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Autore: nightswimming    15/08/2010    2 recensioni
Nel silenzio assordante del parcheggio Brian resta, gli occhi vuoti e lucidi, le dita piegate ad artiglio, la sigaretta che penzola smarrita dalle sue labbra, a stringere a mezz’aria qualcosa che ormai non c’è più.
Matthew Bellamy as special guest.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note: non sono miei, non fanno niente di ciò che segue, spero sinceramente che se la passino meglio di come scritto sotto XD






Sing for your lover

Like blood from a stone
Sing for your lover
Who’s waiting at home
If you sing when you’re high
And you’re dry as a bone
Then you must realize
That you’re never alone.
 
-Summer’s Gone-, Placebo

 

 

 

Ci sono tante cose che Brian Molko sa di volere, tante cose che sente essere essenziali e sane e giuste, per sé e per gli altri. Sa che non c’è traccia di banalità nei suoi pensieri, sebbene miliardi di esseri umani cerchino le medesime cose da secoli – felicità, soddisfazioni sentimentali e professionali, rispetto, consolazione; Brian Molko, inoltre, sa che purtroppo nel corso della sua ormai non più brevissima esistenza non è riuscito a ottenere nemmeno un decimo di quanto avrebbe desiderato. E, soprattutto, Brian Molko sa che mai quella ricerca così disperata e infruttuosa l’ha condotto sull’orlo del baratro quanto in questo preciso momento.
Inutile dire che tutta questa consapevolezza e autocoscienza non lo aiutano nemmeno un po’. Anzi, ne farebbe volentieri a meno, perché quanto è vero Dio chi più sa più soffre, e da che mondo è mondo le uniche alternative concesse a chi più sa sono quelle di accucciarsi placidamente sul fondo dell’abisso e dormire del sonno eterno oppure puntare i piedi e, dandosi la spinta, risalire.
Brian Molko sa di non voler scegliere, perché farlo impiegherebbe troppa fatica. E’ troppo stanco persino per optare definitivamente per la cupa accettazione. Sente di non avere scampo, che in qualche modo la disgrazia definitiva lo colpirà in pieno qualunque cosa lui faccia - e perciò si affida a quegli automatici eventi della sua esistenza che gli permettono di restare goffamente in equilibrio sulla voragine e di aggrapparsi alla vita, come ad una macchina per l’ossigeno.
Inutile dire che le premiazioni recitano, in questa lugubre e deprimente girandola di posti e facce tutti uguali, la parte del leone.
Ancora nulla, dopo una buona decina di anni da carriera, gli impedisce di sentirsi come un cane da esibizione - una bella bestiolina munita di un pedigree buono ma non eccelso, un segugio di razza dai genitori rispettabili e dagli antenati bastardi. Al menefreghismo e allo snobismo degli inizi si è ora sostituito un senso di svilimento e di servilismo nei confronti dei fan, del pubblico, dei giudici, delle altre band. Trova inutile la sua presenza lì e sa che troverebbe inutile anche la sua assenza, perché sa che in fondo in fondo nessuno se ne accorgerebbe davvero. Sa che il mondo può benissimo fare a meno di Brian Molko – anzi, in un triste e soffocante recesso del proprio animo sa che gran parte del suo piccolo mondo personale sarebbe di gran lunga più felice senza di lui.
Questi pensieri l’hanno condotto fuori dall’edificio come un filo d’Arianna, esponendolo al freddo e al nevischio tagliente senza il benché minimo riguardo. L’implosione interna che sta causando il buco nero che a poco a poco lo risucchia è passata inosservata a tutti, ringraziando Dio – eccetto che a Stef, ma Brian ci ha fatto l’abitudine da anni, ormai. Sa che l’amico non verrebbe mai a chiedergli una cosa stupida come un tutto bene. Sa che non si permetterebbe mai, nel momento in cui lui regge ancora con consumata maestria - davanti a quel pubblico immenso che è il mondo - una maschera che sta diventando sempre più crepata e fragile, di rovinare il suo gioco. Sa che Stefan sa cosa è meglio per lui più di quanto lo sappia lui stesso. E se Stefan non è ancora venuto a cercarlo, dopo la fine della premiazione, sa che un motivo c’è e sa che ne deve comprendere la logica. Da solo.
