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Autore: _Morgan    12/08/2010    4 recensioni
[...] In quel momento lo notò, avvolto fra le coperte scarlatte.
Allungò la mano, afferrando la scatola rettangolare forgiata nell'oro e decorata da un'intrico di geroglifici, con l'occhio di Udjat a dominarne il fronte.
“Ma è un puzzle!” Esclamò il bambino voce rotta dalla gioia [...]

Volo di fantasia su come possa essere avvenuto l'incontro tra Yugi ed Puzzle
Genere: Generale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri personaggi, Yuugi Mouto
Note: AU, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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di: _Morgan





“Certe strade portano più ad un Destino,

che a una Destinazione”
[Jules Verne]






Domino City, Japan


Yugi aveva sette anni, un visetto rotondo sul quale spiccavano grandi occhi ametista, naso dritto e labbra sottili spesso sigillate dall’imbarazzo e dalla ‘paura’ di lasciar sfuggire una parola di troppo, un pensiero sbagliato, che avrebbe potuto compromettere il rapporto con le persone a cui voleva bene.

Yugi aveva sette anni, capelli color ebano tagliati a caschetto sulle spalle, una frangetta biondo grano – Dapprincipio i suoi genitori avevano storto il naso pensando che fosse troppo piccolo per tingersi i capelli, ma alla fine avevano ceduto impietositi dalle lacrime di disperazione versate dal bambino- e vestiti semplici, puliti, che Emiko comprava dopo un attento scrutinio del reparto bimbi nei negozi del Centro.
Yugi aveva sette anni e in quella calda mattina del 24 aprile 1987 aveva ricevuto – a detta sua- la più grande delusione che un bambino delle elementari potesse immaginare.
Fece scorrere il piccolo modellino di camion sul davanzale della finestra, osservando con sguardo assente il marciapiede e la strada davanti alla casa. Un continuo viavai di persone e macchine dalle carrozzerie scintillanti nel sole mattutino; alcuni bambini si erano appostati davanti all’entrata del negozio sottostante e parevano immersi in una fitta discussione sui nuovi giochi usciti sul mercato.
Yugi scivolò sul divano, distogliendo lo sguardo dalla città in fermento.
Non aveva voglia di osservare la felicità altrui e si sentiva ancora triste per non aver potuto partecipare alla gita di classe al Museo Nazionale  situato nel parco di Ueno, a Tokyo.

[…] 

“Assolutamente no!” aveva ribadito sua madre facendo cozzare la scodella del Ramen sulla superficie del tavolo chiaro, all’occidentale  “il tragitto è troppo lungo e tu sei piccolo. Non mi va di saperti da solo in quel caos che è Tokyo!”

“Ma Okasaan, non sono da solo! Ci sono i miei compagni e le maestre!”
“Yugi, ho detto no. Non andrai da nessuna parte senza un accompagnatore di cui mi posso fidare”
“Tu non puoi venire?” mormorò speranzoso, con gli occhi grandi e lucidi.
Emiko aveva trattenuto il respiro; le lacrime del figlio avevano sempre rappresentato un’ardua prova per il suo spirito gentile e comprensivo. Si fece forza, inghiottendo il dispiacere come fosse un boccone amaro e s’impose d’assumere un aspetto fermo ed autoritario:  “No Yugi, io devo lavorare ed il mondo è troppo pericoloso per un bambino di sette anni”
“Jii-chan ?” chiese Yugi in un singulto “Puoi portarmi tu?”
Surogoku aveva abbassatolo sguardo, non aveva abbastanza forza per affrontare i tormenti della madre e le lacrime di quel bimbo che tanto amava; si era scostato dalla tavola in muto silenzio per svanire oltre la porta, verso il piccolo negozio.
Aveva speso sin troppe parole per convincere Emiko che la gabbia dorata in cui stava rinchiudendo il figlio non l’avrebbe protetto dal mondo a cui, per natura, apparteneva; aveva speso fon troppe parole per cercare di consolare uno Yugi piangente ogni volta che la madre gl’impediva di compiere quei gesti comuni ai bambini di tutto il mondo, come giocare in strada o vagare in bicicletta per le vie del centro con gli amici.
Aveva speso sin troppe parole per cercare di accontentare i suoi familiari, ma se avesse dovuto parlare quella sera dalle sue labbra sarebbe uscito un secco rimprovero rivolto alla cocciutaggine di una donna disperata, troppo attaccata al quel prezioso dono ricevuto dal Cielo.

Il Silenzio, a volte, è l’unico compromesso accettabile.

[…]


Yugi era sì un bambino di sette anni, ma non così piccolo e bisognoso di cure come pensava la madre.
C’era stato un periodo della sua vita – forse non troppo lontano – in cui non poteva muovere un passo senza incorrere nelle premurose cure di Jii-chan o dei genitori, ma ora era diverso, stava crescendo e spesso si ritrovava solo.
Il padre sempre all’estero, impegnato in campagne di scavi nei paesi più disparati, dalla costa del Maghreb sino all’India – Yugi non aveva idea di quanto distassero questi luoghi dal Giappone, ma sapeva che per arrivarci bisognava attraversare il mare con l’aereo -  e la madre perennemente assorbita dal proprio impiego di cuoca in un ristorante del centro, che la costringeva a stare lontano da casa per quasi tutta la giornata.
L’unico sempre presente era Jii-chan, l’unica persona che Yugi potesse considerare ‘amica’ era proprio  quel nonno che gli aveva insegnato a giocare a carte, comporre i puzzle e che spesso lo intratteneva con storie delle sue spedizioni nelle terre ad Occidente. Da lì nacque l’amore del piccolo verso la Storia antica.
Sugoroku lo teneva spesso in negozio, occupando le ore di vuoto con i suoi insegnamenti che potevano variare dalla matematica all’uso della cassa, alle domande di geografia durante la sistemazione degli scaffali fino ai racconti storici sui Faraoni d’Egitto; Yugi attendeva con ansia quel momento, perché se c’era una cosa che amava in maniera incondizionata – oltre ai giochi – era proprio quel paese lontano, sorto sulle sponde del grande Nilo.

