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Autore: Dea Elisa    19/08/2010    3 recensioni
I ricordi fanno male. Ma purtroppo fanno parte di noi.
Pairing: Anna/Antonio.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Premessa
. I personaggi protagonisti di questa one-shot sono Anna e Antonio, rispettivamente – per chi non li conosce – la sorella del conte Fabrizio e il medico di Rivombrosa.
La narrazione è presentata nel seguente modo: Anna è ancorata alla prima persona singolare, Antonio alla seconda.

Introduzione: Genericamente, Anna sta tornando a Rivombrosa dopo una breve permanenza a Torino dal marito, quando s'imbatte in qualcosa che le ricorda ancora una volta il suo amore di gioventù.









Lettera che non spedirò mai





Seduta sul letto preparavo il baule per andarmene da qui.

Metà del suo contenuto era ancora piegato all’interno dall’ultima volta che l’avevo impiegato per spostarmi a Torino, e forse quella era la speranzosa indicazione della brevità di questa mia sosta.

Spero che Alvise stia ancora dormendo, mentre attraverso il corridoio per bussare alla stanza di mia figlia e svegliarla. Con qualche mugugno di rimprovero, ottengo la sua voce addormentata che mi assicura che avrebbe fatto il prima possibile.

Torno in camera, a contemplare quegli oggetti che non mi appartenevano.

Un vaso di fiori che stavano appassendo fingeva di illuminare l’ambiente tetro e ancor più opprimente dall’aria viziata della notte. Spalanco le ante della finestra e mi colpisce una brezza gelata che mi apre finalmente i polmoni.

Torno a sedermi su quel letto di cui non avevo nessuna intenzione di sistemare le coperte stropicciate da un sonno nient’affatto tranquillo. Per caso mi ritrovo a fissare la mia immagine nello specchio di fronte a me e mi convinco che quell’espressione spenta e spossata sia colpa della mia lontananza da Rivombrosa.

Cerco nell’armadio qualche altro abito non troppo vecchio e non troppo malandato, ma quando le mie dita scivolano sulla stoffa morbida e liscia di uno di loro, mi si forma un groppo in gola che costringe il cuore ad accelerare.

La metà dei vestiti era da buttare: se non troppo vecchi, erano troppo piccoli, o troppo scomodi.

Quello però il cui lembo strofinavo tra le dita era sì troppo vecchio, un po’ scomodo, forse anche un po’ piccolo, ma… Dio santo.

Pensavo di aver abbandonato questa mia tortura che mi aveva accompagnata per quasi dieci anni della mia vita.

Perché diavolo Alvise non aveva gettato nel fuoco questi vestiti?

Lo estraggo e lo appoggio sul letto; era un po’ impolverato, era da stirare, ma forse mi sarebbe stato ancora bene. Nonostante non avessi mai pensato di indossarlo ancora, finisce in fondo al baule, insieme a tutti gli altri.

 

Mi accorgo di stare piangendo solo quando una lacrima lascia il mio viso per atterrare sulle mattonelle del pavimento. Mi siedo sullo sgabello di fronte allo scrittoio, eliminando in pochi istanti le tracce salate sul mio viso. Quello che trovo davanti agli occhi è un foglio di carta mai riempito di parole e un cassetto semiaperto dentro al quale non riesco a fare a meno di sbirciare.

Fogli stracciati, fogli nuovi, una boccetta d’inchiostro, fogli ripiegati in quattro. Che non sono altro che bigliettini ingialliti dal tempo, segnati da parole che non riconosco come mie o come rivolte a me. Ne apro uno cercando di non far tremare le mani.

 

Cara Anna,
non puoi immaginare quanto mi manchi.
So che tua madre non è molto d’accordo, ma vieni a trovarmi, ti prego.
Non so vivere senza di te.

 

Non so vivere senza di te.

Quanto mi infastidisce sentirmelo dire – o leggerlo – adesso.

Stropiccio quel biglietto e, con la voglia di togliere quel cassetto dallo scrittoio e gettare quel mare di ricordi via per sempre, mi imbatto in una lettera non compiuta, questa volta scritta dalla mia mano.

 

Antonio mi manchi.
Sono rinchiusa in questo palazzo con mio marito, e mi manchi.
Mi mancano i tuoi occhi, i tuoi abbracci, la tua bocca… ma chi sono io per poter confessare a questo pezzo di carta tali sensazioni di nostalgia? Se Alvise leggesse queste cose… non so come andrebbe a finire.
E vuoi sapere perché mi manchi?
Perché

 

Finiva così, con quel perché in sospeso. Mi ricordo il giorno in cui l’ho scritta: sarà stato meno di un mese fa. Mi ero dimenticata anche di quel momento di malinconia, qui in questa stanza, uno dei tanti che credo continueranno a presentarsi allo stesso modo e per sempre.

Torno a chiedermi che senso possa avere aggrapparsi a ricordi, siano essi concreti o ampliati dalla fantasia della mente, che non potranno più realizzarsi.

 

Seguito a pensarti, a sperare che tu bussi alla mia porta o che a cavallo t’interponga tra la carrozza e la strada da percorrere. Non cesso mai di immaginare come possa essere incredibile avere di nuovo le tue braccia che mi stringono, o i tuoi occhi che mi sorridono.

Dovrei buttare via tutto ciò che mi riporta a te.

Biglietti, lettere, abiti, sogni, parole, ricordi.

Dovrei buttare via anche me.

Perché… perché sono fatta di te.

E forse questa era l’unica continuazione che avrei dovuto dare a quella maledetta lettera che non spedirò mai.

 




“Quando ti deciderai a buttare tutte quelle cartacce?”

Mi alzo in piedi di scatto, lasciando cadere a terra più di una decina di biglietti che cercavo di sistemare nello scrittoio della mia stanza a Rivombrosa. Non ero riuscita a lasciarli a Torino.

Respiro affannosamente e distolgo lo sguardo, appoggiando una mano alla superficie del tavolino.

“Io…” Io speravo che fosse Fabrizio, o Amelia, o qualsiasi altro membro della servitù, almeno avrei potuto evitare di vergognarmi in quel modo. Cosa dovrei provare alla vista dell’uomo che amo dopo quindici anni? Emozione, brividi, voglia di abbracciarlo? No.

Mi chino a raccogliere il disordine che avevo creato, non senza un velo di rossore sul viso, e tu mi segui, inginocchiandoti accanto a me.

Mi odio pensando alla possibilità che il tuo tono fosse di rimprovero, o ancor più di disprezzo nei confronti del nostro passato. Impilo i foglietti con un ordine sin troppo cavilloso e tu sei qui, a porgermene due, solo perché il terzo, già spiegato, lo stavi leggendo. Allungo un braccio per strappartelo dalle mani, ma non sembravi intenzionato a cederlo.

“È tutto quello che mi rimane” insieme alla mia solita sfacciataggine. “Come avete saputo che sarei tornata oggi?” Mi alzo in piedi e nascondo nel cassetto quel mazzetto di carta piegata. Prima di rispondere, mi infili in mano il pezzo di carta, che scopro poi essere la mia lettera incompiuta. La strappo in più parti e la getto sullo scrittoio.

“È stato un caso. Ero qui per-”

Emozione, brividi, voglia di abbracciarlo. Sì, forse è questo quello che probabilmente sentivo adesso. Mi sono bastate poche parole, un balbettio esitante, uno sguardo mancato, due gocce di cielo sopra ai miei occhi per realizzare che non aveva alcun senso fingere di odiarti e per gettarmi addosso a te e infilare le dita in mezzo ai tuoi capelli.





   
 
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