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Autore: Enrychan    14/08/2010    6 recensioni
«Ma allora», riprese dopo un’altra lunga pausa. «Allora che senso avrebbe la nostra vita? Se fin dal momento in cui apriamo gli occhi sul mondo non siamo altro che concime per le piante, che cosa ci facciamo qui? Perché per tutta la vita soffriamo e ci disperiamo e spargiamo sudore e sangue?»
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altaïr Ibn-La Ahad , Malik Al-Sayf
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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«Maestro.»

Il suono dei passi del giovane fidā'ī alle sue spalle aveva interrotto il flusso dei suoi pensieri molto prima che lo facesse la sua voce sommessa. Ciò nonostante, Altaïr non si volse immediatamente. Sapeva benissimo perché lui era lì, e ciò che stava per comunicargli; e la sola cosa che l’imam desiderava, in quel momento, era potersi permettere il lusso di non ascoltare.

La luce quasi accecante, fuori della grande finestra, si rifletteva sulla neve caduta quella notte sulla cima del Jabal al-Sikkin. L’aria era limpida e gelida, e le pareti di pietra di Masyaf mandavano un odore pungente di acqua e di inverno. Aveva sentito dire che i ricordi passano prima per l’olfatto che per la vista, e forse era vero: quel solo, indefinibile sentore bastava a richiamargli altri tempi, passati. Perduti.

«Maestro?», insistette la voce dietro di lui, alzando lievemente il tono.

Il vecchio Hashshashin inspirò a fondo e finalmente si voltò. «Sì, Kadar», rispose mestamente. «Ti ho sentito.»

«Mi dispiace disturbarvi, Maestro», disse il giovane inchinandosi leggermente.

Altaïr gli lanciò un’occhiata benevola e vagamente ironica. «Kadar, come puoi vedere, siamo soli. Non c’è bisogno di tanta formalità.»

«Perdonatemi, padre», disse il fidā'ī con una punta di imbarazzo. «Dev’essere l’abitudine.»

L’abitudine. In più di trent’anni, il Signore degli Assassini aveva concesso ben poco al proprio amore di genitore. Si era sempre giustificato con se stesso adducendo la facile scusa delle regole dell’Ordine: nessuna distrazione doveva disturbare l’addestramento dei suoi due figli; e nessuno a Masyaf avrebbe potuto sostenere che riservava loro un trattamento privilegiato. Ma in fondo sapeva perfettamente di essere lui, proprio lui il problema. Inadatto per natura a sentirsi vincolato da legami troppo stretti, aveva probabilmente finito per replicare il comportamento distante che suo padre aveva tenuto con lui nel breve tempo in cui gli era stato accanto. Eppure amava Rashid e Kadar. Diverse volte, nel corso degli anni, l’orgoglio del padre era stato difficile da trattenere dietro la maschera del maestro inflessibile.

Rashid, il maggiore, era tremendamente simile a lui. Concepito per caso su una torre di 'Akkā in una chiara notte di fine estate, era cresciuto in modo pressoché selvatico per la una parte della sua infanzia, prima che Altaïr lo prendesse con sé e lo educasse a Masyaf. Il suo talento era straordinario, ma era rimasta in lui una qualche forma di ribellione che tutt’ora, passata da tempo la soglia dei trent’anni, lo rendeva spesso un elemento difficile con cui avere a che fare. Alternava periodi di allegrezza perfino eccessiva a brevi scatti d’ira selvaggia e incontrollabile. Era ancora lungi dal riconoscere fino in fondo l’autorità paterna. L’unico che riusciva puntualmente a placarlo in quei momenti era il fratello minore Kadar.

«Lui ha chiesto di voi», riprese il giovane fidā'ī. «Il maestro Ayuub dice che, probabilmente, gli resta ancora poco tempo. Per questo mi sono preso la libertà…»

L’ultima frase incompiuta cadde in un silenzio più che eloquente. «Hai fatto bene», rispose l’imam, cercando di mantenere un tono di voce neutro; ma fu costretto a distogliere lo sguardo. «Vai pure, Kadar.»