[…]

”Si chiama iteru Yugi, iteru” Spiegava il nonno tracciando dei buffi disegni su un post-it.

“Iteru” ripeteva Yugi tenendo gli occhi incollati alla punta della matita “Iteru, che significa Nilo…vero jii-chan?”
“Esattamente, questa parola…” spiegava il vecchio indicando i disegni “è l’antico nome del Fiume”
“Ha qualcosa di Magico” Mormorò il bambino con occhi lucidi di gioia.

[…]


Poi vi erano i Giochi. Yugi aveva un talento naturale per gli indovinelli, i rebus, le carte, anche se la massima espressione della sua bravura la dava nella risoluzione dei Puzzle.
Non importa quanto complesso fosse il disegno o quanti pezzi vi fossero nella scatola, perché il bambino – armato di una pazienza serafica e di un autocontrollo fuori da ogni logica- s’immergeva nel labirinto formato da tasselli e ricomponeva a poco a poco l’immagine come un Kami darebbe forma ad un Universo.
Yugi non si era mai paragonato ad un Dio, ma gli piaceva immaginarsi Re di un paese lontano, magari distrutto da quei barbari  che il nonno gli aveva nominato durante uno dei suoi racconti, Hyksos, a cui era stato imposto l’arduo compito di ricostruire il proprio regno.
Il Puzzle diveniva quindi il suo Dominio e come un Re buono e giusto egli donava al suo popolo – i tasselli- unità e prosperità, nonché la gioia di aver ritrovato i propri compagni dispersi .
Non era un Kami ma gli piaceva l’idea di potersi paragonare ad un Faraone.

E i Faraoni erano considerati Divinità in Terra.

Ma quel giorno non aveva alcun regno in cui rifugiarsi, nessun paese da governare e ricreare – aveva terminato tutta la vasta serie di Puzzle presenti in casa – solo una torma di ciò che sua madre definiva cattivi pensieri e una gran voglia di piangere le sue disgrazie.
Provò a cercare conforto nei cartoni animati, ma a quell’ora i canali erano invasi da telegiornali – Al sentir pronunciare la parola Tokyo da un cronista di NHK world Tv al bambino sfuggì il telecomando di mano che andò a cozzare contro le piastrelle del pavimento, finendo in pezzi – e talk show – dopo aver miracolosamente ricomposto l’utensile il piccolo Yugi si era accertato che funzionasse ancora come prima- così decise di spegnere la televisione e dedicarsi alla contemplazione dello schermo nero.
Attività vagamente interessante se  la fantasia l’avesse trascinato in qualche posto esotico situato a miglia di distanza da quel divano, ma purtroppo anche la sua mente aveva deciso di abbandonarlo, rimandandogli un’immagine ancor più nera dello schermo spento.
Fu  in quel momento che Sugoroku fece il suo ingresso nell’appartamento, reggendo tra le mani una pila di scatole multicolore decorate di disegni e Kanji.
“Ciao Yugi!” esordì il vecchio chiudendosi il portoncino d’ingresso alle spalle “tutto bene?”
“Ciao Jii-chan” rispose il bambino con poca convinzione, tornando a far girare le ruote del suo camioncino “Si, va tutto abbastanza bene”
Il nonno sospirò – le bugie hanno le gambe corte o gli occhi troppo grandi e sinceri- per poi ritornare al suo lavoro di smistaggio; poggiò le scatole sul pavimento iniziando a dividerle in modo ordinato, mettendo quelle uguali da una parte ed accumunando i giochi che potevano avere una qualche somiglianza.
Mentre trafficava iniziò a canticchiare un piccolo motivetto, tenendo le labbra rigorosamente serrate per evitare di dilungarsi in un discorso sin troppo serio sulla gravità e sulle scelte compiute dall’essere umano per proteggere la propria prole con un bambino di appena sette anni. Ancora una volta il silenzio – apparente- appariva come l’unica via accettabile. O questo o le sfuriate di Emiko, pensò il vecchio sospirando rassegnato.
Di quelle ne aveva udite sin troppe.