L’ampio spazio livido e scarno che costituisce il parcheggio all’aperto gli sembra così sterminato da dargli le vertigini. Avanza di qualche passo, più per testare la risposta dei suoi piedi al freddo che per un reale motivo. Ignorando il raschio fastidioso che sente alla gola si porta una sigaretta alla bocca, e per puro, disinteressato odio verso sé stesso si mette a compilare un elenco mentale di tutte quelle persone che starebbero meglio senza di lui.
Helena. Al primo posto c’è sicuramente Helena. Dopo averla delusa su una sua ipotetica redenzione – almeno sentimentale – e aver sentito dentro al cuore la sensazione di aver dato alla luce insieme a lei l’unica cosa veramente, meravigliosamente compiuta della sua vita – Cody -, aveva frantumato la sua e la propria felicità con un unico colpo ben mirato. Era stato ore e ore a rimuginare sui possibili perché, sui quei dannati motivi che lei aveva addotto lasciandolo – ed era giunto alla conclusione che era impossibile metabolizzarli perché il farlo avrebbe comportato il metabolizzare anche sé stesso, e soprattutto tutti quegli spazi grigi e insidiosi che si celavano dietro a ogni lato apparentemente positivo del suo carattere. L’integrità del suo marciume interiore era stata l’unica sua sincera, fedele e affezionata compagna di vita, l’unica presenza immutata e sempre uguale a sé stessa, e non aveva alcuna voglia di rinunciarvi.
Helena era stata l’unica donna capace di convincerlo di poter essere non solo un uomo di valore, ma addirittura un buon padre. E lui ci aveva creduto. Fino in fondo. Ci aveva creduto come in un Dio, finché il suo personale anticristo – quel sé stesso che conosceva profondamente e che sapeva di poter accantonare, ma non cancellare – non era giunto a interrompere l’idillio.
Uomo di valore? Non pensava nemmeno di potersi considerare un uomo.
Buon padre? Si ricordava di quanto i suoi genitori l’avessero fatto soffrire da bambino ed era convinto di star facendo soffrire Cody nella stessa maniera, né più né meno.
Era insomma riuscito ad imbrogliare i calcoli anche di una donna intelligente com’era Helena: quella era l’unica cosa di cui riuscisse ancora, in una qualche masochistica maniera, ad andare fiero.
Al secondo posto, consequenzialmente e logicamente, mette Cody. Cody gli somiglia in tali e tante maniere da fargli gonfiare il petto d’orgoglio come un gallo. Cody sin da subito si è rivelato bellissimo, ipnotizzante, capace di assorbire attenzioni e commenti estatici come una spugna. Cody riesce a farsi amare senza sforzo per quello che è – un frugolino piccolo, volitivo e capriccioso, munito di bisogni elementari e di una sconfinata adorazione per i propri genitori.
Brian non si è mai sentito amato così da nessuno, nemmeno da Helena. L’euforia che ancora si trascina dalla sua nascita – la voglia di regalargli tutto, di capirlo, di farlo sentire protetto e privilegiato, di amarlo in maniera sana e intelligente, come i suoi genitori non hanno mai saputo fare – è una delle poche cose che ancora lo fa sentire vivo. Ma l’entusiasmo spesso e volentieri si sostituisce alla frustrazione, e dalla rottura con Helena non è più riuscito a guardarlo e toccarlo nello stesso modo. Brian sa che, anche se volesse, non potrebbe spiegargli che lo ignora perché ha paura che tutto quello che lui stesso si ritrova a sfiorare diventi cenere.
A volte sente che quella piccola meraviglia, quel bambino che non ha colpe e che per questo non dovrebbe subire quelle degli altri, sia più di Helena che suo. Sente che Helena sa meglio di lui come prenderlo in braccio, come calmarlo, come cullarlo, come dargli da mangiare. Sente che Helena sa tutto meglio e più completamente di lui – lui, un piccolo pianeta autoreferenziale sprezzante delle stelle intorno e quasi collassato nel narcisismo e nell’asprezza – e sente che è proprio per questo che lei l’ha lasciato.