L’uomo si inchinò di nuovo e si volse, scendendo le scale. “Il nome che porti”, avrebbe voluto dirgli Altaïr, “è stato lui a dartelo”. Ma era sicuro che Kadar già lo sapesse, anche se né lui né Malik gliene avevano mai parlato, per una sorta di tacito accordo.

“Se è un altro maschio, chiamalo Kadar”, aveva detto Malik con uno di quei suoi sorrisi ambigui. “E spera che così erediti un po’ di lui e un po’ meno di te. A volte il potere del nome fa miracoli.”

E il “miracolo” poteva essere avvenuto davvero, poiché Kadar aveva rivelato una innata saggezza e un temperamento pacato e meditativo; però i suoi occhi neri erano ardenti d’orgoglio, come quelli di sua madre.

Altaïr rimase ad ascoltare il suono dei passi del figlio sulle scale e nell’atrio finché non si fece di nuovo silenzio. Poi si sedette all’imponente tavolo di legno massiccio. Le carte erano sparse ovunque sulla superficie consumata dal tempo.

La situazione era tale da quando Malik non era più in grado di lavorare al fianco dell’imam. Aveva fatto il suo dovere fino all’ultimo. Nelle gelide sere invernali, prima di andare a dormire, il confratello si era occupato di sistemare i documenti secondo un ordine preciso e spesso aveva tenuto la corrispondenza in luogo del suo superiore. A volte era rimasto al tavolo fino a tarda ora, alla luce flebile di qualche candela. L’aveva fatto in un modo così efficiente e silenzioso che il più delle volte Altaïr non se n’era neanche accorto. C’erano stati dei giorni in cui avevano litigato per via del disordine, ma era sempre stata una cosa blanda. Quasi una tradizione che veniva da anni lontani e che ogni tanto andava rinnovata. Altaïr sapeva che in fin dei conti a Malik faceva piacere sentirsi utile, pur essendo vecchio e privo dell’arto sinistro. Poi, un mattino di appena qualche giorno prima, Altaïr era salito allo studio come ogni giorno e aveva trovato il confratello riverso per terra, accanto ad una delle alte librerie della biblioteca. Era freddo come la neve che scendeva fitta su Masyaf. Nella sua vita, il Signore degli Assassini aveva visto perire centinaia di persone nei modi più diversi; e quando aveva raccolto l’amico era stato sicuro di tenere tra le braccia un morto.

Altaïr fece scorrere una mano sulle carte, si fermò su alcune, iniziò a raccoglierle secondo un ordine incerto, in una goffa imitazione dell’efficienza del suo sottoposto. I suoi gesti erano nervosi e senza particolare coerenza. Si trattenne ancora, cercando di concentrarsi su una lettera spedita dal rafiq di Damasco qualche settimana prima, ma i suoi occhi scorrevano sull’elegante calligrafia senza afferrare una sola parola. Infine si alzò e si decise ad avviarsi. Al suo passaggio le guardie si raddrizzavano impettite o accennavano ad un inchino. Altaïr uscì rapidamente dalla zona di rappresentanza ed entrò in quella degli alloggi dei superiori. Salì delle scale a chiocciola e si fermò di fronte a una porta di legno massiccio rinforzata da spesse lamine di metallo che all’estremità si dividevano in due, formando il disegno di due ali aperte e stilizzate. Ebbe ancora un momento di esitazione, poi bussò. Si accorse che la porta era solo socchiusa, perché cedette subito sotto la sua pressione.

All’interno della piccola stanza di pietra grigia non c’erano che un letto, un tavolo inserito in un angolo, una sedia e una libreria con pochi scaffali che straripavano di libri. E poi mappe dappertutto, aperte, semiaperte, arrotolate, accatastate le une sulle altre. Sul tavolo ne giaceva una parzialmente disegnata, accanto al calamaio e ad una penna bianca dalla punta sporca di inchiostro nero. Il lavoro lasciato a metà qualche giorno prima.

