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Autore: _Syn    13/08/2010    1 recensioni
Prequel di "Immagini da panchina"
Tyki Mikk aveva desiderato una cosa per tutta la vita: scindere l’ombra dalla luce così da trovare il senso di se stesso. Quando dipingeva e le setole del pennello creavano l’ombra sul punto in cui toccavano la tela... ecco, era quello che Tyki avrebbe voluto scindere. Il momento in cui il pennello toccava la tela, il momento in cui la creazione avveniva. C’è sempre un filo che unisce quei due stati: negazione e creazione. Nel mezzo, forse, c’è il piacere che assale i sensi e scuote l’anima, impaziente di diventare partecipe, di vedere. C’è il piacere di osservare la creazione e forse distruggerla, oppure toccarla e amarla. C’è il piacere di scegliere senza sentirsi obbligati nei confronti di niente.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Allen Walker, Rabi/Lavi, Road Kamelot, Tyki Mikk | Coppie: Tyki/Rabi
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Prequel di Immagini da panchina

Fan fiction scritta per l’iniziativa “Cielo d’Estate” indetta da Fanworld, con il prompt “Esprimere un desiderio” del set “Cielo Azzurro”.

 

 

 

Creazione

Capitolo I

 

Scorre nel mezzo

 

Tyki Mikk pensava a due cose quando apriva gli occhi la mattina.

Devo ricordarmi di chiudere i vasetti di vernice prima di andare a letto o finirò per intossicarmi.”

Nei giorni di pioggia c’è sempre qualcuno che ti chiama. Anche se non se ne accorge.”

 

La mattina prima il cielo era grigio, niente di paragonabile all’argento o al grigio chiaro, quasi bianco, che tinge i cieli invernali. Il vento caldo dell’estate che aveva soffiato per tutta la sera del giorno precedente sembrava essere passato attraverso un frigorifero e, aumentando di intensità, aveva ammassato nuvole scure in cielo. Radi spicchi di cielo, come chiazze disordinate di vernice, lasciavano libero l’azzurro.

Ma la pioggia era caduta tardi. Prima che l’orchestra del cielo si scatenasse, fulmini e lampi avevano cominciato a cantare silenziosamente, creando luce e frastagliando la volta ormai grigia. Era come ferro che, colpito da fulmini aguzzi e violetti, veniva tagliato e reso incandescente. Ancora un po’ e il lavoro sarebbe finito; ancora un po’ e lame appena forgiate sarebbero piovute verso la terra, cominciando una guerra senza cavalieri.

Si domandò se sarebbe stato in grado di sentire la sua voce quando la pioggia avrebbe iniziato a cadere.

 

Tyki Mikk pensava due cose quando smetteva di piovere.

Se esco, devo ricordarmi di portarmi una ciotola e cercare una pozzanghera.”

Come fa il cielo ad essere sempre così limpido se la pioggia non lo tocca mai?”

 

Usciva pochi secondi dopo la fine del temporale. Infilava velocemente una maglietta né troppo pesante né troppo leggera e afferrava la borsa con ciotola e libri che non avrebbe letto, perché lui era più il tipo che leggeva le persone mentre fingeva di leggere un libro. Solo che le persone non hanno un indice e una fine, perciò alla fine è inevitabile azzardare un prologo in due e sperare in un epilogo non troppo vicino.

Attraversava le strade bagnate, ascoltando il suono delle scarpe sul velo dell’acqua e poi, puntando verso il parco, cercava una pozzanghera. Ne cercava una ogni volta che usciva dopo un temporale, e ormai erano passati vent’anni da quando aveva capito che dopo la pioggia è praticamente inevitabile aprire la porta e uscire. Cercava la pozzanghera più isolata dalle altre, sola. Cercava quella che fosse più vicina al cielo, che lo riflettesse meglio. Poi, anche se sapeva che sarebbe riuscito a raccoglierne poca, conservava nella ciotola l’acqua azzurro cielo della pozzanghera. Con quell’acqua, solo con quella, avrebbe potuto dipingere qualcosa di vero e di magico insieme. Qualcosa che scuotesse l’anima delle persone, che facesse tremare dal piacere e riempisse la mente di domande silenziose. Con l’acqua che rifletteva il cielo, sempre limpido, sempre puro anche dietro le nuvole, sempre silenzioso e quieto durante la tempesta.