Brian pensa tutto questo e intanto fissa i cerchioni di una Volvo parcheggiata davanti a lui, immobile e stolido. La neve confonde i contorni di ogni cosa che vede e Brian più che mai si sente perso, spinto inesorabilmente giù nel precipizio, nudo ed esposto ad una fine certa e dolorosa. Vorrebbe che almeno i Placebo – l’unica cosa che avrebbe potuto lenire il dolore e lo schifo di sé dopo la rottura della sua famiglia – fossero restati il rifugio caldo e amichevole di un tempo, ma Brian sa che non è più così, e sa che anche quello è frutto esclusivo del suo egoismo.
Pensa a Stef, a Stefan che come Cody lo ama qualsiasi cosa faccia, e che non ha mai saputo ricambiare nella stessa maniera.
Pensa a Steve, che tante volte l’ha riacciuffato per la collottola nei momenti più disperati, e al fatto che lui se ne stia andando per colpa sua e che non l’ha mai neanche ringraziato come si deve.
Tira fuori l’accendino dalla tasca, fa per avvicinarselo al viso e in un momento non pensa più niente. La testa gli gira e gli pesa sul collo, le ginocchia gli tremano e il suo cuore cade in ginocchio, come le sue gambe in quel momento non hanno la forza di fare. Dalle sue mani illividite e rigide l’accendino scivola senza alcun rumore e, senza alcun rumore, cade a terra, nella neve. Voglio piangere, pensa Brian. Voglio piangere. Ma Brian sa che non ci riuscirà.
Nel silenzio assordante del parcheggio Brian resta, gli occhi vuoti e lucidi, le dita piegate ad artiglio, la sigaretta che penzola smarrita dalle sue labbra, a stringere a mezz’aria qualcosa che ormai non c’è più.
La porta a maniglia dietro di lui si apre con un forte cigolìo, ma Brian non se ne accorge. Dei passi nervosi e affrettati risuonano dietro le sue spalle, attutiti come quelli di un uccellino, e un borbottìo lamentoso copre per qualche secondo il fischio del vento. Brian sbatte le palpebre, senza veramente vedere un Matthew Bellamy che concitato gli passa davanti cercando le chiavi della propria macchina a testa bassa, le mani sottili e scattanti che frugano rumorosamente nelle tasche del cappotto. Nemmeno quando il frontman dei Muse conclude la sua goffa ricerca con un compiaciuto “Yes!” e sembra accorgersi finalmente di lui, dedicandogli uno sguardo stupito e sospettoso, Brian si sforza di metterlo davvero a fuoco. Si limita ad abbassare le mani, indeciso, immobilizzato dal freddo che prova sopra e sotto pelle.
“Molko?” chiede Bellamy, inarcando un sopracciglio. Brian gli rivolge infine lo sguardo. Ci dev’essere nei suoi occhi qualcosa di molto penoso e imbarazzante, come una lacrima abortita, perché Matthew arrossisce e fa istintivamente un passo indietro. Strano, le palpebre non gli bruciano. Ma, ancora più strano, la nevrotica presenza di Matthew Bellamy accanto a lui non gli provoca alcun tipo di irritazione – sebbene, pure in quel momento, riconosca nella sua mente che quell’uomo ha svariate credenziali di insopportabilità in suo possesso.
Brian, però, sembra non curarsene. Si limita a guardare con insolita curiosità quel personaggio magro, sfuggente e scoordinato fissare lo sguardo a terra nel tentativo di pensare disperatamente a un modo discreto di andarsene e cerca di capire se sia un bislacco parto della sua disperazione oppure no. Matthew Bellamy è presente nella lista di tutte le persone che starebbero meglio senza di lui? Probabilmente sì – in quel caso si risparmierebbe svariate frecciatine, critiche malvagie, commenti al vetriolo, spiacevoli incontri nei backstage dei festival di mezzo mondo.
E allora perché Matthew Bellamy si china per terra a raccogliere l’accendino e glielo offre ora con l’espressione luminosa di un bambino che dica “tieni, te lo regalo?”