Malik era sdraiato sul letto, gli occhi chiusi e cerchiati di scuro e la carnagione abbastanza pallida da confondersi con il colore dei capelli e della barba. Sembrava quasi essersi rimpicciolito sotto la spessa coltre di lana che lo ricopriva.

Accanto al letto, seduto sulla sedia, c’era Rashid. Il cappuccio calato rivelava la folta capigliatura castano scuro, perennemente scompigliata, e la barba trascurata gli adombrava tutta la metà inferiore del volto. Si alzò in piedi con fare irrequieto non appena vide entrare suo padre.

«Maestro», disse. «Il maestro Ayuub è andato a procurarsi degli altri ingredienti per le medicine, giù al villaggio. Mi ha raccomandato di non lasciarlo solo.»

«Adesso ci sono io, Rashid. Puoi andare.»

L’uomo esitò, ma dal letto vicino a lui sorse la voce debole ma chiara di Malik. «Fai come dice tuo padre, Rashid», disse. «Vai ad allenarti. Non perdere tempo con i vecchi.»

«Credevo dormissi», disse Altaïr sedendosi, non appena Rashid fu uscito.

«Dormo sempre solo a metà», rispose Malik. «Ma tra poco dormirò del tutto, amico mio.»

Altaïr si morse il labbro inferiore. Sentì un’ondata di odio immotivato investirlo all’improvviso, ma non sapeva individuare bene per che cosa. Per Malik o per se stesso o per qualcos’altro a cui non avrebbe saputo dare un nome.

«Che cosa succede, Malik?», chiese, senza guardarlo.

«Sto morendo, Altaïr», rispose quieto il confratello.

Il Signore degli Assassini si alzò di scatto e compì qualche passo nervoso avanti e indietro, poi si bloccò. «Sciocchezze», sbottò, tornando a sedersi. «Ayuub è un ottimo medico e ti rimetterà in piedi nel giro di qualche giorno. Se non lo farà, lo caccerò e ne farò venire un altro più bravo.»

Con una certa sorpresa e una vaga irritazione, Altaïr ascoltò la flebile risata del malato riempire la piccola stanza e tramutarsi presto in tosse.

«Altaïr, Altaïr», sospirò Malik non appena la tosse si fu calmata. «Queste ricadute da ragazzino viziato non si addicono al tuo ruolo nell’Ordine. E neanche alle rughe che hai in faccia.»

«Avanti, Malik. Ne hai passate di peggiori.»

«Sicuro. Quando avevo vent’anni.»

Per la prima volta dall’inizio della conversazione, Altaïr si costrinse a guardare direttamente il confratello. I suoi occhi neri brillavano della luce intelligente e acuta che l’imam aveva imparato a conoscere da tanto tempo. Ma il resto del suo volto scavato aveva un aspetto opaco e grigio, e la pelle grinzosa era ricoperta da un velo di sudore freddo. La respirazione superficiale e irregolare faceva appena abbassare e rialzare il petto e la mano che vi era appoggiata sopra, solcata da profondi avvallamenti tra le ossa e segnata da macchie scure.

Altaïr si sporse su di lui e prese quella mano tra le proprie: era gelida e irrigidita come un pezzo di marmo. «Senti freddo in questa stanza, Malik», disse Altaïr. «Ti faccio trasportare in una più calda.»

«Non provarci nemmeno», lo ammonì l’altro. «Sto bene dove sono. E poi sarebbe inutile.»

«Non morire, Malik», aggiunse l’imam, come se non l’avesse neanche ascoltato. «Lo sai che ho bisogno dei tuoi consigli. Della tua saggezza.»

Malik lo guardò mesto. «Hai bisogno di un segretario che metta ordine nel marasma delle tue carte», lo corresse ironicamente. «Sei vecchio, fratello. Più di me. Ormai puoi prenderle da solo, le tue decisioni». Rovesciò leggermente la testa all’indietro sul cuscino ed emise un altro sospiro, chiudendo gli occhi. «A me non dispiace l’idea di riposare. E di rivedere Kadar.»