“Cosa stai facendo?” chiese Yugi con fare curioso.
Dopo un primo momento di apatia -in cui aveva pensato di incatenarsi al divano per protesta e smettere di fare qualsiasi cosa, compreso il provare emozioni, così forse la mamma avrebbe trovato la sua felicità non dovendolo più sgridare per ogni suo comportamento inadatto- un’improvvisa curiosità gli aveva scosso il petto costringendolo ad abbandonare i suoi propositi per dirigersi verso quell’inaspettata fonte di svago.
“Sistemo questi giochi in scatola, devono essere ordinati e portati in soffitta” spiegò il nonno senza mai interrompere il proprio lavoro.
“Oh” esclamò il bambino “E perché?”
Due grandi occhi profondi come specchi d’acqua, intrisi di pura ed innocente curiosità fanciullesca incontrarono le iridi viola del vecchio uomo, molto meno trasparenti ed emotive, velate da un improvviso divertimento.
Surogoku adorava quella dolcezza e quelle domande apparentemente innocue, così come ammirava l’amore per il sapere che ogni tanto si manifestava nei comportamenti e nelle parole del nipote; si sedette sul pavimento chiaro sotto lo sguardo attento del bambino che, come fosse una caramella, attendeva ancora la sua risposta.
“Perché sto facendo l’inventario degli articoli presenti e sto sistemando i nuovi prodotti. Queste scatole sono in più e vanno smistate e sistemate per poi essere riposte in magazzino”
“Vuoi dire in Soffitta?”
Vivevano in un piccolo appartamento situato su ciò che, prima della ristrutturazione, doveva essere stato un garage, poi impiegato come negozio, quindi non avevano spazio per un vero e proprio magazzino – era già tanto se nel locale sottostante fossero riusciti a far entrare quel negozietto di piccole dimensioni e la scala per accedervi dall’appartamento- così, un po’ per conservare la merce in surplus, un po’ per comodità, avevano adibito la soffitta a deposito e contenitore degli orpelli più disparati. 
Yugi non era mai stato in soffitta, ma quel luogo misterioso e poco illuminato l’attirava, risvegliando in lui quel piglio da esploratore che risiedeva nel sangue di suo padre e di Jii-chan stesso. 
Gli occhi gli divennero ancor più luminosi nell’udire il “Sì” del nonno e per un istante dimenticò Tokyo ed i suo compagni di scuola, preso dalla voglia di compiere la sua avventura personale addentrandosi nella cupa oscurità della soffitta di casa sua.
Come Indiana Jones! Pensò sorridendo.
“Jii-chan posso portarli su io se vuoi! Così ti aiuto!” esclamò speranzoso afferrando le prime due scatole della pila posta dinnanzi ai suoi piedi. Il nonno non gli avrebbe mai rifiutato quella richiesta, dopotutto l’aveva aiutato un sacco di volte a sistemare gli scaffali del negozio o nel spostare le varie scatole dal piano di sotto fino nel salotto di casa. Ma mai in soffitta, pensò, così vedranno gli altri! Dimostrerò che non ho paura del buio! Pensò col cuore che batteva a mille, accantonando il pensiero scomodo che dormiva ancora con tre lucette da notte.
“Non posso” rispose il nonno sporgendosi in avanti per recuperare dalle mani del nipote le due scatole del Monopoli “Sai che tua madre l’ha vietato”
Gli occhi di Yugi si fecero di nuovo tristi causando una fitta in pieno petto al Nonno. Surogoku serrò le labbra, abbassando lo sguardo per evitare l’espressione abbattuta che ora ornava il volto del nipote; tra le cose che più detestava vi era proprio veder soffrire quella creaturina dolce e sincera, perché sapeva che egli non poteva comprendere i motivi di tutti quei ‘no’ ripetuti a raffica, come una nenia, né la durezza di Emiko su certe questioni quali l’uscire con gli amici dopo un certo orario e oltre certi confini, il salire in soffitta o il non stare per troppo tempo a contatto col buio totale, nemmeno durante la notte.
Yugi non capiva e Surogoku era pienamente cosciente del fatto che, se fosse dipeso da Emiko, il bambino avrebbe continuato a vivere nell’ignoranza di una vita comune, normale, senza mai vedere quella parte del mondo che era sua di diritto. Yugi non capiva e Surogoku si trincerava dietro al muro del Silenzio per paura dell’amore di una donna che si era auto imposta di essere madre e guida perfetta.
Ma, come insegna la storia, anche i muri all’apparenza inespugnabili sono dotati di crepe e spesso queste fratture sono molto più profonde ed incisive di quanto possano realmente apparire.
“Non puoi aiutarmi a portare in magazzino tutti questi scatoloni” ripeté Surogoku cercando d’imprimere sempre più convinzione nelle parole che gli fuoriuscivano dalle labbra; ogni sillaba equivaleva ad una sculacciata nella mente – ora ottenebrata dalla tristezza- del piccolo Yugi che si era visto sfuggire l’unica opportunità di rendere un po’ più colorita e divertente quella mattina, quella punizione, di cui egli non capiva il senso.
“Però…” Il bambino alzò lo sguardo. Gli occhi ametista incontrarono nuovamente le iridi sagge e violacee del nonno, incendiate da una strana scintilla che, se fosse stata scorta dallo sguardo severo di Emiko, avrebbe preso il nome di Ribellione.
“Puoi salire in soffitta a depositare queste due scatole” Yugi non credeva alle sue orecchie e la sua prima reazione fu saltare tra le braccia del nonno ringraziandolo calorosamente per quell’opportunità concessa.
“Piano! Piano!” esclamò il vecchio abbracciando il nipote di rimando.
“Grazie nonno!” Rispose Yugi afferrando saldamente le due scatole indicate in precedenza, per poi zampettare lesto verso i pochi gradini che separavano il salotto dalle camere.
“Yugi! Non ho finito! Dovrai depositare SOLO quelle scatole…mi hai capito?”
