Premessa. I personaggi protagonisti di questa one-shot sono Anna e Antonio, rispettivamente – per chi non li conosce – la sorella del conte Fabrizio e il medico di Rivombrosa.
La narrazione è presentata nel seguente modo: Anna è ancorata alla prima persona singolare, Antonio alla seconda.
Introduzione: Genericamente, Anna sta tornando a Rivombrosa dopo una breve permanenza a Torino dal marito, quando s'imbatte in qualcosa che le ricorda ancora una volta il suo amore di gioventù.
Lettera che non spedirò mai
Seduta
sul
letto preparavo il baule per andarmene da qui.
Metà
del
suo contenuto era ancora piegato all’interno
dall’ultima volta che l’avevo
impiegato per spostarmi a Torino, e forse quella era la speranzosa
indicazione
della brevità di questa mia sosta.
Spero
che
Alvise stia ancora dormendo, mentre attraverso il corridoio per bussare
alla
stanza di mia figlia e svegliarla. Con qualche mugugno di rimprovero,
ottengo
la sua voce addormentata che mi assicura che avrebbe fatto il prima
possibile.
Torno
in
camera, a contemplare quegli oggetti che non mi appartenevano.
Un
vaso di
fiori che stavano appassendo fingeva di illuminare l’ambiente
tetro e ancor più
opprimente dall’aria viziata della notte. Spalanco le ante
della finestra e mi
colpisce una brezza gelata che mi apre finalmente i polmoni.
Torno
a
sedermi su quel letto di cui non avevo nessuna intenzione di sistemare
le
coperte stropicciate da un sonno nient’affatto tranquillo.
Per caso mi ritrovo
a fissare la mia immagine nello specchio di fronte a me e mi convinco
che
quell’espressione spenta e spossata sia colpa della mia
lontananza da
Rivombrosa.
Cerco
nell’armadio qualche altro abito non troppo vecchio e non
troppo malandato, ma
quando le mie dita scivolano sulla stoffa morbida e liscia di uno di
loro, mi
si forma un groppo in gola che costringe il cuore ad accelerare.
La
metà dei
vestiti era da buttare: se non troppo vecchi, erano troppo piccoli, o
troppo
scomodi.
Quello
però
il cui lembo strofinavo tra le dita era sì troppo vecchio,
un po’ scomodo,
forse anche un po’ piccolo, ma… Dio santo.
Pensavo
di
aver abbandonato questa mia tortura che mi aveva accompagnata per quasi
dieci
anni della mia vita.
Perché
diavolo Alvise non aveva gettato nel fuoco questi vestiti?
Lo
estraggo
e lo appoggio sul letto; era un po’ impolverato, era da
stirare, ma forse mi
sarebbe stato ancora bene. Nonostante non avessi mai pensato di
indossarlo
ancora, finisce in fondo al baule, insieme a tutti gli altri.
Mi
accorgo
di stare piangendo solo quando una lacrima lascia il mio viso per
atterrare
sulle mattonelle del pavimento. Mi siedo sullo sgabello di fronte allo
scrittoio, eliminando in pochi istanti le tracce salate sul mio viso.
Quello
che trovo davanti agli occhi è un foglio di carta mai
riempito di parole e un
cassetto semiaperto dentro al quale non riesco a fare a meno di
sbirciare.
Fogli
stracciati, fogli nuovi, una boccetta d’inchiostro, fogli
ripiegati in quattro.
Che non sono altro che bigliettini ingialliti dal tempo, segnati da
parole che
non riconosco come mie o come rivolte a me. Ne apro uno cercando di non
far
tremare le mani.
non puoi immaginare quanto mi manchi.
So che tua madre non è molto d’accordo, ma vieni a trovarmi, ti prego.
Non so vivere senza di te.
Non so vivere senza di te.
Quanto
mi
infastidisce sentirmelo dire – o leggerlo – adesso.
