 

Un po’ timorose Willow e Buffy scesero dalla macchina, dirigendosi verso la porta in legno e avvicinandosi istintivamente l’una all’altra. Prima che bussassero la porta si aprì davanti a loro.

 

Giles stava lì, indossando la sua abituale giacca di tweed.

Fissava le due ragazze come se fosse la prima volta che le vedeva, ma non fece in tempo a dire niente, perché Buffy lo abbracciò con slancio, imitata subito dopo da Willow.

Giles non poteva crederci, strinse più forte a se le due ragazze, entrambe commosse. Non gli erano sembrate loro: così cresciute, così adulte, così belle. Ma quando gli erano andate incontro…sembrava che nulla fosse cambiato.

 

I tre si divisero e un emozionato Giles fece strada, aiutando Xander a portare i bagagli. Fece un rapido giro della casa, portandole poi a vedere le loro stanze. Willow e Buffy avrebbero dormito in una piccola camera al piano superiore, con vista sull’oceano.

 

“Spero che vi troviate bene” sussurrò l’ex osservatore, appoggiando i bagagli all’entrata

 

quei magnifici istanti di gioia e affetto ritrovati però si spensero quando tutti scesero nel salotto. Giles stava in piedi, come sempre, camminando avanti e indietro, gli altri invece si erano disposti sulle varie poltrone, mantenendo una posa composta.

 

“Innanzitutto grazie per essere venuti,  so quanto possa essere stata dura. Questa sera siete stanchi, quindi non vi spiegherò ancora tutto, anche perché manca ancora qualcuno. Spike ci raggiungerà domani mattina”

 

A Buffy si strinse il cuore, poteva sopportare tutto, ma non questo. Non poteva rivedere Spike…dopo due anni. Certo, sapeva che era vivo, che aveva l’anima, che viveva a Los Angeles, da Angel. Non aveva nemmeno il suo numero, era stata Willow ad avvertirla, lui non l’aveva fatto. Probabilmente si era rifatto una vita…in cui lei non era compresa. Tuttavia non lasciò trasparire queste emozioni, domandando solo

“cosa centra Spike?”

 

“Bè…è una situazione complicata. Posso dirti solamente che qualcuno ha richiesto il nostro aiuto. Ora però andate a letto. È tardi.” Era già mezzanotte quando tutti si diressero verso le rispettive camere

 

Giles però li fermò nuovamente “Ragazzi…grazie. Buona notte” sussurrò, seguendoli con lo sguardo finchè non li vide scomparire nelle loro camere.

 

Lui tornò in soggiorno, servendosi un brandy e facendolo girare più volte nel bicchiere, osservando il liquido ambrato.

 

Non poteva credere che i suoi ragazzi fossero tutti lì, sì…i suoi ragazzi. All’inizio, quando si era presentato al liceo di Sunnydale con i suoi libri sui demoni e sulle cacciatici e si era trovato di fronte Buffy non sapeva come sarebbe andata a finire. In nessun manuale dell’osservatore c’era scritto che era possibile voler bene alla propria Cacciatrice…e ai suoi amici. Ricordava le loro riunioni, le battute di Buffy su quanto fossero brutti i demoni, Willow che cercava di farla ragionare, picchiettando sul suo computer e Xander che non poteva fare a meno di ridere ogni volta che dava una spiegazione. Li rivedeva, seduti sul tavolo della vecchia biblioteca…nel suo soggiorno…al Magic-Box…in casa di Buffy.

Li aveva visti crescere, aver paura, innamorarsi, soffrire…erano diventati quasi una famiglia, una ragione di vita per lui. Aveva inconsciamente fatto loro da padre, sapeva di essere stato un punto di riferimento…fino al giorno in cui tutto era finito. Allora li aveva osservati separarsi, dividersi, quasi volessero dimenticare il legame che li univa, e adesso erano di nuovo tutti lì: Buffy vestita elegantemente, con lo sguardo di una donna…quanto era cresciuta, maturata…forse anche cambiata. Ma il manuale degli osservatori diceva qualcosa che era pressoché certa: una Cacciatrice rimane sempre una Cacciatrice

Willow, anche la sua piccola streghetta era cresciuta. Non aveva più praticato magie, ma era tornata ad usare solo il computer, come all’inizio. Aveva un’aria tranquilla ma sicura, non vedeva più riflessa nei suoi occhi l’angoscia che la attanagliava i primi anni. Xander invece era rimasto il solito simpatico ragazzo, sempre pronto ad aiutare gli altri, solo che adesso si era rifatto una vita, lavorava e si manteneva. I suoi ragazzi erano cresciuti ed erano stati obbligati ad accettare una vita normale, ma ce la avevano fatta, con le loro forze.