Il bambino si voltò a mezzo facendo un breve cenno con il capo, i corti capelli e la frangetta danzarono nell’aria per poi tornare a posarsi sulle spalle esili, incorniciando il bel visetto rotondo, ora radioso di gioia.
Surogoku sorrise compiaciuto, infondo dieci minuti in soffitta non avrebbero causato chissà qualche cambiamento sbagliato nella vita del piccolo Yugi, né sarebbe stato rapito da coloro-che-Emiko-non-voleva-nominare perché – di quest’ipotesi ne era quasi assolutamente certo- nessuno più sapeva della sua esistenza, né del fatto che si trovasse in Giappone.
“Ah…un’altra cosa, quando sarai lassù non dovrai toccare nulla. Ci sono molti cimeli antichi e altre cose fragili o appuntite, con cui potresti farti del male, quindi vedi di depositare quelle cose, prendi le tre scatole di Risiko! Che ci sono vicino alla finestra di destra e torna subito giù. Intesi?”
“certo nonno” assenti il bambino correndo su per le scale in legno.
“E speriamo che tua madre non scopra mia quanto ho fatto” mormorò fra sé l’uomo anziano, mentre un familiare formicolio s’impossessava delle sue membra; per un breve istante temette che quel suo piccolo atto d’insubordinazione verso le regole della casa - ad Emiko -  avesse spinto Yugi verso quel destino che gli era stato imposto alla nascita, per volontà di un Kami lontano da cui  aveva ereditato il nome.
Yugi salì con accorta lentezza i pochi gradini che lo separavano dalla botola, poggiò le scatole di traverso su uno di essi, in modo che non cadessero sul pavimento in legno del corridoio e spinse la botola con quanta forza riuscì a richiamare. I piccoli muscoli vennero sottoposti ad uno sforzo immane – o almeno, immane per un bambino di sette anni dal fisico asciutto, con braccia sin troppo esili- ma la botola fortunatamente cedette subito salendo verso l’alto, sospinta, per poi adagiarsi contro al pavimento in legno scuro, ricoperto di polvere, della soffitta.
Nel compiere questo gesto sentì un brivido salirgli lungo la spina dorsale, sino alla base del collo e per un breve istante gli parve di udire una voce che lo chiamava, tra gli sbuffi di polvere e le ragnatele danzanti sollevate durante l’apertura.
Illusione.
La stanza era posta nel sottotetto e la poca luce presente filtrava da due piccole finestrelle poste sul lato orientale, incassate tra le tegole color coccio ed il materiale isolante che fungeva da primo strato di rivestimento.
Il luogo odorava di polvere, legno marcio e roba vecchia. Yugi immaginò un possibile buco nella copertura, dal quale filtrava l’acqua piovana, dato che in molti punti il pavimento pareva dissestato – o per meglio dire imbarcato- e, sotto l’odore di chiuso e muffa si poteva distinguere chiaramente quello dolce e rinfrescante dell’acqua.
Il bambino si issò sul pavimento, raccogliendo poi le scatole per poggiarle vicino al bordo della botola, per poi osservare con sguardo rapito l’interno di quello spazio magico che sino ad allora gli era stato precluso.
C’erano tanti scatoloni addossati alle pareti, i più erano nuovi e contenevano i giochi che il nonno non poteva mostrare in negozio per via dello spazio ridotto e del numero esiguo di mensole, già stracolme di altre cianfrusaglie; le più distanti erano cartoni anonimi chiusi con scotch di carta o da imballaggio, con gli angoli smussati e l’aspetto decisamente ‘vissuto’.
Il bambino si alzò in piedi, camminando con timore in quel regno fatto di ombre e polvere sottile. Ad ogni passo un nugolo di pulviscolo si alzava dal pavimento, danzandogli attorno, per poi tornare a depositarsi sulla superficie più vicina; c’erano aste di vecchie lampade con il paralume consunto, ornato da diamanti in plastica e vecchie riviste e giornali ingialliti, forse risalenti al dopoguerra.
C’erano mobili strani, dalla foggia sicuramente occidentale – quello che a Yugi parve più curioso era una cassettiera dalla forma simile al dorso di una conchiglia, il cui centro era proteso verso l’avanti ed ornato dal disegno consunto di un volto femminile; persino l’oro, antico colore, si mostrava scrostato e scolorito, in alcuni punti emergeva il color nocciola del legno- ed una coppia di sedie antiche – Yugi aveva visto le immagini sui libri di storia di Jii-chan- che dovevano risalire ai faraoni.
C’erano due lance ed alcune spade consunte incastrate all’interno di un porta ombrelli di bronzo, assieme ad una canna da pesca e a tre ombrelli dall’aspetto lacero,   artefatti strani, dalle forme bizzarre, che ricordavano vagamente soprammobili e, nella semi oscurità si potevano scorgere altre forme celate sotto pensanti panneggi bianchi per impedire alla polvere di depositarvisi sopra.
Il cuore di Yugi batteva all’impazzata, quel mondo a parte, lontano dalla luce sfolgorante del sole e dal caotico via vai della strala, stava lentamente conquistando il suo spirito, irretendolo con il danzare della polvere contro i vetri sporchi delle finestre, con quei contrasti sfumati tra il nero dell’ombra e il chiarore aureo dei raggi che tentavano d’insinuarvisi passando attraverso il grigio fumo del pulviscolo.
E Yugi capì che vi erano colori nel buio e mondi nelle stanze, così come potevano esserci Regni in un Puzzle e dimensioni nella memoria. Dinnanzi a quel caos di oggetti dimenticati e cimeli antichi capì quanto potesse essere vasto e meraviglioso l’universo fantastico e che, spesso, par raggiungere la felicità non serve percorrere la tratta Domino - Tokyo su un treno ad alta velocità assieme a compagni urlanti, ma la si può trovare nella polvere della soffitta di casa, in un mondo chiuso in cui la fantasia regna sovrana.