Veniva da domandarsi, davanti a quella perfezione, se esistesse davvero.

 

Tyki Mikk faceva due cose mentre era al parco.

Cercava un punto da osservare e poi sperava che qualcuno – qualcuno di speciale e fatto apposta per essere lì – vi capitasse. Solitamente erano solo bambini accompagnati dalle madri o dai padri, più raramente. Lui non aveva mai avuto un padre che lo portasse a giocare con gli aquiloni al parco, come alla fine di Mary Poppins. Sua madre l’aveva cresciuto da sola. Non era stata una madre eccezionale, ma neanche una di quelle che ti lasciano a casa da solo, seduto a un tavolo silenzioso e apparecchiato per uno. E’ una cosa triste mangiare da soli, soprattutto quando sai che lo sei anche fuori di casa. Rende le cose più reali.

 

I bambini e gli aquiloni non erano una grande fonte di ispirazione, tranne forse quando l’aquilone volava via, fuggendo dalla presa debole dei bambini. Non che si divertisse nel vedere bambini in lacrime, sull’orlo dell’isteria certe volte, per aver perso il loro nuovo giocattolo; ma l’immagine di un aquilone libero di volare, senza essere legato a un filo, comunicava libertà. Era solo carta e qualche pezzo di legno, ma la libertà dovrebbe essere ovunque, non solo tra i diritti dell’uomo. La libertà dona piacere, il piacere è essere liberi di vivere. Liberi di essere.

 

Tyki Mikk era un artista, un pittore per la precisione. Viveva tra lenzuola e barattoli di vernice, tra pennelli e ispirazioni sfuggenti, tra sfumature e incontri casuali. Due giorni prima, passeggiando per la città, aveva intravisto in un bar una ragazza con i capelli tinti di verde. Aveva gli occhi azzurri e sembrava una sirena. Accanto a lei, con un gomito poggiato al bancone, un ragazzo ordinario, taglio di capelli normale, da ragazzino viziato, biondo fino alle ciglia, sorseggiava la sua Coca Cola. Tra le labbra una cannuccia verde che, tuttavia, non gli dava per niente l’aspetto fascinoso della sirena. Somigliava al ricordo svanito di un ragazzo che vive per andare al bar di venerdì pomeriggio, lanciare occhiate stranite alla ragazza sirena, e poi andare via, magari a casa per prepararsi e passare la notte con un gruppo di amici altrettanto ordinari.

C’era un altro ragazzo, al di là del bancone, che asciugava bicchieri e sorrideva ai clienti, conversando in modo affabile con le nonne che accompagnavano i nipotini a comprare un gelato per sconfiggere il caldo estivo. Aveva i capelli neri, riccioluti e pettinati alla meglio. Gli occhi, neri come i capelli, osservavano ogni cosa. Non ripeteva le stesse identiche cose ai clienti, ma viveva anche mentre asciugava un bicchiere o preparava un caffè. C’era una vita che brillava allegra nei suoi occhi e, quel ciondolo verde che portava al collo si univa, anche da lontano, al verde dei capelli della ragazza. Una sintesi di verde, oppure un battito di cuore che vale per due e, silenzioso, scorre nel mezzo.

 

Tyki Mikk aveva desiderato una cosa per tutta la vita: scindere l’ombra dalla luce così da trovare il senso di se stesso.

Quando dipingeva e le setole del pennello creavano l’ombra sul punto in cui toccavano la tela... ecco, era quello che Tyki avrebbe voluto scindere. Il momento in cui il pennello toccava la tela, il momento in cui la creazione avveniva. C’è sempre un filo che unisce quei due stati: negazione e creazione.

Nel mezzo, forse, c’è il piacere che assale i sensi e scuote l’anima, impaziente di diventare partecipe, di vedere. C’è il piacere di osservare la creazione e forse distruggerla, oppure toccarla e amarla. C’è il piacere di scegliere senza sentirsi obbligati nei confronti di niente.