Ora però c’era bisogno di loro.

 

Si alzò lentamente dalla sedia, poggiando il bicchiere ormai vuoto sul tavolino in legno e dirigendosi verso la sua camera.

 

Buffy e Willow avevano raggiunto la loro camera ed entrambe stavano aprendo la valigia. Senza fiatare le due riposero gli abiti, piegandoli con cura; non avevano più avuto il coraggio di guardarsi negli occhi da quando avevano salito le scale.

Non si sentivano pronte a ricominciare tutto da capo, a riprendere in mano le armi e gettarsi contro i demoni; non sapevano nemmeno se erano ancora in grado di farlo.

Willow sorrise quando vide Buffy appendere il suo cappotto di pelle nell’armadio.

 

“che c’è?” chiese Buffy incuriosita

 

“non…credevo lo conservassi” rispose la rossa distogliendo lo sguardo

 

Buffy sorrise lievemente

“mhm…sono diventata un po’ come Spike e la sua giacca” pronunciando quel nome però il suo viso si oscurò improvvisamente

 

Willow lanciò un occhiata eloquente, sapeva perfettamente cosa stava provando l’amica. Avrebbe voluto aiutarla, sorreggerla…in passato aveva sempre saputo cosa dire.

senza più parlare le due andarono a letto, sicure che nessuno sarebbe riuscito a dormire.

 

*     *     *

LOS ANGELES, MEZZANOTTE

 

La Angel investigations era stata in subbuglio per tutto il giorno, dopo quella telefonata. La telefonata di Giles. Aveva risposto Angel, che ora sedeva assorto sulla poltrona di pelle del soggiorno. Gli occhi fissi nel vuoto, non riusciva a togliersi dalla testa le poche frasi che l’osservatore gli aveva rivolto, prima di chiedere di Spike.

 

Poche ore prima

 

“Angel investigations”

 

“Angel? Sono Rupert Giles” alcuni secondi di silenzio imbarazzato

 

“Giles…sono felice di sentirla, come sta?” la solita frase di circostanza, che si scambiavano ogni volta che uno dei due telefonava. Non era più successo dalla resurrezione di Spike e il trasferimento di…Buffy.

 

“Bene, grazie…Angel non ho molto tempo, quindi vengo subito al punto: ho bisogno di parlare con Spike”

 

si era bloccato, non poteva credere che succedesse di nuovo.

Anche senza bisogno di parole il vampiro aveva capito il motivo della telefonata. Spike; avrebbe giurato che Buffy, Willow e Xander fossero già stati avvisati. Si sentiva…vuoto. Vuoto era il termine giusto. Aveva sperato che il precario equilibrio che era venuto a crearsi non venisse più turbato, ma quella telefonata aveva fatto crollare in un secondo ogni cosa.

La sua lunga memoria ripercorse con dolore gli anni che aveva passato a Sunnydale, quando aveva conosciuto Buffy, quando si erano amati per la prima volta…fino al suo trasferimento a Los Angeles. Anche allora tutti i suoi faticosi passi avanti per dimenticare lei e la sua città erano vanamente crollati allo squillo del telefono. Anche allora dall’altra parte del filo c’era Giles.

Spike viveva lì da circa due anni…dal giorno in cui si era presentato con la sua forma incorporea, dopo essere morto per chiudere la bocca dell’inferno e salvare la sua Cacciatrice. Ora avevano imparato a sopportarsi, provava anche una certa simpatia per il vampiro biondo, si sentiva quasi parte della sua sofferenza. Non ne avevano mai discusso, lui non era tipo da sedersi a tavolino e parlare dei propri sentimenti, ma sapeva perfettamente cosa sentiva. Anche lui provava il dolore causato dall’anima. Anche lui conosceva il dolore per la perdita della persona amata. Anche lui aveva amato Buffy.

Era una malattia e, dopo aver visto la sua reazione dopo la telefonata, aveva capito che lui non era ancora guarito.

 

Lentamente Spike si era avvicinato e aveva afferrato sicuro la cornetta, portandosela all’orecchio. Angel aveva osservato l’espressione che gli si era dipinta sul viso, dopo qualche secondo: la mascella tirata e lo sguardo serio che fissava un punto indefinito del muro. Aveva pronunciato solo una parola.

“arrivo”

dopo aver riattaccato si era diretto, con passo deciso, verso la sua camera.

Angel lo aveva seguito, osservandolo prendere un borsone da sotto il letto e aprire l’armadio.

 

“cosa voleva?”

 

per tutta risposta Spike lo aveva guardato, come per dirgli ‘sai cosa mi ha detto, la stessa cosa che diceva a te qualche anno fa’

 

poi si era voltato, asserendo

“vado a san Francisco”

 

continuava a piegare camice e jeans, infilandoli nella sacca, apparentemente dimentico della presenza di Angel.