Ma ci sono i mostri nel buio Yugi, i mostri dimorano dappertutto…anche nella soffitta!” Esclamò l’odiosa vocina che dimora nella testa, assumendo un tono ed una cadenza simili a quelle di Emiko.
“Non ci sono mostri qui” mormorò il bambino per non disfare l’incanto mentre le dita scorrevano leggere nell’aria, delineando le forme in penombra, separando il confine cromatico tra il nero e l’aureo del raggio solare. “Solo cose antiche che papà ed il nonno hanno scoperto” camminava lentamente, dove non vi erano oggetti ad intralciargli il cammino, osservando ammirato ogni reperto, ogni sfumatura di colore stinto ed ogni parola stampata su vecchia carta ingiallita, nella speranza di scoprire un tesoro vero e proprio. Le sedie egizie saranno anche belle, ma valgono ben poca cosa agli occhi di un bambino di sette anni improvvisatosi esploratore e le spade, benché consunte, tagliano e lui ha promesso al nonno di non toccare niente.

Tum…Tum…Tum…Tum..

Yugi sbarrò gli occhi ed il cuore prese a martellare con foga.
Cos’è questo rumore? Pensò, sentendo il respiro fermarsi in gola.

Tum…Tum…Tum…Tum…
Crescendo Yugi dimenticherà gran parte dei fatti avvenuti in quella soffitta, o almeno, dimenticherà la paura provata ed il brivido  che gli era corso lungo la schiena nell’udire quel suono sinistro; dimenticherà il sudore
freddo e lo sguardo di terrore che gli si era dipinto in volto mentre scrutava la stanza, nella paura di scorgere uno dei mostri che dimorano nel buio – onnipresenti nelle storie di Emiko- poiché solo loro giungono annunciati da un rullo di tamburi da guerra.
Yugi dimenticherà molte cose, ma non lo spavento preso osservando la propria immagine, distorta dalle crepe di un grande specchio rotto, adagiato contro una pila di vecchi futon.
Gli occhi grandi, le pupille dilatate per permettere allo sguardo di cogliere i particolari della stanza nella poca luce presente – o almeno, questa sarà la spiegazione che s’inventerà per dare un senso logico a quel fenomeno- su un viso cereo ornato da capelli nero pece, con una frangetta biondo oro, rilucente nel riverbero dei raggi solari;  In quelle condizioni, con la polvere che pian piano s’insinuava sui vestiti, pareva lui stesso una di quelle creature dell’ombra di cui sua madre spesso parlava per mettergli paura.
Il cervello gli comandò di scappare verso le scale ma una volontà ferrea, primordiale, tenne i suoi piedi ben saldi al pavimento marcio e scricchiolante, costringendolo a fissare quell’immagine distorta e frantumata di sé.
Ma io sono così? Si chiese, soffermandosi sul ghigno malevolo che incurvava le labbra del riflesso, osservando con orrore la fila di denti bianchi –perfetti e letali- ed il contorno roseo della bocca dalla quale spuntavano canini simili alle zanne di una fiera; si tastò le labbra, ricordandosi che non stava ridendo e la paura s’impossessò del suo essere come un veleno disciolto in acqua limpida. Stava per fuggire quando ricordò la promessa fatta al nonno.
“Accidenti! Spiriti o no non posso scendere senza la scatola!” pensò, perché infondo Yugi è un bambino diligente e non voleva ammettere le proprie paure sebbene ciò l'avrebbe costretto ad altri interminabili minuti in quel regno spettrale, buio, ove ogni cosa appare ombrosa e distorta; si guardò attorno
alla ricerca della pila di scatole del Risiko! con il cuore che gli martellava in petto ed il respiro mozzato dalla paura di inciampare in qualche cianfrusaglia, finendo faccia a faccia con uno dei mostri dei suoi incubi.
Perché Yugi ogni tanto sogna i mostri ma non lo dice alla sua Okasaan perché sa che le causerebbe un dispiacere immenso; pur non capendo molte cose, sa che quelle creature da cui Emiko cerca di difenderlo fanno molta più paura a lei che a lui.

Il rullo di tamburi cessa d'improvviso, sostituita da una voce; vi è una donna
che canta nel buio e Yugi può udirla distintamente, non sa cosa stia dicendo, né se dalle sue labbra fuorisca una ninnananna o una maledizione, perché ella canta in una lingua sconosciuta  – forse dimenticata- ma, nella mente del bambino quelle parole si ricollegano ad  Iteru, perché suonano simil anche se non vi sono disegni a spiegarle.
“Eccolo!” esclamò Yugi acquistando un po’ di autocontrollo dopo aver adocchiato una pila dal bordo nero, sulle quali spicca una scritta in Kanji gialloverde; le scatole si trovano in fondo alla stanza, quasi a ridosso della finestrella di destra e sopra vi era stato deposto  un oggetto di grosse dimensioni, avvolto in un telo sudicio. Il bambino corrugò la fronte, chiedendosi come avrebbe potuto spostare un simile peso da solo e decise di non arrendersi, poiché anche il suo eroe, Indiana Jones, avrebbe proseguito il  cammino alla ricerca della reliquia incurante dei pericoli o degli imprevisti,  mostri della polvere e  specchi mentitori; mosse un passo verso il fondo della stanza e per darsi coraggio immaginò che ogni suo movimentofosse il tassello di un grande puzzle, ricomposto lentamente.
“Manca poco…poco…pocopoco” mormorò muovendo i piedini verso le scatole con la fronte e la schiena imperlate da gocce di sudore freddo “Se il mostro vien fuori lo faccio scappare, perché io sono il faraone ed il faraone non può perdere davanti a nessun avversario” urtò  un vecchio vaso in bronzo, colmo di bastoni da passeggio ed ombrelli consunti, afferrandone uno blu, pieno di buchi e rattoppi.
“Ho la mia spada come Artù, non posso perdere. È un gioco”

La voce continuò il canto, melodiosa, attirandolo a sé come un novello Ulisse incantato dal suono soave emesso dalle Sirene.