Il fratello minore di Malik era morto tanti anni addietro, passato a fil di spada dai Templari di Robert de Sable. Poi anche de Sable era morto, ucciso da Altaïr. Ed in rapida successione, era morto anche Al Mualim, colui che Altaïr aveva sempre considerato il suo vero padre. Una scia di sangue che puntava tutta in una direzione precisa. E che era ancora lungi dall’interrompersi.

L’insensato sentimento di astio e irritazione di prima tornò ad aggredire il Signore degli Assassini. Non sopportava l’idea che il confratello non solo si rassegnasse ad andarsene, ma che ne fosse addirittura lieto. E che pretendesse la stessa cosa da lui.

«Non morire, Malik», ripeté, testardo, stringendogli più forte le dita tra le proprie. «Consideralo un ordine.»

Malik si voltò di nuovo a guardarlo. «è una cosa che non puoi ordinare, Altaïr. È una cosa che non puoi controllare.»

«Lo posso», lo incalzò Altaïr. «Lo potrei, se tu lo volessi.»

Benché stanchi,  gli occhi di Malik lampeggiarono di collera. Per la prima volta fu la sua mano ad artigliare quella del confratello, attirandolo più vicino con una forza insospettata in quel corpo tanto debilitato. «Taci, Altaïr», sibilò abbassando la voce. «Taci. Non bestemmiare. Non spingerti dove non è concesso né a te né a nessun uomo. Non usare quella cosa, o giuro sulla mia anima che ti ucciderò con le mie stesse mani. Avremmo dovuto distruggerla da tempo. Se farà ancora del male, la responsabilità sarà solo nostra. Tua e mia». Finito di parlare, si accasciò di nuovo sul letto, ansimante e stremato per lo sforzo.

Seguì un lungo silenzio. Malik sembrò assopirsi, mentre Altaïr dalla sua posizione accanto al confratello guardava il cielo lattiginoso fuori dalla piccola finestra. La neve aveva ricominciato a cadere a fiocchi grossi e radi, cullati da una brezza gelata.

«Hai detto di voler rivedere Kadar», mormorò ad un tratto Altaïr, ma sembrava più rivolgersi a se stesso. «Ma se in realtà non ci fosse nulla, dopo la morte? Se fosse solo oblio, vuoto e silenzio?»

«è questo che credi?»

«Credo non esista alcun Jannah. Né alcun Jahannam. Credo che non siamo altro che blocchi di carne e ossa, destinati a marcire e ridiventare la terra dalla quale veniamo.»

«è possibile», disse Malik. «Ma sarebbe ancora una forma di sonno. Di riposo.»

Altaïr si alzò di nuovo e si avvicinò alla finestra, stringendo una mano nell’altra, dietro la schiena. «Ma allora», riprese dopo un’altra lunga pausa. «Allora che senso avrebbe la nostra vita? Se fin dal momento in cui apriamo gli occhi sul mondo non siamo altro che concime per le piante, che cosa ci facciamo qui? Perché per tutta la vita soffriamo e ci disperiamo e spargiamo sudore e sangue?»

«Perché siamo solo esseri umani.»

«Questo è mostruoso», proruppe irato il Signore degli Assassini tornando verso il letto e chinandosi su Malik. «è inaccettabile.»

Il confratello riuscì ad alzarsi leggermente puntandosi sul gomito e piantò gli occhi febbricitanti su quelli dell’amico. «Altaïr», esalò debolmente. «Altaïr, sei fuori di te. Non sei che un uomo, Altaïr. E sei un Assassino. La morte è normale. È la tua avversione per essa ad essere mostruosa e inaccettabile. E mi preoccupa». Non ebbe quasi il tempo di finire la frase, prima di ricadere sul cuscino, semisvenuto.