Quando si avviò alla porta però il vampiro bruno lo bloccò, spingendolo indietro con una mano

“pensaci”

 

“non c’è bisogno”

 

“si invece. Sai cosa vorrà dire per te…rivederla?” lo guardò con occhi eloquenti

 

gli si era avvicinato, con sguardo carico di rabbia nel sentire quelle parole

 “quante volte hai fatto la stessa cosa?”

 

“non conta…farà male”

 

il vampiro non aveva abbassato lo sguardo

“non la lascerò sola”

 

Angel si spostò dall’entrata, lasciandosi superare dal vampiro. Ricordava quelle parole. Esattamente ciò che aveva pensato lui…non contava quanto male avrebbe fatto, bastava che lei non fosse sola, che lei non fosse in pericolo. Solo questo era importante.

Anche se in quel momento c’era un’altra con lui.

 

Lo guardò allontanarsi. Non gli era ancora passata.

 

Angel era ancora stancamente seduto sulla poltrona, fissando la porta d’entrata e Spike gli passò davanti, con la borsa a tracolla e le mani nelle tasche del cappotto.

 

“cosa dirai a Fred?”

 

lui abbassò per un attimo lo sguardo

“che devo concludere per bene quello che ho iniziato”

 

“oppure riaprire una ferita che si è appena chiusa” concluse con tono serio

 

Spike lasciò cadere la sacca davanti alla porta, posizionandosi di fronte al vampiro seduto

 

“Angel – prese un lungo respiro, come se pronunciare quelle parole gli sembrasse fiato sprecato- non lo faccio per alimentare l’illusione di noi due in spiaggia a mezzogiorno, anche se ora potrei…ma – sorrise- tu sai meglio di me che quando si tratta di lei e…sì, anche dei suoi amici…io non posso tirarmi indietro. Forse così si concluderà anche questa vecchia storia”

 

il rumore della porta che si apriva gli fece interrompere il discorso.

 

“Buon giorno ragazzi” li salutò una voce gioviale che subito però si spense vedendoli così seri “che c’è?”

 

Spike si diresse verso la nuova entrata

“ciao amore” le sussurrò prima di baciarla, scambiando uno sguardo di sfida con Angel

 

“ciao! Ma che succede?” Fred si era leggermente allarmata vedendo la borsa vicino alla porta e Spike indossare il cappotto

 

“devo andarmene per un paio di giorni…”

 

“dove vai?” chiese sorpresa

 

“a san Francisco” disse lui distogliendo lo sguardo

 

la ragazza si rabbuiò improvvisamente. La loro storia andava avanti ormai da 6 mesi, ma il suo passato era sempre stato un tabù. Sapeva solo che l’osservatore viveva a san Francisco e la Cacciatrice e la strega si erano trasferite sulla costa orientale.

Stava andando da lei.

 

“perché?” le domandò quasi con astio, togliendo le mani dalle sue spalle

 

“perché c’è qualcosa di grosso il ballo e hanno bisogno di aiuto” concluse lui asciutto

 

lei si allontanò ulteriormente, senza però aver il coraggio di pronunciare il nome che la assillava…Buffy…

 

“quando tornerai?” non voleva nemmeno prendere il considerazione l’ipotesi che lui non lo facesse

 

“presto” disse in tono più dolce, ma che lasciava intendere che la discussione era conclusa. Sapeva bene cosa frullava nella mente della ragazza, ma non aveva tempo di spiegarle quello che stava facendo

…tagliare con il passato, oppure rimanere di nuovo intrappolato…

 

“ciao” le poggiò un piccolo bacio sulle labbra “ti chiamo quando arrivo”

 

con un cenno della mano salutò Angel, ancora seduto ad osservarlo, uscendo dalla porta con la borsa appoggiata sulla spalla.

 

Scese velocemente le scale, il cuore in subbuglio. Non poteva credere a quello che stava succedendo. Gettò la borsa sul sedile posteriore della sua De Soto, dirigendosi a tutta velocità verso il raccordo che lo avrebbe portato a  San Francisco.

Guidava nervosamente, avrebbe voluto fermarsi e tornare indietro, da Fred, dagli altri, ma non ce la faceva. Una forza dentro di lui lo costringeva a proseguire, superando ad alta velocità il cartello arrugginito “YOU ARE LEAVING LOS ANGELES”. Lo fissò per un attimo dallo specchietto retrovisore, mentre si faceva sempre più piccolo. Tirò un sospiro di sollievo. Ora davanti a lui c’era solo la strada. Non si poteva più fare marcia indietro.