Yugi non conosce ancora questa storia e non sa alcunché riguardo Sirene e tappi di cera; non ha ancora trovato dei compagni disposti a legarlo all’albero maestro per permettergli di raggiungere la meta, ignorando i suoi deliri e quindi non poté far altro che avanzare seguendo la voce, perché canta una ninnananna in una lingua che lui non comprende – o forse ha dimenticato-  e in cuor suo, sa che non vi è pericolo in quella nenia.
Allungò una mano, afferrando i bordi della scatola più bassa, mentre con l’altra sostienne il bordo inferiore dell’oggetto avvolto dai teli per impedire che gli cadesse adddosso; L’ombrello-Excalibur cadde al suo fianco, alzando un nugolo di polvere grigiastra che si depositò sui vestiti e nei capelli ma egli non vi fece caso, troppo preso dalla musica che risuonava nella sua mente e dall’idea – più concreta- di far scivolare l’oggetto in modo da farlo ricadere  sugli scatoloni posti sotto a Risiko! per poter estrarre il gioco e sparire da quel luogo in poco tempo.
Giocare all’esploratore gli piaceva, ma credeva fermamente nei propri limiti e in quel luogo li aveva ormai oltrepassati tutti.

“Atem” il nome è un sibilio tagliente.
Poco prima di riuscire ad estrarre la scatola la coda di un Nekomata gli sfiorò la caviglia procurandogli uno spavento tale da farlo indietreggiare bruscamente, mollando la presa dalla pila di scatole accatastate; il grande oggetto il legno si sbilanciò, cadendo rovinosamente a terra in un cozzare di cianfrusaglie e scatoloni, mentre Yugi finì a gambe all’aria dalla parte opposta, sbattendo contro il porta ombrelli e producendo una reazione a catena di cadute e frastuoni, che vennero udite fin in strada.
Il canto cessò e gli spiriti si rintanarono, spaventati; i
l regno della polvere impiegò qualche minuto per tornare al suo sacro ed immutato silenzio.

“Yugi! Tutto bene!?” esclamò il nonno dalla cucina, urlando a pieni polmoni per farsi udire dal nipote.
Il bambino impiegò qualche istante per accorgersi di ciò che era successo, ancor più tempo gli ci volle per recepire i continui richiami del parente e solo dopo diversi tentativi riuscì ad articolare una rassicurazione convincente..
“Ouch” mormorò, massaggiandosi la testa con la mano destra mentre la sinistra reggeva saldamente la sua reliquia, una delle scatole di Risiko! che, a giudicare dall'aspetto consunto, doveva risalire ad una delle prime edizioni; rimettersi in piedi gli costò una certa fatica perché aveva paura di essersi procurato qualche lesione seria, infrangendo la promessa fatta al nonno, e la paura di incorrere nelle ire della madre iniziò ad attanagliargli il petto.
“Almeno i demoni sono spariti, tutto questo trambusto deve averli fatti scappare” pensò sommessamente riprendendo tra le mani la scatola del gioco dopo un’accurata ispezione a torso, braccia e gambe; ma quando stette per incamminarsi versoo la botola un presentimento lo colpì, costringendolo a gettare uno sguardo oltre il mucchio di scatoloni per constatare se il pesante oggetto si fosse danneggiato.
Fu in quell'istante che lo vide e gli occhi gli s'illuminarono mentre ammirava rapito quell’artefatto stupendo; dinnanzi a lui giaceva, riverso su un fianco, il modello d'una nave Faraonica color ebano, dai finissimi decori in oro e lapislazzuli. La prua terminava in una punta sormontata da un papiro realizzato in oro ornato con rubini e smeraldi mentre la poppa, più bassa, era ancora celata dal panno giallastro.
Yugi poggiò la scatola Risiko a terra, sporgendosi sugli scatoloni per toccare quella meraviglia, constatando che ogni parte della nave era la riproduzione fedele delle antiche imbarcazioni, con tendaggi realizzati in pregiata stoffa porpora impreziosita  di decori geometrico-floreali e piccoli remi scuri, sui quali s’intrecciavano fili d’oro e piccole pietre luminescenti.
“Stupenda!” mormorò il bambino estasiato da tanta bellezza, poiché la nave pareva brillare di luce propria colpita dai tenui raggi del sole d'aprile.
Chiuse gli occhi e vide il Nilo. Immaginò di trovarsi su una barca simile, scivolando sulle acque azzurre come una piuma portata dal vento, inspirando gli odori e gustando i sapori, inebriandosi dei suoni di quella terra lontana che, a poco a poco, si era creata un posto speciale all'interno del suo cuore. Yugi non sapeva ancora che fra i sogni e la realtà vi è una lina tanto sottile quanto effimera.
Yugi ha sette anni e sognare l’Egitto gli piaceva, ma non sa che quel viaggio su cui fantastica l’ha compiuto davvero, in un’altra vita non così distante.