Altaïr lo coprì meglio con la coperta di lana e disse: «Va bene, basta così. Non agitarti. Riposa, fratello». Ma con uno scatto inaspettato Malik gli afferrò di nuovo la mano. «Altaïr», ansimò, bianco come se fosse già cadavere. «Non usare mai più quella cosa

«Non lo farò», disse l’altro.

«Giuramelo sui tuoi figli.»

Questa volta il confratello esitò, e non rispose. Lo salvò il rumore della porta che si apriva: entrò Ayuub, il chirurgo. Tra le braccia teneva diverse fiale e barattoli di vetro pieni di liquidi e polveri. Appena accortosi della presenza del suo signore, si affrettò a inchinarsi. «Maestro. Sono appena stato al villaggio per alcuni acquisti. Avevo lasciato tuo figlio accanto al maestro Malik.»

«Lo so», rispose Altaïr, la mano ancora stretta in quella del confratello malato. «Sono stato io a mandarlo via.»

Mentre il medico sistemava i suoi nuovi materiali sul tavolo e si accingeva a preparare un altro infuso, Altaïr si sedette di nuovo sulla sedia. I suoi occhi incrociarono ancora quelli di Malik, il cui sguardo valeva molto più di mille parole. Ma l’imam sapeva che l’amico non si sarebbe mai arrischiato a parlare della cosa in presenza di altre persone; così finse di non avere notato l’occhiata di Malik, e fissò altrove. Si sentiva vagamente colpevole, ma cercò di ignorare la cosa. Quando tornò a guardare l’amico, quest’ultimo stava dormendo un sonno lieve e incerto. Nonostante il suo ruolo e i suoi impegni Altaïr rimase a vegliarlo tutta la notte insieme ad Ayuub.

La mattina dopo l’imam si svegliò improvvisamente dal sonno superficiale e tormentato da incubi che l’aveva preso meno di un paio di ore prima. Anche il medico aveva ceduto e stava sonnecchiando seduto su uno sgabello, con la schiena appoggiata al muro.

Altaïr si sporse su Malik, cercando di ascoltarne il respiro, ma non vi riuscì. Il confratello aveva gli occhi chiusi, come se stesse ancora dormendo, ma il petto non si alzava e non si abbassava più.

Il volto era disteso e sereno, come Altaïr non l’aveva visto mai prima d’allora.

 

***

 

Presto passerò da questo mondo nel prossimo. È il mio tempo. Ogni ora della mia giornata è segnata da pensieri e paure che nascono da questa consapevolezza. So che tutti gli elementi che compongono il mio corpo torneranno alla terra. Ma che cosa sarà della mia coscienza? Della mia identità? In altre parole, che cosa ne sarà di me? Sospetto che anche tutto ciò terminerà. Che non esista un altro mondo. Né un ritorno a questo. Sarà semplicemente la fine. Per sempre.

La nostra vita è così breve e senza importanza. Al cosmo non importa nulla di noi. Di quello che abbiamo fatto. Se abbiamo scelto il male invece del bene. Se avessi deciso di usare la Mela invece di nasconderla, niente di tutto ciò avrebbe alcuna importanza. Non vi è nulla, nessuna resa dei conti. Nessuna sentenza definitiva. Non vi è altro che silenzio. E tenebre. Totali e assolute…

 E così ho cominciato a chiedermi, non ci potrebbe essere un modo per fermare - o almeno ritardare – l’abbraccio della morte? Sicuramente “coloro che sono venuti prima” non erano fragili e deboli come noi. Ma ho giurato di avere chiuso con quell'artefatto. Di non guardare mai nel suo nucleo. Eppure, faccia a faccia con la prospettiva della mia fine, come sono ora, che male ci sarebbe in un ultimo sguardo...

Altaïr Ibn-La'Ahad, Codex






Nota dell'autrice: i fatti in questa fanfic non corrispondono alla narrazione "ufficiale", perché è stata scritta prima che uscisse il libro "The secret crusade"
   
 
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