 

Il pittore esprimeva quel desiderio ogni notte, intingendo il pennello nell’acqua per pulirlo. L’acqua perdeva limpidezza e diventava rossa, oppure blu, o ancora arancione. Tyki Mikk, allora, ripensava al verde del ciondolo del ragazzo e al modo in cui non aveva ancora incontrato il verde dei capelli della ragazza, nonostante i due fossero così vicini quando li aveva visti. Non si erano toccati, l’ombra non era nata, eppure avevano creato qualcosa, insieme. Un’armonia piacevole, lo stupore negli occhi dell’artista e un momento che non sarebbe mai tornato. Ma che non sarebbe andato distrutto. Solo, sarebbe finito. Come la morte, come il destino.

 

Anche una goccia di pioggia crea per un attimo l’ombra sulla pelle quando vi si infrange. Ma dopo, scivolando via e restando al tempo stesso, l’ombra svanisce e il velo dell’acqua rimane. La purezza vinceva, in quel caso, e l’ombra moriva nell’istante in cui gli occhi, risveglianti dal delicato tocco, incontravano la leggera brillantezza dalla scia bagnata sulla pelle. Era quello il mistero preferito di Tyki Mikk, o forse uno dei tanti: l’acqua. Sempre capace di andare via e restare, morire e vivere senza mai dare una risposta definitiva.

Quel giorno, giacendo a letto con le finestra appena aperte, il giusto necessario per far entrare il vento fresco che la fine di agosto aveva magnanimamente concesso, Tyki Mikk lo sentì. Chiamarlo, invocarlo.

Stava piovendo ancora, leggermente, in maniera talmente impercettibile che avrebbe potuto camminare per le strade senza ombrello e la pioggia l’avrebbe sfiorato appena. E in quel velo di pioggia, di gocce sottili e impalpabili, una voce.




 

 

Lavi non aveva mai avuto grandi desideri, tranne forse quello di vivere una vita tranquilla.

Sta piovendo.” disse, allungando la mano in avanti per toccare la pioggia con il palmo. Così leggera... sembrava una carezza.

E’ piacevole...” commentò il ragazzo seduto sulla panchina del parco accanto a sé. Aveva i capelli bianchi e minuscole gocce d’acqua vi si erano posate, come diamanti. Lavi sorrise. Allen comunicava una pace capace di rilassare finché lo conoscevi poco. Una volta conosciuto imparavi che quella era una pace appena inquieta, accarezzata dalla malinconia e dall’incertezza. Ma Lavi riusciva a stargli accanto senza sentire l’inquietudine, senza fuggire via. Quella era una parte di lui che Lavi non poteva toccare, strappare via; poteva osservarla, cercare di comprenderla, capire se Allen fosse pienamente consapevole di quello che era – sapeva di etereo, ogni tanto, come un fantasma che non sai quanto tempo potrà farti compagnia.

Durerà poco.” osservò Lavi, guardando il cielo. Così leggera che non dava neanche fastidio agli occhi quando cadeva.

Vuoi restare qui fino a quando smette?” chiese Allen.

Sì.” rispose “A Lenalee piacerebbe essere qui, ora.”

Allen sorrise. Era incredibilmente bello quando sorrideva, tanto che sembrava capace di aprire il cielo con quel sorriso.

Le descriverò tutto quando tornerò a casa.” gli assicurò Allen. Lenalee era la persona che per prima si era resa conto di quella pace inquieta che animava Allen. Era come la sua salvezza, la persona che era sempre lì quando i cieli si aprivano davanti al sorriso di Allen e che, allo stesso modo, c’era quando le nuvole lo incupivano ed Allen rimaneva intrappolato nelle sue ombre. Ma lei c’era. Anche quando Allen era assente.

Il sole sta già rischiarando tutto.”