Quando riaprì gli occhi s’accorse di un particolare; vi era una cavità al centro della nave foderata di soffici cuscini, nella quale giacevano  vecchie copertine –sicuramente appartenute ad un bambino molto piccolo- di squisita fattura ed intricati decori. Yugi ne afferrò una, sentendola  morbida al tocco ed invitante, mentre un brivido strano s’impossessò del suo corpo. Che strano, dovrebbero avere migliaia di anni eppure sembrano nuove, pensò corrugando la fronte.
Yugi può avere sette anni ed essere piccolo, ma non è un bambino stupido e la sensazione che prova nel toccare quelle stoffe è troppo profonda ed inquietante per poter essere espressa a parole.

Le ricordo…

“Atem” sussurrò la voce.

È un quel momento che lo notò, avvolto tra le coperte scarlatte.
Allungò la mano, afferrando la scatola rettangolare forgiata nell'oro e decorata da un'intrico di geroglifici, con l'occhio di Udjat a dominarne il fronte.

Yugi alzò lentamente il coperchio sopraffatto da una curiosità che sua madre definirebbe pericolosa, compiendo un passo importante verso il confine  che separa il suo mondo attuale ciò che Emiko vorrebbe non fargli conoscere.
“Ma è un puzzle!” Esclamò il bambino voce rotta dalla gioia. Una miriade di pezzi dorati catturarono le iridi ametista che in essi si perdettero come all'interno d'un labirinto, osservandone  gli intricati giochi di luce creati dai raggi solari contro le superfici riflettenti.
Fu l'inizio.
Nonostante 
Yugi fosse ancora un bambino e poco capisse del destino, quell’incontro era stato deciso ancor prima che lui crescesse, quando la Sacerdotessa che più d’ogni altra era vicina agli Dèi aveva posto la mano sul suo capo capo dichiarando che egli sarebbe divenuto Signore del Kamat e riservando ad una bambina, anch'essa neonata, l’arduo compito di cambiare il mondo.

“Yugi” Sugoroku salì gli ultimi gradini, entrando nella quieta penombra della soffitta. Gli ci volle qualche minuto per scorgere il nipote, immobile dinnanzi alla piccola finestrella di destra, ma riconobbe subito l’oggetto che stringeva tra le piccole dita sporche.
Lo sguardo del vecchio divenne torvo mentre il dubbio d’aver spinto il bambino verso quel destino arduo, più grande di qualsiasi altro, divenne –improvvisamente- un’amara certezza; ma egli non era come Emiko, non aveva timore degli Déi perché sapeva che se nei loro confronti venivano mantenuti comportamenti corretti, Loro si sarebbero dimostrati altrettanto giusti e generosi.
Ogni giuramento fatto andava rispettato, perché infrangere la promessa fatta ad un Dio equivaleva alla morte.

“Vieni Yugi, non voglio che tua madre ti scopra qui” mormorò dolcemente , tendendo una mano verso il bambino.
Yugi rimase immobile perché sapeva che non avrebbe potuto portare quell’oggetto fantastico fuori dalla soffitta, dopotutto aveva promesso di non toccare niente e pensava che l’unico modo per poter giocare fosse quello di rimanere per sempre nel regno della polvere.
“Jii-chan” sussurrò piano.
“Dimmi Yugi”
“Posso portarlo con me?” chiese accennando alla scatoletta d’oro che reggeva tra le mani.
Una promessa fatta ad un Dio non può essere infranta e Sugoroku ne era ben consapevole; osservando le iridi ametista del nipote si rese conto che sarebbe stato d'estrema vuolenza negargli l'unica possibilità di seguire la via a cuì era stato destinato così, immobile nella semi oscurità ed avvolto nella polvere, ricordò la promessa fatta a un coccodrillo sulle rive del fiume Iteru – perché gli Déi non si manifestano mai in forma umana-  e sorrise, tendendo nuovamente la mano verso quel piccolo bambino coronato da un’aureola di luce e pulviscoli incandescenti.

Atum-Ra

“Certo, ma non dirlo a tua madre”

E per i nove anni che seguirono Yugi mantenne la promessa fatta al nonno.
Non parlò mai a nessuno della soffitta, né del Regno della Polvere.
Non rivelò ma il segreto della nave né parlò della piccola scatola dorata in cui erano contenuti i pezzi di quello strano puzzle, antico e indecifrabile.

Impiegò nove anni per rimettere assieme ciò che egli credeva un mero gioco, armandosi di santa pazienza e divina volontà.
Impiegò nove anni di notti insonni; ormai il buio non gli faceva più paura ed era l’unico momento in cui Okasaan non lo veniva a disturbare.
Impiegò nove anni e ad ogni pezzo sistemato la ninnananna nel suo cuore risuonava sempre più forte, mentre una voce ed una presenza iniziarono a manifestarsi nei suoi sogni, addomesticando i mostri, scacciando le tenebre.

Ad ogni pezzo sistemato nel suo cuore cresceva la speranza di poter ritrovare finalmente ciò che tanto gli mancava.
Ad ogni pezzo esprimeva un desiderio, vedendo il suo regno allargarsi.
Lui non era un Kami ma solo un Faraone ed un Faraone, essendo uomo, anela a desideri bassi ed umani; ma il faraone è anche figlio degli Déi e gli Déi, è risaputo, aspirano alla grandezza.





