C’era un’abitudine che la Buki non era ancora riuscita a eliminare.
Gli capitava, talvolta, di svegliarsi ancor prima delle luci dell’alba. Quando la città ancora dormiva tra le braccia di Morfeo, racchiusa in un piccolo splendente bozzolo di cui si vedevano solo i primi raggi oltre l’orizzonte.
Il cielo era blu, lì, azzurro scuro, che si dilaniava fino a diventare un abisso nero.
Quelle volte, preso da chissà quali demoni, percorreva quatto il corridoio, affacciandosi sull’unica porta di cui possedesse le chiavi.
La sua porta.
Rimaneva lì, dopo averla aperta, a fissare con un amorevole astio quello strumento nero.
Perfetto, vellutato, immacolato.
Proseguiva a passi sicuri ma piccoli, facendo scricchiolare le assi sotto i suoi piedi.
Li contava come se fossero una battuta, cercando di ricordare l’odore dello strumento e il sapore delle note.
Vi si sedeva di fronte, con fare quasi pigro e svogliato.
Studiava i contorni dei tasti con minuziosa attenzione, la stessa che avrebbe avuto un ingegnere progettando un edificio, o un pittore nel cogliere le sfumature.
Infine ne suonava uno, tanto per vedere che effetto gli faceva.
Sentiva riecheggiare la nota nella sala, poi richiudeva lo strumento e tornava a dormire.
Per questo – quel giorno – si stupì nel cogliere, proprio sulla porta, la figura della sua artigiana.
Al contrario di quanto credesse, Maka sapeva di quella sua abitudine.
Di tanto in tanto lo spiava, perché vederlo di fronte al pianoforte le ricordava il giorno in cui si erano incontrati.
“Questo sono io” aveva detto, con quelli occhi ignettati di sangue.
Ma lei – sentendo quelle note – non gli aveva creduto nemmeno un po’.
L’aveva visto risplendere. Illuminarsi di qualcosa di proprio.
Qualcosa di meno accecante del mezzogiorno e di più delicato dell’alba.
Soul non era il sole, era un chiarore notturno.
La luce della luna sapeva essere più abbagliante di quella del sole.
Placida, chiara ma sicura, illuminava il buio più assoluto, facendo da compagna agli incubi peggiori.
Era decisamente migliore della luce diurna.
Era cool, come avrebbe detto Soul.
Lui gliela ricordava. Era come una perpetua luce nell’ombra, che si accentuava a ogni difficoltà.
Sapeva illuminare gli altri, ma non riusciva a far risplendere se stessa.
Quel bagliore dipendeva da un’altra stella, dopotutto, una stella più grande, più luminosa.
Perché la luna aveva anche un lato oscuro.
E, anche se l’aveva sentito una sola volta, le sarebbe piaciuto poterlo vedere di nuovo davanti a quel piano, con le mani indaffarate nel produrre nuovi suoni.
Così glielo chiese, quella volta << Soul, suoneresti per me? >>.
Si avvicinò al ragazzo, che la guardava un po’ spaesato e un po’ irritato << Cosa? >>
<< Suoneresti per me? >> ripeté.
Lui sbuffò.
Proprio non se la sentiva, di riprendere a suonare.
Non voleva farlo e non l’avrebbe fatto.
Poi la guardò, incontrando quegli occhi speranzosi. Li stessi di quella volta, nei sotterranei.
E non se la sentì di rifiutare.
<< E va bene >> sbottò irritato << Che suono? >>
<< Claire de Lune >>

Note: Hola! eccomi di nuovo sul fandom >_< sfogliando tra i documenti, ho trovato questa vecchia fanfiction. Rileggendola, ho capito perchè non l’ho mai pubblicata – insomma, voi ce lo vedete un senso?
In ogni caso, mi ero diverta a immaginare una scena così. Se non vi piace, incolpate il mio neurone malvagio.
Piccola infomazione di servizio: dato che sono sotto esami fino alla settimana prossima, ho interrotto tutte le long-fic (anche se sto producendo tante drabble negli orari notturni xD) su Soul Eater. Appena possibile, riprenderanno, più in forma di prima (si spera)
Mi defilo.
Grazie a tutti per la lettura. *si inchina*