Era molto presto, la telefonata di Giles lo aveva sorpreso nelle ultime ore della sera ed ora stava albeggiando. Accostò bruscamente da un lato, scendendo dalla macchina; si appoggiò al cofano, fissando estasiato il panorama che gli si stendeva davanti. Il sole stava sorgendo silenzioso nel cielo ancora scuro, facendosi strada tra la nebbia e proiettando fasci di luce rossastra sulle frastagliate montagne circostanti. Una vista straordinaria. Abbassò gli occhi per un attimo, perso nell’improvviso ricordo della sua ultima alba da mortale. Era stata Drusilla a mostrargliela e, mentre il sole sorgeva,  gli aveva raccontato di una vita migliore, vissuta nell’oscurità e illuminata solo dalla fiamma della passione. Ed era stato veramente così. Non gli era mai più importato di veder sorgere il sole, aveva trovato la sua luce e le roteava intorno come un satellite, inebriato e appagato da lei soltanto. Sorrise a quei lontani ricordi, puntando nuovamente gli occhi verso il cielo, dipinto ora di uno strano colore, tra il blu e l’azzurro. Brillante e intenso. Il sorriso sparì dal suo viso per lasciare il posto all’angoscia. Si rivedeva accasciato a terra, dolorante e ferito, mentre, proteso verso l’altro, osservava impotente. Lei era in cima alla torre, stringeva la sorella per un ultimo sospirato abbraccio. Poi si era voltata, apparentemente serena, incurante di quello che le stava succedendo attorno. L’aveva vista correre, senza abbassare gli occhi, verso il portale gorgogliante. Non c’era paura nei suoi occhi nemmeno in quei terribili istanti. Prima di saltare aveva rivolto lo sguardo verso un cielo uguale a quello, sorridendo lievemente, quasi percepisse una leggera ironia in quello che stava facendo.

Poi era tutto finito. Giaceva riversa sulle macerie, con il viso ancora roseo e i capelli sparsi sulle spalle. Addormentata in un sonno eterno. Aveva finito di combattere. E aveva vinto anche quella volta.

Con il cuore ancora gonfio di tristezza osservò gli ultimi istanti del sole nascente, mentre il cielo riacquistava la sua tonalità chiara, prendendo il posto della notte.

Rimontò in macchina, accendendo il motore e allontanandosi con una scia di polvere. Nelle orecchie vorticavano ancora le sue ultime parole, sussurrate alla sorella prima di saltare. …porta il mio amore ai miei amici, ora devi essere tu a prenderti cura di loro. Dovete prendervi cura gli uni gli altri. Dawn, la cosa più difficile di questo mondo è viverci. Sii coraggiosa, vivi. Per me…

Sarebbe morto per lei, per risparmiarle quell’ennesimo sacrificio. Quando poi era tornata in vita…scacciò quei ricordi dalla mente, incapace di affrontare nuovamente la marea di sentimenti che lo avevano attraversato quando era ancora con…Lei. Ma non riusciva ad allontanare il pensiero del suo bel viso ferito dopo la battaglia, dei suoi occhi lucidi e pieni di angoscia, mentre lo guardava invaso dal fascio di luce con il medaglione luccicante al petto. Gli aveva afferrato la mano, come se non volesse lasciarlo andare, incurante delle fiamme. Lui l’aveva stretta, perdendosi per l’ennesima volta nei suoi occhi verdi. Poi quelle parole, pronunciate a mezza voce tra i singhiozzi...ti amo… aveva aspettato una vita di sentirglielo dire, attraversato il logorio dei secoli perché qualcuno glielo sussurrasse.

 

Sterzò bruscamente, sorpassando un camion. Basta. Era un supplizio. Non poteva continuare in quel modo. Ora si era rifatto una vita. Aveva il lavoro, aveva amici, aveva Fred. Già…Fred. Lei riusciva a farlo sentire in pace, a calmare l’anima e i ricordi che lo inghiottivano. Aveva detto ‘ti amo’ solo a tre donne nella sua vita. Cecilie. Drusilla. Buffy. E ora Fred. Sapeva che le stava facendo del male. Aveva letto negli occhi la sua frustrazione per essere stata esclusa dal suo passato, dalla sua sofferenza, forse anche del suo cuore. Poteva dire di amarla? La sua anima diceva di sì. Aveva bisogno di un amore tranquillo, sereno, senza mezzi termini e parole non dette. La sua anima. Ma il suo cuore?…

Accese la radio, alzando il volume al massimo. Doveva smettere di torturarsi. Stava facendo la cosa giusta: andare per chiudere una volta per tutte un capitolo della sua vita e mettere un punto all’interrogativo che non lo abbandonava da due anni. …se fossi tornato da lei…

 

  
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