“Creare è dare forma al Proprio Destino”

[Albert Camus]


E. N. D.
.: Glossario:

Okaasan: Mamma
Jii-chan: Nonno
Iteru: Antico nome del Nilo, significa “Grande Fiume”
Kami: DioDivinità
Kamat: Antico nome della Terra [regno] d’Egitto, significa “Terra Nera”
Nekomata: Spirito di forma felina [trad. Giapponese]


NdA: Mio volo di fantasia su come potrebbe essere avvenuto il primo incontro fra Yugi ed il puzzle, ovviamente narrato seguendo il filo della mia ‘ storia ‘ basata su Yu-Gi-Oh!
L’anno è il 1987  e Yugi ha sette anni, poiché nella mia versione è nato il 6 giugno 1980 così da avere diciassette anni alla vigilia del torneo di Battle City. Ho cercato di tenere una visione ‘realistica’ dell’ambiente e della storia in generale, immaginando Yugi come un bambino particolare, timido e riservato con i suoi coetanei – fatto in parte dipeso dal carattere molto protettivo della madre- ma estremamente espansivo e fantasioso quando si tratta di creare un nuovo gioco. Mi sono ispirata in parte alle mie esperienze e a quelle di mia sorella e solo ora mi rendo conto che molti pensieri formulati da Yugi sono cose che ho pensato, o che penso tutt’ora.

Mi piacciono i luoghi semi bui e tetri, ricolmi di roba vecchia e polvere, in qualche modo mi aiutano a sognare; inoltre amo da morire le cose antiche e la storia in ogni sua forma e per scrivere la parte della soffitta mi sono ispirata al mio unico ‘ soggiorno ‘ nel sottotetto di casa mia [peccato non poterci salire spesso -.-]. A Yugi non piacciono i posti bui e sporchi, ma rimane ugualmente incantato da tutto ciò che può accendere l’animo fantasioso di un bambino, come la polvere che danza nei raggi di luce e il sapore antico di tutta la paccottiglia ammucchiata in anni di permanenza in quella casa.
Passando ai personaggi: il nonno è leggermente più protettivo nei confronti di Yugi perché infondo il nipotino non è che un bambino e quindi ha bisogno di molta più attenzione rispetto ad un adolescente; ho cercato di eleggerlo ad ‘unica figura davvero presente’ nella vita di Yugi per mantenere quel rapporto che vi è fra questi due personaggi nel manga originale e per motivi decisamente più personali, legati in gran parte alla trama della mia storia.

Emiko: Emiko è un personaggi particolare, nato per caso durante la rilettura del settimo volumetto di Yu-Gi-Oh!
All’inizio mi ero attenuta all’anime ed avevo escluso la madre giapponese di Yugi dalle vicende – viaggio all’estero, una sorta di esilio perenne XD- poi, riflettendoci e modificando la trama, ho pensato ad un suo possibile inserimento non solo come comparsa, ma come figura di un certo rilievo.
Ai più può sembrare odiosa – a volte non la sopporto nemmeno io- ma infondo è solo una donna terribilmente attaccata all’unico figlio e timorosa di poterlo perdere. [i perché ai posteri, se riuscirò a scrivere qualcosa in più su questa ‘saga’]

Yugi: vi ho già accennato qualcosa sullo Yugi di questa one-shot. È un bambino diviso tra il mondo reale fatto di rapporti sociali [teme di potersi inimicare i propri compagni e quindi tende ad essere taciturno e riservato] e quello fantastico dove egli è il Faraone dei mondi che crea costruendo i puzzle.
È un bambino normale dotato di una curiosità e di un’acutezza sorprendenti. Ama la storia [le storie] sebbene lo studio non sia il suo forte ed adora il nonno, unica figura ‘amica’ presente nel suo mondo.
Yugi non odia sua madre per le punizioni che ella gli infligge senza motivo, semplicemente non la capisce e quindi, in molti casi, preferisce evitare di parlarle assieme piuttosto che iniziare un discorso e poi venire sgridato.
Il loro rapporto cambierà in seguito, avranno i loro momenti di pace e quelli – meno felici- di diverbi, come accade in tutte le famiglie.
L’Aspetto: Contrariamente all’opinione comune non riesco ad Immaginarmi uno Yugi-bambino con i capelli acconciato in quello stile pseudo punk che ha nel Manga. Qui ho optato per una pettinatura un po’ più ‘sobria’ ed adatta ad un bambino di sette anni [non credo che Yugi sia nato con i capelli in piedi e sicuramente sua madre l’avrebbe rasato a zero piuttosto che farlo andare in giro a sette anni con i capelli simili ad una stella marina XD]

Per finire:
Sono molto legata a questa ‘vicenda’, ai personaggi del manga Yu-Gi-Oh! e ai miei, ai quali ho dedicato – e mi hanno seguito- per un lungo periodo della mia vita, sostenendomi nel bene e nel male con la loro presenza.
Spero davvero di poter scrivere qualcos’atro su di loro, più per tributo che per ricerca di commenti, perché mi hanno sempre ripetuto che ogni storia, anche la più squallida, merita di essere raccontata, così ecco la mia versione del ‘Ritrovamento del Puzzle’ spudoratamente AU.
 
Ringrazio in anticipo tutti coloro che vorranno soffermarsi a leggere o lasciare un commento.
Un bacio.

_Morgan.


  
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