Brian resta ammutolito a guardare quello strano essere dai capelli simili a una città bombardata stargli davanti con un’espressione così credula e benintenzionata da fargli spalancare gli occhi. Bellamy sembra tentennare, messo a disagio da quell’attesa forzata, ma poi con un impeto di coraggio si avvicina e, velandogli una guancia col palmo di una mano, fa scattare la rotella dell’accendino.
Il calore e lo sprizzo della scintilla sembrano risvegliare Brian dal suo torpore. Inspira con attenzione, abbassando le lunghe ciglia sugli occhi che sembrano aver ritrovato un po’ di vita, e con un movimento elegante e abitudinario si sfila la sigaretta di bocca e soffia un’elaborata voluta di fumo. Quando alza nuovamente gli occhi su Bellamy, capisce che lui lo sta guardando con un’aria di immediata comprensione che ha il potere di tornare ad irritarlo. Sorride aspro, sfidandolo a dire qualcosa – gli occhi che, ora sì, bruciano e cominciano ad offuscarsi -, le mani crollate in segno di resa ai lati dei suoi fianchi e la schiena tenuta dritta a forza. Fra i propri indice e medio, la sigaretta trema e Brian non riesce a fare niente per impedirlo, né per impedire che l’ultima persona della terra che reputi meritevole di questo ruolo scavi dentro di lui e tolga una scheggia di sofferenza dal suo corpo, rimirandola da vicino. Brian sa che purtroppo non può fare più niente per nascondersi e sebbene non pianga, non gridi o non gli abbracci le ginocchia in segno di disperazione, in quel momento ha messo giù la maschera e tutto ciò che sente è esposto come merce vecchia sul suo viso.
Matthew continua a guardarlo con gli occhi spalancati, turbato, parole di cui non sa il significato né l’utilità bloccate in gola come bocconi troppo grossi da ingoiare. Il sorriso di Brian è ora un ghigno, ma Bellamy non si muove né si azzarda ad avvicinarsi o a dire qualcosa.
Nel silenzio più totale, Brian finisce la sigaretta e dalla porta rimasta aperta si sentono echeggiare voci di persone che cercano “Matt!”. Bellamy si riscuote da quel contatto visivo che l’ha quasi annichilito e muove un passo incerto all’indietro, un’espressione interrogativa sulla faccia come a chiedergli il permesso di potersene andare. Brian abbassa lo sguardo e si mette le mani in tasca. Matthew, gli occhi che per un momento saettano sul suo capo chino, lentamente se ne va.
La neve continua a cadere imperterrita, sempre uguale a sé stessa, e Brian sa che tra poco anche Stefan e Steve verranno a cercarlo, perché è ora di andare, e il pensiero in qualche modo lo rincuora. Un po’ perché, dopo che una scheggia è stata dolorosamente sfilata, ogni respiro gli pare più agevole e pronto a essere riempito di nicotina; un po’ perché Brian si rende conto che Bellamy, nel suo impeto da crocerossina narcolettica, si è fregato il suo unico accendino, obbligandolo a chiedere il fuoco a qualcun’altro.
Brian Molko si ritrova a sorridere, quando poco tempo prima si era convinto di non poterlo più fare: Brian Molko sa che, per quanto anche persone come Bellamy si possano rivelare un provvidenziale e salvifico deus ex machina, rimangono sempre confortantemente uguali a sé stesse, come lui, come la neve.

 

 

 

 

 

 

 

Note: una storia che nasce unicamente dall’ascolto della canzone citata all’inizio e dall’immagine di un Matthew Bellamy un po’ titubante che accende una sigaretta a un gelido Brian Molko. Cronaca di una Mollamy annunciata? Sinceramente, non lo so. Lascio libera l’interpretazione a chi pensa di poterne trarre maggior piacere XD
Per la contestualizzazione storica di Bri (detta così, la faccio sembrare una cosa seria XD) avevo pensato al periodo di lavorazione di Meds, periodo che, a detta dei vari componenti, è stato molto duro e che ha portato poi allo scioglimento della formazione originale ç___ç Steve n°1 ç____ç

 

 

   
 
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