Era durato poco, come aveva predetto Lavi. Ora, nascosto tra le nuvole bianche, il sole combatteva l’ennesima battaglia. Era quasi cominciato il suo viaggio oltre l’orizzonte. La sera sarebbe arrivata prima rispetto ai giorni precedenti, segno che l’estate volgeva al termine. Forse in anticipo. Settembre era quasi arrivato, ma Lavi prevedeva che la fine dell’estate sarebbe stata simile all’inizio della primavera quell’anno. Fresca.

Allen, lanciando un’ultima occhiata al cielo ormai sereno nonostante le nuvole, si alzò in piedi.

Per me è ora di andare, Lavi.” disse.

Lavi annuì.

E vieni a cena da noi qualche volta. E’ un po’ che non passi.” aggiunse Allen, prima di salutarlo.

Verrò.” Allen lo guardò con un’aria alquanto minacciosa. Quello era un altro aspetto curioso del suo amico. Allen era la persona più pacifica del mondo, ma sapeva essere spaventoso qualche volta. Quasi quanto Kanda.

Prometto, prometto.”

D’accordo... Allora ci vediamo presto, Lavi.”

Sì... ciao, Allen.”

Lo guardò andare via, l’aria un po’ sperduta. Certe volte faceva davvero tenerezza. Sorridendo, Lavi poggiò la testa allo schienale della panchina, abbandonando la postura corretta che aveva mantenuto fino a pochi secondi prima. Era una sensazione quasi paradisiaca stare lì, mentre il tempo passava e il sole penetrava le nuvole. Si era anche alzato il vento e probabilmente sarebbe stato possibile osservare il tramonto. Pian piano, il calore investì il viso del ragazzo seduto sulla panchina e i suoi capelli cominciarono a brillare. Erano rossi, una massa di fuoco sotto il sole, quasi.

Forse dovrei andare.” si disse Lavi. Oltretutto, per la posizione assunta la schiena cominciava a dolergli paurosamente.

Attese solo pochi secondi, durante i quali richiamò alla mente la sensazione provata mentre la pioggia cadeva. Era stato come essere carezzati da uno sguardo, dallo sguardo di qualcuno che riesce davvero a vedere, guardare, raggiungere il cuore di un’anima. Chissà se esisteva uno sguardo del genere.

Fu l’ultima domanda che si pose prima di alzarsi. Restò qualche secondo in piedi, dietro alla panchina, lasciando che il sole lo inondasse di luce calda.

La pace era così assoluta che non si rese conto degli occhi che, alle sue spalle, lo fissavano.






 

 

 

 

 

Sotto il sole che tramontava, i capelli rossi di quel ragazzo diventavano fuoco e bruciavano la sua ispirazione talmente in fretta che la voglia di rimanere a guardarlo, ancora, per sempre, fu divorata dal bisogno di correre a casa e dipingere quell’ombra. Solo l’ombra che si rifletteva ai suoi piedi, senza colori, senza rossi accecanti e senza t-shirt bianca e nera. Una semplice e unica ombra che, sicuramente, non avrebbe mai più rivisto in quel modo.

Se avesse osato dipingere quel corpo prima di toccarlo sarebbe venuto fuori un abominio senza emozione. Ma le ombre si possono bere insieme al piacere che ne deriva, insieme alla voglia incontrollabile di scoprire i lineamenti che il nero piatto, schiacciato sulla terra, cela agli occhi. E l’emozione diviene liquida, si scioglie sulla tela insieme all’acqua di cielo. Quello stesso cielo, ora arancione, colorato dal sole che dava vita all’ombra. La sua, la propria.

Prima di correre via, però, avvertì la stessa sensazione – triplicata, forse – che aveva sentito quando il verde della ragazza e del ragazzo del bar erano entrati in sintonia senza toccarsi, senza distruggersi.

Non c’erano colori, tra loro, che potessero avvicinarli in quel senso, ma nell’ombra di quel ragazzo – Lavi – scorreva la purezza del cielo. Sì... era come se lui non fosse mai stato toccato dalla pioggia, anche in mezzo a un temporale. Era come se fosse così, puro, senza alcuna ragione terrena.

Guardarlo era come attraversare a nuoto il piacere. Aveva scelto.

  
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