Stropiccio
quel biglietto e, con la voglia di togliere quel cassetto dallo
scrittoio e
gettare quel mare di ricordi via per sempre, mi imbatto in una lettera
non
compiuta, questa volta scritta dalla mia mano.
Sono rinchiusa in questo palazzo con mio marito, e mi manchi.
Mi mancano i tuoi occhi, i tuoi abbracci, la tua bocca… ma chi sono io per poter confessare a questo pezzo di carta tali sensazioni di nostalgia? Se Alvise leggesse queste cose… non so come andrebbe a finire.
E vuoi sapere perché mi manchi?
Perché
Finiva
così, con quel perché
in sospeso. Mi
ricordo il giorno in cui l’ho scritta: sarà stato
meno di un mese fa. Mi ero
dimenticata anche di quel momento di malinconia, qui in questa stanza,
uno dei
tanti che credo continueranno a presentarsi allo stesso modo e per
sempre.
Torno
a
chiedermi che senso possa avere aggrapparsi a ricordi, siano essi
concreti o
ampliati dalla fantasia della mente, che non potranno più
realizzarsi.
Seguito
a
pensarti, a sperare che tu bussi alla mia porta o che a cavallo
t’interponga
tra la carrozza e la strada da percorrere. Non cesso mai di immaginare
come
possa essere incredibile avere di nuovo le tue braccia che mi
stringono, o i
tuoi occhi che mi sorridono.
Dovrei
buttare via tutto ciò che mi riporta a te.
Biglietti,
lettere, abiti, sogni, parole, ricordi.
Dovrei
buttare via anche me.
Perché…
perché sono fatta di te.
E
forse
questa era l’unica continuazione che avrei dovuto dare a
quella maledetta lettera
che non spedirò mai.
“Quando
ti
deciderai a buttare tutte quelle cartacce?”
Mi
alzo in
piedi di scatto, lasciando cadere a terra più di una decina
di biglietti che
cercavo di sistemare nello scrittoio della mia stanza a Rivombrosa. Non
ero
riuscita a lasciarli a Torino.
Respiro
affannosamente e distolgo lo sguardo, appoggiando una mano alla
superficie del
tavolino.
“Io…”
Io
speravo che fosse Fabrizio, o Amelia, o qualsiasi altro membro della
servitù,
almeno avrei potuto evitare di vergognarmi in quel modo. Cosa dovrei
provare
alla vista dell’uomo che amo dopo quindici anni? Emozione,
brividi, voglia di
abbracciarlo? No.
Mi
chino a
raccogliere il disordine che avevo creato, non senza un velo di rossore
sul
viso, e tu mi segui, inginocchiandoti accanto a me.
Mi
odio
pensando alla possibilità che il tuo tono fosse di
rimprovero, o ancor più di
disprezzo nei confronti del nostro passato. Impilo i foglietti con un
ordine
sin troppo cavilloso e tu sei qui, a porgermene due, solo
perché il terzo, già
spiegato, lo stavi leggendo. Allungo un braccio per strappartelo dalle
mani, ma
non sembravi intenzionato a cederlo.
“È
tutto
quello che mi rimane” insieme alla mia solita sfacciataggine.
“Come avete
saputo che sarei tornata oggi?” Mi alzo in piedi e nascondo
nel cassetto quel
mazzetto di carta piegata. Prima di rispondere, mi infili in mano il
pezzo di
carta, che scopro poi essere la mia lettera incompiuta. La strappo in
più parti
e la getto sullo scrittoio.
“È
stato un
caso. Ero qui per-”
Emozione, brividi, voglia di abbracciarlo. Sì, forse è questo quello che probabilmente sentivo adesso. Mi sono bastate poche parole, un balbettio esitante, uno sguardo mancato, due gocce di cielo sopra ai miei occhi per realizzare che non aveva alcun senso fingere di odiarti e per gettarmi addosso a te e infilare le dita in mezzo ai tuoi capelli.